Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1685 del 27/01/2010

Cassazione civile sez. III, 27/01/2010, (ud. 06/11/2009, dep. 27/01/2010), n.1685

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SENESE Salvatore – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. CHIARINI M. Margherita – rel. Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 26891-2005 proposto da:

G.S., G.M., GA.SU., F.

M., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZALE ARDIGO’ 38,

presso lo studio dell’avvocato MAFFEY CATERINA, rappresentati e

difesi dall’avvocato GAUDIOSI SONIA giusta delega a margine ricorso;

– ricorrenti –

contro

F.F., nella qualità di procuratrice generale di

FO.FE.;

– intimata –

sul ricorso 3436-2006 proposto da:

F.F. nella qualità di procuratore generale di F.

F., da considerare domiciliata in ROMA presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’Avvocato

AMENDOLA BRUNO con studio in 84100 SALERNO, PIAZZA DELLA CONCORDIA 38

giusta delega in calce al controricorso e ricorso incidentale.

– ricorrente –

contro

G.M., G.S., GA.SU., F.

M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 94/2005 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

emessa il 22/6/2004, depositata il 11/02/2005, R.G.N. 317/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/11/2009 dal Consigliere Dott. ALBERTO TALEVI;

udito l’Avvocato BRUNO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni che ha concluso previa riunione, declaratoria

ufficiosa di nullità dell’intero giudizio per carenza insanabile di

capacità processuale di F.F. e violazione ex art. 78

c.p.c., art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 2, cassazione senza

rinvio; spese dell’intero processo a carico del ricorrente.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

“Con citazione, notificata, il 2.2.98, G.S., G. M., F.M. e Ga.Su., convenivano dinanzi al Tribunale di Salerno, F.F., quale procuratrice generale di Fo.Fe., chiedendo la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni subiti per le parole asseritamente ingiuriose e diffamanti, contenute in una lettera, in data (OMISSIS), inviata da Fo.Fe. alla sorella F., depositata da quest’ultima in una delle udienze tenutesi in una causa civile da lei intentata nei confronti della sorella M.. Fo.Fe., come rappresentata resisteva alla domanda.

Nel corso della causa era prodotta documentazione. Indi l’adito Tribunale, con sentenza n. 1796, in data 20.3.02/5.6.02, rigettava la domanda e compensava interamente le spese. Avverso detta sentenza, non notificata, proponevano appello, innanzi a questa Corte, G.S., M. e Su. nonchè F.M., con citazione in data 31 marzo 2003, articolato in una sola complessa doglianza, della quale sarà dato debito conto in prosieguo, chiedendo, in riforma della stessa, il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, sofferti da ciascuno degli appellanti, nella misura ritenuta giusta e di ragione da questa Corte, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal compimento dell’illecito al soddisfo; con vittoria di spese, competenze ed onorari del doppio grado di giudizio. F.F., nella qualità, resisteva all’impugnazione, in quanto inammissibile e comunque infondata. Con vittoria di spese. All’udienza del 4.3.2004 la causa era riservata per la decisione, concedendosi i termini di cui all’art. 190 c.p.c. sulle conclusioni innanzi trascritte”.

Con sentenza 22.6.2004 – 11.2.2005 la Corte di Appello di Salerno decideva come segue.

“La Corte rigetta l’appello proposto da G.S., G. M., Ga.Su. e F.M., con atto in data 31.3.2003 avverso la sentenza n. 1796 emessa in data 20.3.02/5.6.02 dal Tribunale di Salerno in composizione monocratica nei confronti dei predetti nonchè di F.F., quale procuratrice generale di Fo.Fe.. Detta sentenza confermata, condanna gli appellanti, in solido, al pagamento, in favore dell’appellata F.F., quale procuratrice generale di Fo.Fe., delle spese relative al presente grado di giudizio, liquidate in Euro 60,00 per esborsi, Euro 700,00 per diritti di procuratore ed Euro 2500,00 per onorari di avvocato, oltre 10% su diritti ed onorari, IVA e CPA come per legge”.

Contro questa decisione hanno proposto ricorso per cassazione G.S., M., Su. e F.M. (dette parti hanno anche depositato memoria).

Ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale F.F. quale procuratrice generale di Fo.Fe.

(anche detta parte ha depositato memoria).

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va anzitutto disposta la riunione dei ricorsi.

