Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16834 del 09/08/2016


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Cassazione civile sez. lav., 09/08/2016, (ud. 17/05/2016, dep. 09/08/2016), n.16834

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8401-2013 proposto da:

T. S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA,

che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.M., C.F. (OMISSIS), F.C. C.F. (OMISSIS),

E.A. C.F. (OMISSIS), B.C. C.F. (OMISSIS), BE.IG.

C.F. (OMISSIS), P.M. C.F. (OMISSIS), O.G. C.F.

(OMISSIS), D.V.F. (OMISSIS), R.G. C.F.

(OMISSIS), L.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 2, presso lo studio

dell’avvocato GIORGIO ANTONINI, che li rappresenta e difende

unitamente agli avvocati GIULIA RONCARATI, CLAUDIA CONTI, giusta

delega in atti;

M.A. C.F. (OMISSIS), I.S. C.F. (OMISSIS),

BR.GU.AR. C.F. (OMISSIS), domiciliati in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la cancelleria della Corte di Cassazione,

rappresentati e difesi dall’Avvocato ANGELO SCANCARELLO, giusta

delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

A.D., LU.MA., C.M., PI.PA.,

R.S., O.M., INPS C.F. (OMISSIS);

– intimati –

Nonchè da:

INPS C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29,

presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso

dagli Avvocati ANTONIETTA CORETTI, VINCENZO TRIOLO, VINCENZO STUMPO,

giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

T. S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA,

che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al ricorso;

– controricorrente al ricorso incidentale –

e contro

O.G., D.M., B.C., R.G.,

P.M., BE.IG., A.D., F.C.,

LU.MA., E.A., D.V.F., C.M.,

M.A., I.S., BR.GU.AR., PI.

PATRIZIO, R.S., O.M., L.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 899/2012 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 28/09/2012 R.G.N. 420/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/05/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito l’Avvocato GIANNI’ GAETANO per delega orale Avvocato MARESCA

ARTURO;

udito l’Avvocato STUMPO VINCENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e assorbimento ricorso incidentale.

Fatto

La Corte d’appello di Genova, in parziale riforma delle sentenze di primo grado (che avevano rigettato le opposizioni proposte da T. s.p.a. avverso i decreti con cui gli stessi Tribunali di Genova e Massa le avevano ingiunto, quale committente nel rapporto di appalto con P.M. Ambiente s.p.a. per i servizi e le pulizie del materiale rotabile presso le unità locali di (OMISSIS) da febbraio 2006 a febbraio 2010, obbligata in, via solidale ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2 il pagamento in favore dei dipendenti dell’appaltatrice indicati in epigrafe e per gli importi a ciascuno rispettivamente riconosciuti, a titolo di ratei di tredicesima e quattordicesima mensilità, ferie e permessi non goduti, buoni pasto e T.f.r., dichiarato improponibili nelle cause di opposizioni avverso i decreti ingiuntivi ottenuti da L.G., M.A. e Bo.Ce. le sue domande nei confronti dell’Inps, chiamata in causa, invece respinte nelle altre cause riunite), con sentenza 28 settembre 2012, rigettava le domande proposte da T. s.p.a. nei confronti dell’Inps anche nelle cause suddette, nel resto confermando le sentenze impugnate e condannando la società soccombente alla rifusione delle spese del grado in favore dell’Inps e dei lavoratori appellati.

Nel pedissequo solco di proprio precedente (sentenza n. 640/2012), la Corte territoriale escludeva, in via preliminare, l’improcedibilità della domanda di T. s.p.a. per incompetenza funzionale del giudice del lavoro in favore del foro fallimentare per la soggezione di Pietro Mazzoni Ambiente s.p.a. ad amministrazione straordinaria, siccome estranee all’accertamento concorsuale le obbligazioni della condebitrice solidale, ma ne riteneva la titolarità passiva del debito, siccome non trasferito al Fondo di Tesoreria istituito dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 755 di cui illustrate le modalità di funzionamento, in base a finanziamento dei datori di lavoro secondo il principio della cd. “ripartizione”, nel senso dell’utilizzabilità delle somme da chiunque versate, non comportante tuttavia una gestione di tipo previdenziale, soggetta al principio di automaticità delle prestazioni ai sensi dell’art. 2116 c.c., indipendentemente dal versamento dei contributi datoriali, sulla cui effettività al contrario esso è fondato: con la conseguente permanenza di titolarità passiva della datrice di lavoro Pietro Mazzoni Ambiente s.p.a. per quanto non coperto da contributi versati e quindi della committente coobbligata solidale, in difetto di prova di effettivo versamento di contributi esaustivo dell’obbligo datoriale.

