Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16865 del 10/08/2020

Cassazione civile sez. lav., 10/08/2020, (ud. 19/02/2020, dep. 10/08/2020), n.16865

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20147-2014 proposto da:

COOPITAL SOCIETA’ COOPERATIVA, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CLISIO 9, presso

lo studio dell’avvocato MAJOLINO ADRIANO, rappresentata e difesa

dall’avvocato FRANCESCO RANIERI;

– ricorrente –

contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI

INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144,

presso lo studio degli Avvocati LUIGI LA PECCERELLA, GIANDOMENICO

CATALANO, LORELLA FRASCONA’, RAFFAELA FABBI, che lo rappresentano e

difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 169/2014 della CORTE D’APPELLO di 09/05/2014

R.G.N. BRESCIA, depositata il 620/2013.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza n. 169 del 2014, la Corte d’Appello di Brescia ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto del ricorso proposto da Coopital Società Cooperativa nei confronti dell’Inail al fine di far accertare l’infondatezza della pretesa dell’Istituto riguardante il conguaglio del premio pagato nel periodo 2007-2011, con riferimento ai soci lavoratori e per il conseguente annullamento dei provvedimenti di variazione emessi dall’INAIL nel corso dell’anno 2012, per l’importo complessivo di Euro 255.047,44;

ad avviso della Corte territoriale, premesso in fatto che nell’arco temporale considerato la cooperativa aveva versato i premi relativi ai soci lavoratori quantificandoli sulla retribuzione standard e convenzionale e non su quella realmente percepita e che ciò era accaduto con le modalità da sempre utilizzate su indicazione dell’INAIL, ha statuito che D.Lgs. n. 423 del 2001, art. 3, comma 4, impone, dal primo gennaio 2007, per la determinazione della retribuzione imponibile ed ai fini del versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, l’applicazione il D.L. n. 338 del 1989, art. 1, comma 1, e cioè la regola secondo la quale soltanto quando la retribuzione individuale è inferiore a quella base prevista dalla contrattazione collettiva nazionale scatta la retribuzione convenzionale: quando, invece, tale retribuzione è superiore è la stessa a costituire la base imponibile;

inoltre, la Corte ha ritenuto che l’obbligo della cooperativa scaturente dall’applicazione di tale regola non era stato neutralizzato dalla condotta tenuta dall’INAIL, ritenuta fonte di affidamento nella correttezza dei pagamenti effettuati, nè risultava violato il principio di buona fede e correttezza posto alla base dei rapporti tra pubblica amministrazione e contribuente, in ragione della indisponibilità dell’obbligo contributivo e dell’assenza di esplicite previsione di legge derogatrici; peraltro, non vi era prova che l’INAIL avesse tenuto una condotta di tal genere poichè già con la circolare n. 45 del 2002 e poi con la successiva n. 24 del 2007 i termini della questione erano stati esplicitati: ciò impediva in radice che si potesse ipotizzare la buona fede della contribuente;

avverso tale sentenza ricorre per cassazione Coopital Società Cooperativa sulla base di due motivi;

resiste l’INAIL con controricorso;

entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

con il primo motivo si denuncia l’erronea e falsa applicazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 9, e la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 10 in ragione del fatto che il principio di indisponibilità ed irrinunciabilità delle obbligazioni contributive era stato ritenuto prevalente rispetto alle condotte di acquiescenza e di rinuncia poste in essere dall’Istituto, nonostante che la L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 9, giustificasse non già un simile principio, ma soltanto l’impossibilità di versare contributi prescritti e, per l’ente, l’impossibilità di riceverli; pertanto, da tale previsione non si potevano trarre argomenti per negare l’operatività della tutela del legittimo affidamento fissata dalla L. n. 212 del 2000, art. 10 (Statuto del contribuente);

il secondo motivo deduce l’omessa valutazione di un punto decisivo della controversia oggetto di discussione tra le parti, individuato nella sussistenza della situazione di legittimo affidamento ingenerato nella società, situazione provocata dall’INAIL con condotte specifiche, debitamente indicate e culminate con il rilascio del DURC, ancor più perchè ciò corrispondeva ad una possibile interpretazione del D.Lgs. n. 423 del 2011;

i motivi, in quanto connessi, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati;

essi si incentrano sul presupposto che esista, nel sistema normativo che regola gli obblighi contributivi, un principio di necessaria tutela dell’affidamento del contribuente tale da comportare effetti abdicativi del potere di imposizione in ipotesi di acquiescenza posta in essere dalla pubblica amministrazione;

viene invocato, al fine di ravvisare la base normativa dell’accennato principio, la L. n. 212 del 2000, art. 10 il quale è intitolato alla tutela dell’affidamento ed alla buona fede del contribuente e dispone, al comma 1, che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede;