Secondo il P.M. sussiste (ex art. 78 c.p.c., comma 2) e va rilevato d’ufficio vizio insanabile della costituzione del rapporto processuale e violazione del principio del contraddittorio, perchè:

– ai sensi dell’art. 93 della Legge sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, F. F. non poteva legittimamente divulgare il contenuto della missiva confidenziale inviatale dalla sorella Fe.;

– il reato di diffamazione è stato perpetrato non con l’invio a F.F., ad opera di Fo.Fe., della missiva ma con la sua divulgazione ad opera di F.F.; resta se mai da stabilire se quest’ultima avesse divulgato la lettera con il consenso di Fo.Fe., ma certamente F.F. non sarebbe esente da responsabilità e non avrebbe interesse a difendere (anche) la sorella Fe.;

– pertanto, ne dubbio sulla complicità delle due sorelle ovvero sulla esclusiva responsabilità di F.F., costei certamente non poteva rappresentare in giudizio validamente Ferdinanda, dato il palese conflitto di interesse;

– perciò gli attori non potevano legittimamente convenire in giudizio F.F. in rappresentanza di Fo.Fe.

ed avrebbero dovuto instare ex art. 78 c.p.c.. per la nomina del curatore speciale; ed anche il Giudice di merito avrebbe dovuto rilevare d’ufficio la palese nullità che coinvolge sia la capacità del rappresentante sia soprattutto l’effettività del contraddittorio;

– la nullità ex art. 78 cit. è rilevabile d’ufficio.

Le tesi in questione non possono essere accolte.

Occorre infatti rilevare che le questioni sollevate dalle tesi predette (vizio di costituzione del rapporto processuale e violazione del principio del contraddittorio) potevano essere oggetto di dibattito o rilevate d’ufficio in primo grado; ma è palese che, anche ammessa in ipotesi la fondatezza delle tesi del P.M., il principio della rilevabilità d’ufficio invocato dal medesimo va necessariamente coordinato con il principio dell’intangibilità del giudicato (e ciò anche alla luce dei principi costituzionali di economia processuale e di ragionevole durata del processo).

Ciò premesso occorre rilevare che le sentenze di primo e secondo grado si basano necessariamente sulla statuizione, quanto meno implicita (cfr. per un esempio di affermata rilevabilità d’ufficio del giudicato anche implicito in materia processuale, anche la recente Cass. a SU. Sentenza n. 18499 del 20/08/2009), della non fondatezza di tutte le tesi in esame (nel senso che tali decisioni presuppongono logicamente ed inevitabilmente tale non fondatezza); e non risulta che su detti punti siano state proposte specifiche e rituali impugnazioni.

Le questioni sollevate dal P.M. (e non dai ricorrenti principali nè dalla ricorrente incidentale) sono dunque precluse a causa di detto giudicato.

I primi tre motivi del ricorso principale vanno esaminati insieme in quanto connessi.

Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., nonchè dell’art. 2059 c.c. in relazione all’art. 185 c.p. (art. 360 c.p.c., n 3)” lamentando che la Corte di merito non si è ispirata all’indirizzo dettato dalla Suprema Corte (condiviso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 233/03), secondo il quale “il danno non patrimoniale, conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente la persona costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato” (Cass. 25/11/04 – 16/3/05, n. 5677, che richiama anche Cass. 8827 e 8828/03); e che la sentenza impugnata, invece, si fonda – peraltro in modo illegittimo ed illogico – esclusivamente sull’asserita non configurabilità di reati per respingere la richiesta di risarcimento del danno alla persona.

Con il secondo motivo i ricorrenti principali denunciano “Violazione falsa applicazione dell’art. 12 c.p.c..- Violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. in relazione agli artt. 594 e 595 c.p., nonchè dell’art. 2059 c.c. in relazione all’art. 185 c.p. (dell’art. 360 c.p.c., n. 3). Motivazione illogica e contraddittoria (art. 360 c.p.c., n. 5)” esponendo censure da riassumere nel modo seguente. La sentenza impugnata non pone in dubbio la volontarietà e la consapevolezza del fatto reato e concorda con il primo giudice nel qualificare come “potenzialmente offensiva” la frase “Ti sapevo sola contro quattro persone senza scrupoli”. Tale “potenzialità”, però, non si sarebbe attuata, secondo i giudici di merito, per una serie di ragioni (soprattutto l’inesistenza di un reato e la presenza di cause di giustificazione), che in questa sede si contestano, sia in quanto configgono con precise disposizioni di legge, sia perchè frutto di un ragionamento illogico e contraddicono. Infatti la sentenza, dopo aver precisato che il reato di diffamazione richiede soltanto il dolo generico, cadendo in contraddizione ritiene di dover procedere, ai fini della configurabilità del dolo, all’accertamento dell’intenzione dell’agente e della volontà dell’evento lesivo e perviene, quindi, a conclusioni del tutto errate, ponendosi in antitesi con la legge e con la giurisprudenza che afferma la sufficienza del dolo generico.