Nel merito, la Corte ligure riteneva provato il credito dei lavoratori, sia per maturazione in corso di appalto sia per importo liquidato, sulla base della documentazione in atti, compiutamente scrutinata dai primi giudici e l’obbligo solidale della committente anche per i crediti a titolo di “buoni pasto”, siccome di natura retributiva (pertanto rientranti nell’ampia formula “trattamenti retributivi” prevista dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29), per la loro commisurazione proporzionale alle ore lavorate (nella suddivisione in quattro scaglioni differenziati rispetto ai vari livelli di inquadramento), in base agli accordi di settore e del 19 novembre 2005 e quindi corrispettivo della prestazione lavorativa e non mero controvalore del pasto.

Infine, essa escludeva il diritto della committente alla surrogazione nei diritti dei lavoratori nei confronti del Fondo di garanzia previsto dalla L. n. 297 del 1982, art. 2 in consapevole dissenso da recente arresto di legittimità (Cass. 25685/2011), sull’argomentato rilievo della riconducibilità della nozione di “aventi diritto” ammessi alle prestazioni del Fondo ai titolari di un effetto traslativo pieno in virtù di autonoma scelta negoziale delle parti (quale l’ipotesi di cessione del credito, oggetto dei precedenti richiamati nella motivazione del citato arresto), per cui operante la disciplina legale della surrogazione ai sensi dell’art. 1203 c.c., n. 3 e non a chi legalmente obbligato come l’appaltante, ai sensi della L. n. 276 del 2003, art. 29 in affiancamento alla posizione debitoria dell’appaltatore, obbligato principale, a maggior garanzia della posizione del lavoratore: e ciò per la piena soddisfazione, con il pagamento dall’obbligato solidale, della ratio giustificante l’intervento del Fondo di garanzia, secondo una logica tipicamente solidaristica, che non può operare, in assenza di una specifica disposizione normativa, a beneficio del terzo committente, titolare di un proprio interesse economico alla radice dell’operazione di appalto. E la relativa domanda non improcedibile nè improponibile a norma dell’art. 443 c.p.c., riguardante ipotesi estranee, ma infondata e pertanto da rigettare, con parziale riforma delle sentenze n. 75/2012, 76/2012 e 270/2012 del Tribunale di Genova in parte qua.

Con atto notificato il 29 marzo 2013, T. s.p.a. ricorre per cassazione con otto motivi, cui resistono con distinti controricorsi M.A., I.S., Br.Gu.Ar. (a ministero di stesso difensore), O.G., D.M., Bo.Ce., R.G., P.M., Be.Ig., F.C., E.A., D.V.F., L.G. (a ministero di altri difensori) e l’Inps, pure ricorrente in via incidentale condizionata con unico motivo, cui replica T. s.p.a. con controricorso; sono rimasti intimati A.D., Lu.Ma., C.M., Pi.Pa., R.S. e O.M.; tutte le parti costituite, ad eccezione di O.G., D.M., Bo.Ce., R.G., P.M., Be.Ig., F.C., E.A., D.V.F. e L.G. hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 13, art. 18, comma 1, L. Fall., art. 52 e art. 1292 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per improcedibilità della pretesa creditoria del lavoratore, di competenza esclusiva del foro fallimentare per la sottoposizione della datrice appaltatrice Pietro Mazzoni Ambiente s.p.a. (di cui dichiarato lo stato d’insolvenza con sentenza del Tribunale di Roma dell’8 febbraio 2011) ad amministrazione straordinaria (con decreto dello stesso Tribunale del 20 aprile 2011 e nomina del commissario giudiziale con D.M. 20 maggio 2011), anche in relazione della domanda nei confronti della committente in bonis, in virtù della vis actractiva del foro fallimentare, in quanto unica, per identità del vincolo obbligatorio solidale.

Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma da 755 a 757, D.M. 30 gennaio 2007 e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea ripartizione dell’onere probatorio dell’attuale sussistenza dell’obbligazione di versamento dei contributi dalla società appaltatrice (ai fini dell’esclusione dell’intervento del Fondo di Tesoreria gestito dall’Inps, cui trasferito il T.f.r. mantenuto presso la società datrice dai lavoratori non optanti per forme di previdenza complementare e la conseguente responsabilità solidale della committente), a carico dei lavoratori e da questi non assolto.

Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, artt. 2094 e 2099 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea inclusione nel regime di garanzia solidale del committente nei confronti dei lavoratori impiegati nell’appalto, previsto soltanto per i “trattamenti retributivi”, anche del credito per T.f.r., non riconducibile a detta nozione, come comprovato dalla successiva modificazione della norma denunciata, per effetto del D.L. n. 5 del 2012, art. 21, comma 1 conv. con mod. in L. n. 35 del 2012, correttamente ritenuto non applicabile, estensivo della garanzia legale per i trattamenti retributivi “comprese le quote di trattamento di fine rapporto… in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto”.

Con il quarto, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per difetto di idonea prova, a carico dei lavoratori, dei fatti costitutivi del loro credito, rappresentato dal rapporto di lavoro subordinato con Pietro Mazzoni Ambiente s.p.a. e dal contratto di appalto di questa con T. s.p.a. nel senso dell’impiego nei lavori appaltati quali dipendenti della prima per l’intera durata dell’appalto, su cui fondata la responsabilità solidale della committente.

Con il quinto, la ricorrente deduce vizio di omesso esame, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, del fatto decisivo e controverso dell’effettivo impiego di ogni lavoratore nelle opere appaltate da T. s.p.a. a Pietro Mazzoni Ambiente s.p.a. quale dipendente di questa per l’intera durata dell’appalto, in base al contratto di lavoro. Con il sesto, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2099 c.c., e D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea attribuzione di natura retributiva (e conseguente non corretta inclusione nella garanzia legale per i trattamenti retributivi), in luogo di quella comunemente riconosciuta di agevolazione di carattere assistenziale in collegamento occasionale con il rapporto di lavoro, ai buoni pasto (come confermato anche dalle previsioni del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma, 2 lett. c, di loro esclusione, fino all’importo giornaliero di Euro 5,29, dalla natura di reddito da lavoro dipendente e dalla base imponibile contributiva dal D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 17); e così pure all’indennità per ferie maturate e non godute e ROL.

Con il settimo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 46, da 63 a 78 CCNL delle attività ferroviarie del 16 aprile 2003, 8 e 9 dell’accordo di settore per la confluenza del CCNL delle attività ferroviarie del 19 novembre 2005, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea attribuzione di natura retributiva ai buoni pasto, benchè non indicati tra gli elementi componenti la retribuzione, come puntualmente specificati dalle disposizioni contrattuali richiamate.

Con l’ottavo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 297 del 1982, artt. 1 e 2 e art. 1203 c.c., n. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea esclusione del diritto alla surrogazione nei diritti dei lavoratori nei confronti del Fondo di garanzia istituito presso l’Inps, in contrasto con quanto ritenuto dalla Corte di legittimità in analoga fattispecie (Cass. 25685/2011).

Con unico motivo, a propria volta l’Inps deduce, in via di ricorso incidentale condizionato, violazione e falsa applicazione dell’art. 443 c.p.c., art. 148 disp. att. c.p.c. e L. n. 297 del 1982, art. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per l’improponibilità della domanda di intervento del Fondo di garanzia gestito dall’Inps, attesa la natura previdenziale delle sue obbligazioni di pagamento del T.f.r. e delle ultime tre mensilità (aventi radice causale, non già nel rapporto di lavoro, ma in quello assicurativo – previdenziale fondato sull’accertato stato di insolvenza del datore di lavoro, sulla formazione di un titolo giudiziale e sull’esperimento non satisfattivo dell’esecuzione forzata), nel caso, appunto ricorrente nella specie, di mancate presentazione di domanda in via amministrativa entro i termini di legge e di insinuazione allo stato passivo del fallimento del datore di lavoro.

Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 13, art. 18, comma 1, L. Fall., art. 52 e art. 1292 c.c., per improcedibilità della pretesa creditoria del lavoratore, di competenza esclusiva del foro fallimentare per la sottoposizione della datrice appaltatrice Pietro Mazzoni Ambiente s.p.a., attrattiva anche della domanda nei confronti di T. s.p.a., in quanto unica, per identità del vincolo obbligatorio solidale, è infondato.

Ed infatti, l’improcedibilità del giudizio fra il creditore ed uno dei condebitori in solido, determinata dalla soggezione del secondo a procedura concorsuale, non impedisce che il giudizio prosegua nei confronti degli altri condebitori in bonis nella sede ordinaria, ivi compresa quella derivante dalla competenza per materia del giudice del lavoro, che pure non deroga alla vis actractiva del tribunale fallimentare (con specifico riferimento al fallimento: Cass. 24 febbraio 2011, n. 4464; Cass. 2 febbraio 2010, n. 2411).