nel fare applicazione di tale disposizione la giurisprudenza di legittimità ha precisato che la materia tributaria è regolata soltanto dalla legge, con esclusione di qualunque potere o facoltà discrezionale dell’amministrazione finanziaria (in questa prospettiva cfr. Cass., Sez. 1, 25 marzo 1983, n. 2092 e 17 novembre 1995, n. 11931; Cass. Sez. 5, 10 novembre 2000, n. 14619 e del 14 luglio 2003n. 11011; Cass. n. 3854 del 2019) e che l’eventuale tutela del contribuente sotto il profilo dell’affidamento di fronte al mutamento di indirizzo interpretativo adottato dall’amministrazione va coniugato con il concetto di inderogabilità delle norme tributarie, di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, di vincolatività della funzione di imposizione, di irrinunciabilità del diritto di imposta (Cass. S.U. sent. n. 23031/07); dunque, ammettere che “l’amministrazione, quando esprime opinioni interpretative (ancorchè prive di fondamento nella legge), crea vincoli per sè e i Giudici tributari, equivale a riconoscere all’amministrazione stessa un potere normativo che è in palese conflitto con il principio costituzionale della riserva relativa di legge codificato dall’art. 23 Cost.. Tutt’al più, come è stato pure affermato, potrebbe ammettersi che il mutamento da parte dell’amministrazione di un precedente indirizzo (interpretativo) sul quale il contribuente possa aver fatto affidamento, eventualmente rilevi (o possa esse valutato) ai fini della applicazione delle sanzioni”;

la ricorrente intende traslare la normativa di cui si parla nell’ambito della materia contributiva previdenziale al fine di fare accertare l’estinzione dell’obbligazione contributiva pretesa dall’INAIL, ma tale pretesa è all’evidenza del tutto priva di fondamento giacchè, a tutto voler concedere, l’art. 10 cit. in ragione del rispetto del principio di tutela dell’affidamento prevede, qualora ne ricorrano i presupposti, solo che dall’inadempimento non sorgano sanzioni e non vengano richiesti interessi moratori, non certo che ne risulti estinto l’obbligo tributario;

peraltro, anche in vista di tale ridotta astratta possibilità di limitazione della pretesa, va osservato che pure l’obbligazione contributiva partecipa dell’origine pubblicistica al più alto livello, traendo origine dall’art. 38 Cost. e che essa è una prestazione patrimoniale coperta dalla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. (Corte Cost. n. 173 del 1986, n. 421 del 1995, n. 178 del 2000, n. 173 del 2016); in più occasioni questa Corte di legittimità ha affermato il carattere indisponibile dell’obbligo contributivo (tra le tante, v. Cass. n. 11289 del 2003; Cass. n. 13650 del 2019) e conferma tale indisponibilità la disciplina della prescrizione costituita in origine dal R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 55 poi reiterata dalla L. n. 153 del 1969, art. 41 ed ancora confermata dall’ultimo intervento strutturale sul tema (L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10 cit.), nonchè dalla stessa applicazione giurisprudenziale (Cass. 18.2.1991, n. 1703);

a fronte di quanto sin qui esposto, è evidente l’irrilevanza delle circostanze addotte dalla ricorrente in ordine alla condotta (anche se tradottasi in rilascio di quietanze o del DURC) tenuta dall’INAIL nel corso degli anni, a fronte della obbligazione contributiva imposta dalla legge dal 1 gennaio 2007; altrettanto irrilevante deve considerarsi lo stato soggettivo di buona fede in cui la parte debitrice possa essersi trovata;

ciò in ragione di quella doverosità per l’istituto di conformarsi alla legge che ne giustifica la potestà di autotutela; conseguentemente, l’istituto può sempre procedere al riesame delle decisioni dei propri organi ed annullare d’ufficio, con effetto “ex tunc”, qualsiasi provvedimento che risulti “ab origine” adottato in contrasto con la normativa pubblicistica vigente; tale potere deve essere infatti esercitato dall’ente previdenziale, quale pubblica amministrazione, sulla base dei principi del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa fissati dall’art. 97 Cost. (Cass. n. 6548 del 1996; Cass. n. 11594 del 1997);

nel caso di specie, peraltro, come correttamente messo in rilievo dalla sentenza impugnata, la complessa attività amministrativa di riscossione dei premi si è collocata in un periodo di transizione generato dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 423 del 2001, che, da un lato, non consente di attribuire alla condotta dell’istituto impliciti riconoscimenti della correttezza dei versamenti effettuati riferibili alla nuova disciplina e, dall’altro, non consente di ravvisare i tratti essenziali dell’incolpevole buona fede in capo al debitore;

in definitiva, il ricorso va rigettato;

le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.500,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15% e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2020

 

 

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