Con il terzo motivo i ricorrenti principali denunciano “3) Violazione dell’art. 112 c.p.c. (art 360 c.p.c., n. 3) – Motivazione illogica e contraddittoria (art. 360 c.p.c., n. 5)” esponendo doglianze da riassumere nel modo seguente. La Corte di merito giustifica in vario modo – ponendosi in aperto contrasto con la logica e con gli insegnamenti della S.C. – talune delle espressioni offensive che, nello scritto incriminato, precedono la frase “ti sapevo sola contro quattro persone senza scrupoli” (“si sono sentiti padroni di mamma … e dei suoi sentimenti”, “si sentirono scoperti …”), ma sorvola del tutto (nonostante la precisa eccezione degli appellanti sul punto) anche sulla frase “si sono sentiti padroni delle “cose” (di mamma) e sull’altra: “abbiamo lasciato correre tante dolorose situazioni”, espressioni più che mai idonee ad insinuare dubbi sulla moralità dei soggetti passivi del reato, anche qui ponendosi in contrasto con la giurisprudenza della S.C. Pur volendo ammettere, infatti, che Fe. avesse (anche) l’intenzione di porgere aiuto alla sorella F., non si riesce a comprendere perchè il porgere aiuto dovesse implicare inevitabilmente l’offesa all’onorabilità di un’intera famiglia. Fo.Fe. ha fatto due cose indipendenti l’una dall’altra: 1) ha inteso aiutare la sorella (e lo ha dichiarato con la frase sopra riportata); 2) ha diffamato i ricorrenti. La prima finalità non esclude in alcun modo l’altra.

I primi tre motivi non possono essere accolti.

La doglianza contenuta nel primo motivo, se considerata in relazione all’effettiva motivazione della Corte, non può ritenersi sufficientemente chiara e specifica (il che costituisce una prima sufficiente causa di inammissibilità).

Comunque se con la medesima i ricorrenti intendono (direttamente od indirettamente) lamentare anche l’omessa valutazione della questione concernente la sussistenza o meno della colpa (ai sensi della normativa di cui agli artt. 2043 e segg. c.c.), va rilevato che in effetti la Corte di merito non l’ha affrontata e che quindi dette parti avrebbero pertanto dovuto indicare ritualmente se ed in quale atto, nonchè (per il principio di autosufficienza del ricorso; cfr.

tra le altre Cass. n. 4754 del 13/05/1999; Cass. n. 376 del 11/01/2005; Cass. n. 20321 del 20/10/2005; Cass. n.. 1221 del 23/01/2006; Cass. n. 8960 del 18/04/2006; Cass. Sentenza n. 7767 del 29/03/2007; Cass. Sentenza n. 6807 del 21/03/2007; Cass. Sentenza n. 15952 de 17/07/2007) – in quali esatti termini, le tesi in questione erano state sottoposte al giudizio del Giudice di secondo grado (cfr.

tra le altre Cass. Sentenza n. 20518 del 28/07/2008: “Ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fallo – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, ai fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa; cfr.

anche Cass. N. 14590 del 2005)”.

Se i ricorrenti invece intendono (solo) affermare che la Corte d’Appello si è basata sulle norme di cui sopra (in particolare sull’art. 2059 c.c. in relazione all’art. 185 c.p.) per negare l’accoglimento delle domande, si è di fronte a doglianze inammissibili, oltre che per la suddetta mancanza di sufficiente chiarezza e specificità (che costringe questa Corte ad ipotesi interpretative), anche in quanto censurano tesi che detto Giudice non ha espresso. Il rigetto dell’appello infatti è basato, in estrema sintesi, sull’affermata insussistenza del dolo in relazione all’unica frase potenzialmente offensiva e – come ulteriore ratio decidendi – sulla presenza di scriminanti; e non sulle norme in questione sotto il profilo che sembrerebbe criticato nel ricorso per cassazione (asseritamente ritenuta impossibilità di liquidazione del danno morale ex artt. 2043 e 2059 c.c. in relazione all’art. 185 c.p.).