D’altro canto, l’autonomia del giudizio in sede ordinaria del creditore nei confronti di uno dei condebitori in solido, rispetto all’improcedibilità del giudizio nei confronti del debitore principale per effetto del suo fallimento, non comporta l’attrazione nella competenza del tribunale fallimentare anche della causa promossa dal creditore nei confronti del primo, stante il carattere solidale della responsabilità dello stesso (Cass. 9 luglio 2005, n. 14468).

Ancora recentemente è stato, infine, ribadito come, in materia di appalto, l’apertura del procedimento fallimentare nei confronti dell’appaltatore non comporti l’improcedibilità dell’azione precedentemente esperita dai dipendenti nei confronti del committente, ai sensi dell’art. 1676 c.c., per il recupero dei loro crediti verso l’appaltatore-datore di lavoro, atteso che la previsione normativa di una tale azione risponde all’esigenza di sottrarre il soddisfacimento dei crediti retributivi al rischio dell’insolvenza del debitore e, d’altra parte, si tratta di un’azione “diretta”, incidente direttamente sul patrimonio di un terzo (il committente) e solo indirettamente su un credito del debitore fallito, sì da doversi escludere che il conseguimento di una somma, che non fa parte del patrimonio del fallito, possa comportare un nocumento delle ragioni degli altri dipendenti dell’appaltatore, che fanno affidamento sulle somme dovute (ma non ancora corrisposte) dal committente per l’esecuzione dell’opera appaltata (Cass. 14 gennaio 2016, n. 515, che ha pure escluso al riguardo sospetti di incostituzionalità, con riferimento all’art. 3 Cost. letto in corrispondenza del principio della par candido creditorum, non essendo irrazionale una norma che accordi uno specifico beneficio a determinati lavoratori, anche rispetto ad altri, per l’attività lavorativa dai medesimi espletata e dalla quale un altro soggetto, quale il committente, abbia ricavato un particolare vantaggio).

Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma da 755 a 757, D.M. 30 gennaio 2007 e art. 2697 c.c., per erronea ripartizione dell’onere probatorio dell’attuale sussistenza dell’obbligazione di versamento dei contributi dalla società appaltatrice, a carico dei lavoratori e da questi non assolto, è infondato.

L’onere probatorio dei lavoratori riguarda i fatti costitutivi dei loro crediti, rappresentati dal rapporto di lavoro subordinato con Pietro Mazzoni Ambiente s.p.a. e dal contratto di appalto di questa con T. s.p.a. nel senso del loro impiego nei lavori appaltati quali dipendenti della prima per l’intera durata dell’appalto, in quanto radicanti la responsabilità solidale della committente escussa con gli odierni giudizi. Non anche l’effettivo versamento dei contributi spettanti al datore di lavoro, a norma della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 756, seconda parte in funzione di finanziamento del Fondo di Tesoreria istituito dall’art. 1, comma 755 L. cit., secondo il principio della cd. “ripartizione” (di cui illustrate le modalità di funzionamento in particolare a pg. 8 della sentenza): esso costituisce, infatti, fatto estintivo della pretesa dei lavoratori nei confronti della loro datrice appaltatrice (e di conseguenza della committente obbligata solidale ex lege) ed è pertanto nell’onere probatorio di questa che lo opponga in eccezione (Cass. 27 giugno 2014, n. 14610; Cass. 8 giugno 2007, n. 13390).

Il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 artt. 2094 e 2099 c.c., per erronea inclusione nel regime di garanzia solidale del committente nei confronti dei lavoratori impiegati nell’appalto anche del credito per T.f.r., è inammissibile.

La questione è infatti nuova, non risultando trattata dalla sentenza impugnata, neppure ad essa riferendosi la più generale valutazione degli effetti dello ius superveniens del D.L. n. 5 del 2012, art. 21, comma 1 conv. con mod. in L. n. 35 del 2012, in quanto modificativo della fisionomia dell’obbligo del committente nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore (al p.to 2 di pg. 6 della sentenza). Nè la ricorrente ha indicato specificamente, nè trascritto gli atti nei quali l’avrebbe posta nei gradi di merito: e ciò si riflette sulla genericità del motivo, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso e pertanto della prescrizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; 11 gennaio 2007, n. 324).

