Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16868 del 07/07/2017


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Cassazione civile, sez. I, 07/07/2017, (ud. 12/04/2017, dep.07/07/2017),  n. 16868

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 28569/2013 R.G. proposto da:

P.E., rappresentata e difesa dall’Avv. Emanuele Squarcia,

ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo, alla

via P. Mercuri n. 8 in Roma;

– ricorrente –

contro

ICCREA BANCA Spa, Istituto Centrale del Credito Cooperativo, in

persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e

difesa dall’Avv. Mario Brancadoro, ed elettivamente domiciliata

presso il suo studio, alla via Federico Cesi n. 72 in Roma;

– controricorrente –

avverso la sentenza del Giudice di pace di Roma n. 21676/2013,

depositata il 12 giugno 2013.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 12 aprile 2017

dal Consigliere Dott. Paolo Di Marzio;

udito l’Avv. Mario Brancadoro per la controricorrente, non essendo

comparso il difensore della ricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo

dichiararsi l’inammissibilità del ricorso ed in subordine

domandandone il rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

P.E. conveniva in giudizio innanzi al Giudice di pace di Roma l’ICCREA BANCA Spa, ricordando di essere stata titolare di tessera bancomat emessa dalla Banca convenuta. Esponeva, quindi, che in data (OMISSIS), alle ore 9,00 circa, aveva subito lo “scippo” della propria borsa, che conteneva anche la tessera bancomat. Utilizzando la tessera, ignoti avevano poi sottratto dal conto corrente della esponente la somma di Euro 750,00, effettuando tre prelievi di Euro 250,00 ciascuno a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro. La P. dichiarava di aver proceduto ad informare della sottrazione la Banca emittente la tessera, e di aver pure sporto regolare denuncia all’Autorità di pubblica sicurezza.

Il Giudice di pace rigettava la domanda osservando, innanzitutto, che l’attrice aveva provveduto a segnalare alla Banca la sottrazione della propria tessera bancomat, affinchè potesse essere apposto il c.d. blocco, soltanto alle 16,29, numerose ore dopo averne subito la sottrazione. Aveva perciò violato la prescrizione di cui all’art. 5 del contratto stipulato con la Banca, che la abilitava ad operare con il bancomat, ed espressamente prevede che il blocco della carta debba essere richiesto immediatamente dopo averne subito la sottrazione. Osservava il Giudice di pace che “solamente da quando viene comunicato il numero di blocco da parte dell’operatore la denuncia di sottrazione diviene opponibile alla banca”. L’aver atteso ore prima di attivarsi, in assenza di valida giustificazione, costituiva una grave forma di negligenza da parte della P.. Inoltre, lo stesso art. 5 del contratto di utilizzo della tessera bancomat impegnava la cliente a custodire separatamente la tessera ed il suo Pin (codice numerico identificativo), ed “appare inverosimile che gli autori del fatto abbiano potuto digitare correttamente il codice di accesso, senza conoscere l’esatta sequenza”.

Avverso la decisione del Giudice di pace di Roma ha proposto ricorso per cassazione P.E., affidandosi a tre motivi. Ha resistito con controricorso ICCREA BANCA Spa, Istituto Centrale del Credito Cooperativo.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo di ricorso, indicato come proposto ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, in relazione alla diligenza qualificata richiesta all’Istituto di Credito, e dell’art. 1229 c.c., in terna di clausole di esonero da responsabilità, per affermata violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente ha contestato la pronuncia del Giudice di pace per aver deciso sulla base di mere supposizioni, senza tener conto della responsabilità aggravata che la legge pone a carico della Banca. La Suprema Corte, ha rilevato la ricorrente, ha già chiarito che il mero ritardo nella comunicazione della subita sottrazione della tessera bancomat, non esclude che debba comunque procedersi alla verifica della eventuale responsabilità contrattuale della banca. Il giudice di prime cure, però, aveva completamente omesso una simile verifica, e si era limitato a porre l’accento sul ritardo nella segnalazione di cui si sarebbe resa responsabile la cliente, ed a ritenere accertato che vi fosse stata negligenza di quest’ultima nel non aver custodito il codice di accesso (PIN) separatamente dalla tessera bancomat. Il Giudice di pace aveva disinvoltamente omesso di provvedere a qualsiasi accertamento, limitandosi a prendere per buona, ritenendola addirittura provata, la mera prospettazione della Banca, secondo la quale, tra l’altro, non erano avvenuti previ infruttuosi tentativi di prelievo.