Infatti il Giudice di secondo grado ha chiaramente, pur se implicitamente, applicato il seguente principio di diritto (che va confermato): “Il danno non patrimoniale, alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., costituisce una categoria ampia, comprensiva non solo del cosiddetto danno morale, ovverosia della sofferenza contingente e del turbamento d’animo transeunte, determinati da un fatto illecito integrante un reato, ma anche di ogni ipotesi in cui si verifichi un’ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, alla quale consegua un pregiudizio non suscettibile di valutazione economica, senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 cod. pen..

Quindi, poichè l’onore e la reputazione costituiscono diritti della persona costituzionalmente garantiti, la loro lesione legittima sempre la persona offesa a domandare il ristoro del danno non patrimoniale, quand’anche il fatto illecito non integri gli estremi di alcun reato” (cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 14551 del 22/06/2009; e Cass. Sentenza n. 25157 del 14/10/2008).

Anche le ulteriori argomentazioni esposte in sentenza non sono basate su dette norme (e comunque, anche a prescindere da ciò, sono ad abundantiam; e quindi sono inammissibili pure per tale ragione tutte le doglianze che le riguardano; cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 13068 del 05/06/2007).

Ciò premesso, si osserva anzitutto che si sottraggono al sindacato di legittimità in quanto immuni dai vizi logici e giuridici denunciati le motivazioni con cui la Corte ha ritenuto prive di “…

valenza ingiuriosa o diffamatoria …” le altre frasi oggetto del ricorso per cassazione.

Va poi presa in esame (con riferimento all’unica frase ritenuta dotata di valenza potenzialmente offensiva) la prima ed essenziale ratio decidendo, concernente l’affermata assenza di dolo (evidentemente inteso come elemento della responsabilità civile per atto illecito; e solo in questo senso come elemento da accertare anche ai fini della liquidabilità del danno non patrimoniale conformemente al sopra citato principio di diritto).

Da una attenta analisi della motivazione esposta dalla Corte si evince che questa, allorquando ha esposto le osservazioni criticate dai ricorrenti (e cioè, ad es. ha affermato che il fine perseguito era diverso dall’offesa; che la volontà di sostegno in favore della sorella traspariva da tutta la lettera; che quest’ultima non appariva diretta a denigrare gratuitamente i parenti G., bensì a stigmatizzarne il comportamento, ecc.) non ha inteso affermare la necessità di un dolo specifico e l’inesistenza del medesimo nella fattispecie; ma ha invece voluto sostenere che, proprio a causa di tali intenti, Fo.Fe. non si è mai resa conto della potenzialità offensiva di quanto ha scritto (e cioè non ha mai avuto la consapevolezza di offendere l’onore e la reputazione altrui). E pertanto ha negato la sussistenza del dolo generico (oltre che di quello specifico) sulla base di un concetto del medesimo giuridicamente corretto (pienamente conforme a quello enunciato da tempo da questa Corte Suprema; cfr. ad es., tra le altre, Cass. Sentenza n. 26964 del 20/12/2007: “In tema di diffamazione, conformemente alla giurisprudenza penale della S.C., è necessario e sufficiente che ricorra il cosiddetto dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale, cioè la consapevolezza di offendere l’onore e la reputazione altrui, la quale si può desumere dalla intrinseca consistenza diffamatoria delle espressioni usate”).

La motivazione sul punto, oltre ad essere immune da vizi giuridici, è immune anche da vizi logici (pur se parzialmente implicita). Ed è inoltre sufficiente a sorreggere anche da sola la decisione di rigetto dell’appello (una volta assodato che ogni doglianza in tema di colpa è inammissibile e non va quindi considerata, è decisiva la correttezza dell’affermazione della Corte di merito secondo cui se non vi è dolo non può sussistere la responsabilità civile per l’atto illecito in questione, ex art 2043 e segg. c.c.). Non sussiste pertanto la necessità di esaminare pure le doglianze proposte dai ricorrenti in ordine alle affermate scriminanti (costituenti solo una ulteriore autonoma ratio decidendi) ed alle altre tesi contenute in sentenza.