Il quarto motivo (violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., per difetto di idonea prova, a carico dei lavoratori, dell’impiego nei lavori oggetto dell’appalto quali dipendenti di Pietro Mazzoni Ambiente s.p.a. per l’intera sua durata) può essere congiuntamente esaminato, per stretta connessione, con il quinto motivo, relativo ad insufficiente motivazione sullo stesso fatto, decisivo e controverso.

Essi sono inammissibili.

Non si configurano, infatti, le denunciate violazioni di norme di legge, per insussistenza dei requisiti loro propri di verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva delle norme, nè di sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, nè tanto meno di specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).

In particolare, la norma prevista dall’art. 2697 c.c. regola l’onere della prova, non anche (come concretamente censurata nella specie) la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, viceversa disciplinata dagli artt. 115 e 116 c.p.c. e la cui erroneità ridonda comunque in vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5 (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 29 novembre 2012, n. 21234; Cass. 5 settembre 2006, n. 19064; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707). D’altro canto, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non riguarda la valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, al cui prudente apprezzamento (salvo alcune specifiche ipotesi di prova legale) è pertanto rimessa la valutazione globale delle risultanze processuali, essendo egli peraltro tenuto ad indicare gli elementi sui quali si fonda il suo convincimento nonchè l’iter seguito per addivenire alle raggiunte conclusioni, ben potendo al riguardo disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata, con apprezzamento è insindacabile in cassazione in presenza di congrua motivazione, immune da vizi logici e giuridici (Cass. 13 luglio 2004, n. 12912): essendo piuttosto apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 20 giugno 2006, n. 14267).

E comunque la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili per il doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione è rimessa all’apprezzamento discrezionale, ancorchè motivato, del giudice di merito, ed è censurabile, ricorrendone i presupposti, in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione e non della violazione di legge (Cass. 20 settembre 2013, n. 21603).

In realtà, i mezzi scrutinati sono tesi all’essenziale censura della valutazione degli elementi di prova individuati dalla Corte territoriale: sicchè, essi sono piuttosto modulati come contestazioni del ragionamento argomentativo svolto, in modo corretto ed esauriente dalla Corte territoriale (ultimo capoverso di pg. 16 della sentenza), sia pure per relationem dell’esame documentale dei primi giudici (con assunzione come proprie delle loro argomentazioni, nella sintetica conferma in relazione ai motivi di impugnazione proposti, così da rendere il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze appagante e corretto: Cass. 2 febbraio 2006, n. 2268; Cass. 7 aprile 2005, n. 7251), che hanno esaminato gli elementi probatori in riferimento alla posizione di ognuno dei lavoratori (come risulta dalle sentenze del Tribunale di Genova integralmente allegate nel corpo del ricorso (a pgg. da 24 a 102 e da 110 a 128: nn. 1857/11, 1858/11, 1859/11, 1854/11, 1856/11, 76/12, 270/12, 385/12, 75/12, 1891/11, 1855/11, 523/12; nonchè a pgg. da 133 a 159: nn. 359/12, 358/12, 361/12): così da risolversi in una sostanziale richiesta di riesame del merito, insindacabile in questa sede, spettando al giudice di legittimità, non già il riesame nel merito dell’intera vicenda processuale, ma la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica e formale delle argomentazioni del giudice di merito, non equivalendo il sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento decisorio (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 5 marzo 2007, n. 5066). Il sesto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2099 c.c., D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 per erronea attribuzione di natura retributiva, anzichè assistenziale, ai buoni pasto e così pure all’indennità per ferie maturate e non godute e ROL) può essere congiuntamente esaminato, per stretta connessione, con il settimo (violazione e falsa applicazione degli artt. 46, da 63 a 78 CCNL delle attività ferroviarie del 16 aprile 2003, 8 e 9 dell’accordo di settore per la confluenza del CCNL delle attività ferroviarie del 19 novembre 2005 per erronea attribuzione di natura retributiva ai buoni pasto).

Essi sono fondati per quanto di ragione.

In riferimento alle indennità per ferie maturate e non godute e ROL, esso è inammissibile, posto che trattasi di questione nuova, non trattata dalla sentenza impugnata, nè avendo la ricorrente indicato specificamente, nè trascritto gli atti nei quali l’avrebbe posta nei gradi di merito: e ciò si riflette sulla genericità del motivo, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso e pertanto della prescrizione di specificità, posta appunto a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; 11 gennaio 2007, n. 324).

Il mezzo è invece fondato in relazione ai buoni pasto.