2. – Con il secondo motivo di ricorso, indicato come proposto per la contestata violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., in tema di onere della prova, contestando il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente criticava che la decisione del Giudice di pace appariva fondata su apodittiche affermazioni che comportavano l’adesione alle prospettazioni fornite dalla Banca, senza valutarle nella loro coerenza e, soprattutto, senza richiedere che fossero assistite da adeguato corredo probatorio. Il giudice di prime cure aveva ritenuto scontato che la odierna ricorrente avesse custodito insieme la tessera bancomat ed il pin identificativo (numero che consente l’utilizzo della tessera per effettuare prelievi), senza che esistesse alcuna prova in proposito. Anzi, la prova contraria articolata dalla P. non era stata ammessa dal giudicante. Anche la supposizione su cui aveva fondato la propria riflessione il Giudice di pace appariva poi fallace, considerato che i prelievi erano stati effettuati oltre un’ora dopo la sottrazione della tessera, ed in luogo poco distante dall’avvenuta sottrazione. In considerazione di questo dato poteva, al contrario di quanto affermato dal giudice, ritenersi che i sottrattori non disponessero del codice, e siano stati costretti a procedere per tentativi.

3. – Con il terzo motivo di ricorso, indicato come proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, a causa dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, in relazione alla omessa ammissione di prove, in violazione dell’art. 115 c.p.c., la P. ribadiva la propria contestazione dell’operato del Giudice di pace, che aveva dato per buone mere prospettazioni fornite dalla controparte, senza richiedere che quest’ultima provvedesse a fornire alcuna prova, ed aveva invece impedito la prova alla odierna ricorrente non ammettendo l’espletamento dei richiesti esami testimoniali.

Nel suo controricorso, mediante il quale ha peraltro contrastato, in merito ed in rito, ogni rilievo proposto dalla ricorrente, la ICCREA BANCA Spa ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per cassazione introdotto da controparte, perchè proposto avverso una sentenza del giudice di pace pronunciata secondo diritto e non secondo equità.

La eccezione preliminare proposta dalla controricorrente, per ragioni logiche e sistematiche, deve essere subito valutata.

Appare pacifico, e non contestato, che la ricorrente abbia introdotto il giudizio per domandare la restituzione della somma di Euro 750,00, affermando la responsabilità contrattuale dell’Istituto di credito. Ai sensi dell’art. 339 c.p.c., possono essere impugnate con appello le sentenze pronunciate in primo grado, purchè l’appello non sia escluso dalla legge o dall’accordo delle parti. Nel caso di specie nessun accordo in merito risulta essere stato raggiunto dalle parti.