Quanto ora esposto ha valenza assorbente rispetto agli ulteriori motivi di ricorso:

– il quarto motivo (che nel ricorso è – per evidente lapsus – indicato con il n. 3) con cui i ricorrenti denunciano “Violazione dell’art. 112 Cost. (art. 360 c.p.c., n. 4) – Violazione dell’art. 111 Cost., degli artt. 101, 183 e 189 c.p.c. – Violazione e falsa applicazione dell’art. 51 c.p. con riferimento agli artt. 594 e 595 c.p. (art. 360 c.p.c., n. 3). Violazione e falsa applicazione dell’art. 599 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) – Motivazione illogica e contraddittoria (art. 360 c.p.c., n. 5)” in relazione al “diritto di critica”, ed alle esimenti o cause di giustificazione in genere;

– Il quinto motivo (che nel ricorso è, per evidente lapsus, indicato con il n. 4) con cui i ricorrenti denunciano “Violazione e falsa applicazione degli artt. 21, 2 e 3 Cost.” lamentando che il ricorso all’art. 21 Cost., invocato nella sentenza impugnata, è incongruo ed illogico.

– Il sesto motivo (che nel ricorso è, per evidente lapsus, indicato con il n. 5) con cui i ricorrenti denunciano “Violazione e falsa applicazione dell’art. 59 c.p. (art. 360 c.p.c., n. 3) – Motivazione insufficiente illogica e contraddittoria art. 360 c.p.c., n. 5” esponendo doglianze riguardanti – essenzialmente – la supposizione di circostanze di esclusione della pena (art. 59 c.p.).

– Il settimo motivo (che nel ricorso è, per evidente lapsus, indicato con il n. 6) con cui i ricorrenti denunciano “Violazione degli artt. 50, 51, 52, 53, 54, 55 e 59 c.p., degli artt. 2 e 3 Cost., nonchè dell’art. 113 c.p.c., art. 360 c.p.c., n. 3.

Motivazione illogica art. 360 c.p.c., n. 5 esponendo censure circa le “cause di giustificazione non codificate”. – L’ottavo motivo (che nel ricorso è, per evidente lapsus, indicato con il n. 7) con cui i ricorrenti denunciano “Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. sotto il profilo dell’extra o dell’ultra petizione art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. Motivazione contraddittoria ed illogica art. 360 c.p.c., n. 5” lamentando che “… Inopinatamente, e pronunciando oltre ed al di fuori dei limiti della domanda, la Corte di merito delibera che la signora L. R., madre delle contendenti, non era pienamente capace di intendere e di volere …” e rilevando che “… AI fine di evitare eventuali, benchè improbabili, ripercussioni negative che, sia pure indirettamente, potrebbero verificarsi su altri giudizi in corso, si chiede che venga comunque espressamente cassata anche la parte della sentenza, in cui la Corte afferma. “La tesi degli appellanti secondo cui L.R. sarebbe stata pienamente capace di intendere e di volere, pertanto non appare fondata …”; infatti trattasi di un punto della decisione irrilevante a causa di quanto sopra esposto; ed in ordine al quale, per di più, non viene ritualmente prospettato un concreto interesse all’impugnazione; anche a prescindere dal suddetto assorbimento, sussistono dunque tali due ragioni di inammissibilità della doglianza.

– Il nono motivo (che nel ricorso è, per evidente lapsus, indicato con il n. 8) con cui i ricorrenti denunciano “Violazione dell’art. 112 c.p.c. per mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 360 c.p.c., n. 4). Nullità della sentenza” lamentando essenzialmente che “… Con un atto di appello di 2 pagine, i ricorrenti muovevano una serie di dettagliate contestazioni alla sentenza di primo grado …” e che “… A fronte di tale complessa e minuziosa critica alle argomentazioni addotte dalla sentenza di prime aire, la Corte di merito si limita a sostenere (pag. 10) che “L’unica complessa doglianza non scalfisce il decisum del Tribunale; che “L’appello si fonda su una visione del tutto personale ed interessata dei fatti e che (pag. 11) la doglianza ha una valenza puramente discorsiva”.

Sulla base di quanto sopra esposto il ricorso principale va respinto.

Deve quindi ritenersi assorbito il ricorso incidentale il quale è sostanzialmente condizionato (v. in particolare la seguente frase, e soprattutto le parole riportate in grassetto: “… Ne consegue che debba trovare applicazione l’esimente di cui all’art. 598 c.p.c. citato, e di conseguenza, in linea subordinata, vada integrata la motivazione della sentenza impugnata in tali sensi, fermo il dispositivo di rigetto della pretesa degli attuali ricorrenti …), anche se non è formalmente indicato come tale.

Considerate le peculiarità della fattispecie, sussistono giusti motivi per compensare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale; dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato; compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 6 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2010

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