Occorre pertanto valutare se, nel caso di specie, esista un divieto legale all’impugnazione mediante appello della decisione in esame. L’art. 113 c.p.c., comma 2, prevede che: “Il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede millecento euro…”, e l’art. 339, comma 2, dispone che “Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell’art. 113, comma 2, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia”. Sembra potersi desumere dall’impostazione della difesa della ricorrente che abbia inteso richiamarsi a questa normativa e, volendo proporre contestazioni che non hanno la natura di quelle appena trascritte, abbia ritenuto di poter proporre ricorso immediato in cassazione. A parte ogni rilievo sulla fondatezza di una simile impostazione, occorre però rilevare che il ricordato art. 339 c.p.c., comma 2, dopo aver indicato i limiti di appellabilità delle sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equità quando la causa non eccede il valore di millecento euro, prevede un’eccezione, e dispone espressamente che la regola della decisione secondo equità non si applica nelle cause “derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 c.c.”, pertanto questi giudizi devono essere decisi secondo diritto, e la pronuncia è appellabile (cfr. Cass. sent. 15.1.2013, n. 793). L’art. 1342 c.c., regola il contratto concluso mediante la sottoscrizione di moduli o formulari, predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali. Queste cause, quindi, devono essere decise secondo diritto dal giudice di pace, e possono essere impugnate mediante appello, con critica libera. E’ dato di comune esperienza che gli ordinari contratti bancari sono conclusi mediante sottoscrizione di un modulo o formulario predisposto unilateralmente dalla banca, che ordinariamente si avvale di modelli elaborati dall’ABI. Nel caso di specie, in ogni caso, la controricorrente non si è limitata ad affermare che il contratto mediante il quale si era riconosciuta la possibilità della ricorrente di servirsi della tessera bancomat per effettuare prelievi dal proprio conto corrente, consisteva in un modulo/formulario di adesione a condizioni generali di contratto predisposto dall’istituto bancario, cui la ricorrente aveva apposto la prevista duplice sottoscrizione, ma ha anche provveduto ad indicare specificamente dove il contratto in questione fosse reperibile nell’incartamento processuale.

Tanto si è osservato per assicurare risposta alle difese proposte dalle parti, ma sembra opportuno chiarire che, a seguito della riforma operata con il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e pertanto con decorrenza dal 2.3.2006, la disciplina dell’impugnazione delle sentenze pronunciate dal Giudice di pace prevede che le decisioni del magistrato onorario non sono mai suscettibili di ricorso diretto in Cassazione, ma solo di impugnazione in appello, mediante critica libera o limitata.

Assodato quanto precede, deve ancora rilevarsi che, nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., parte ricorrente ha domandato rimettersi la causa al giudice competente a decidere sull’appello, invocando quanto deciso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con sent. 14.9.2016, n. 18121, laddove è stato affermato che “l’appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall’art. 341 c.p.c., non determina l’inammissibilità dell’impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii. Questa Corte, ha però già avuto occasione di precisare, proponendo un orientamento condivisibile ed al quale si ritiene pertanto di dover assicurare continuità, che il principio affermato dalle Sezioni Unite trova applicazione “esclusivamente in relazione ad un’impugnazione pur sempre proposta in modo corretto ed ammissibile, e quindi nell’ambito di un mezzo di impugnazione idoneamente individuato… ad analoga conclusione non può pervenirsi… quando ad essere erroneo non sia solo l’individuazione del destinatario dell’impugnazione stessa, ma lo stesso mezzo con cui gravare la sentenza”, come è avvenuto nel caso in esame, in cui la ricorrente, anzichè impugnare mediante appello la decisione di prime cure, ha introdotto un ricorso diretto in Cassazione. Quando è “errata l’individuazione del mezzo di impugnazione… non è validamente adito il giudice competente sull’impugnazione stessa e non insorge, neppure alla stregua degli innovativi principi affermati dalle Sezioni Unite, alcun obbligo del giudice così adito, nè alcun diritto dell’impugnante, di trasmettere la causa al giudice competente sul corretto mezzo di impugnazione con gli effetti conservativi propri della c.d. traslatio iudicii, risultando sic et simpliciter inammissibile il mezzo di impugnazione erroneamente proposto”, Cass. n. 25078 del 2016.

Ne consegue che il proposto ricorso deve essere dichiarato inammissibile, poichè la decisione del giudice di pace avrebbe dovuto essere impugnata mediante appello, proponendo ricorso al Tribunale, che la ricorrente non ha però introdotto.

Le spese di lite seguono la soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo. Riscontrato che il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 18, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla citata L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna P.E. al pagamento delle spese di lite in favore della costituita resistente, e le liquida in complessivi Euro 500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2017

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