Ed infatti, secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, condivisa dal collegio, il valore dei pasti, di cui il lavoratore possa fruire in una mensa aziendale o presso esercizi convenzionati con il datore di lavoro, non costituisce elemento integrativo della retribuzione, allorchè il servizio mensa rappresenti un’agevolazione di carattere assistenziale, anzichè un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, per la mancanza di corrispettività della relativa prestazione rispetto a quella lavorativa e di collegamento causale tra l’utilizzazione della mensa ed il lavoro prestato, sostituendosi ad esso un nesso meramente occasionale con il rapporto (Cass. 1 dicembre 1998, n. 12168; Cass. 17 luglio 2003, n. 11212; Cass. 21 luglio 2008, n. 20087; Cass. 8 agosto 2012, n. 14290; Cass. 8 settembre 20104, n. 18852). Il valore dei pasti o il cd. buono pasti, salva diversa disposizione, non è dunque elemento della retribuzione concretandosi lo stesso in una agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale (Cass. 6 luglio 2015, n. 13841).

Nel caso di specie, manca una sua specifica previsione contrattuale tra gli elementi della retribuzione (artt. da 63 a 78 CCNL delle attività ferroviarie del 16 aprile 2003), mentre l’art. 46 CCNL contiene una generica previsione delle modalità di fruizione dei pasti aziendali, con rinvio alla contrattazione aziendale per le più concrete applicazioni e l’art. 8 dell’accordo 19 novembre 2005 si limita ad una modulazione dell’importo in base numero ore, senza alcuna più diretta disposizione al riguardo: sicchè la voce relativa ai buoni pasto, non rientrante tra i “trattamenti retributivi” previsti dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 deve essere esclusa dall’importo al cui pagamento condannata T. s.p.a., in quanto non tenuta nella sua qualità.

L’ottavo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 297 del 1982, artt. 1 e 2 e art. 1203 c.c., n. 3, per erronea esclusione dei proprio diritto alla surrogazione nei diritti dei lavoratori nei confronti del Fondo di garanzia istituito presso l’Inps, è infondato.

La posizione giuridica soggettiva della committente T. s.p.a. non è, ad avviso del collegio, riconducibile a quella dell’avente diritto beneficiario della garanzia del Fondo istituito ai sensi della L. n. 297 del 1982, art. 2 (per il quale: “E’ istituito presso l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale il Fondo di Garanzia per il trattamento di fine rapporto con lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del trattamento di fine rapporto, di cui all’art. 2120 c.c., spettante ai lavoratori o loro aventi diritto”).

Non appare, infatti, condivisibile quell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, su cui essenzialmente si fonda la censura, secondo cui “l’art. 2 non osta all’intervento del Fondo a favore del cessionario a titolo oneroso del credito relativo al trattamento di fine rapporto spettante al lavoratore, in quanto l’intervento è previsto in favore degli “aventi diritto” e, con tale termine, che non può che essere inteso nel medesimo significato attribuito all’identica espressione contenuta nell’art. 2122 c.c., si fa riferimento agli aventi causa in genere del lavoratore, a prescindere dal titolo, universale o particolare, della successione nel diritto” (Cass. 1 dicembre 2011, n. 25685). Perchè un tale principio è stato tralaticiamente e acriticamente mutuato da un indirizzo in realtà formatosi sulla ben diversa ipotesi di cessione di credito, che, nell’intendere l’espressione “aventi diritto” nel medesimo significato attribuito all’identica espressione contenuta nell’art. 2122 c.c., fa appunto riferimento agli “aventi causa in genere del lavoratore, a prescindere dal titolo, universale o particolare, della successione nel diritto” (Cass. 18 aprile 2008, n. 10208; Cass. 5 maggio 2008, n. 11010; Cass. 14 dicembre 2010, n. 25256).

E’ bene allora chiarire la nozione e la latitudine di una tale locuzione normativa.

Ora, è noto dai principi generali in materia di obbligazioni che avente diritto (o avente causa) sia il soggetto che acquisti a titolo derivativo, come appunto avviene nella cessione di credito (art. 1260 c.c.). Ed il concetto di avente causa ricorre ogni qual volta la posizione giuridica di un determinato soggetto sia legata da un nesso di derivazione dalla posizione giuridica di un altro soggetto, così istituendosi una relazione tra due posizioni giuridiche soggettive, basata appunto su un nesso derivativo.

Quest’ultimo può essere qualificato: dal punto di vista oggettivo, come un’unica causa (o fattispecie) capace di produrre il duplice effetto della perdita (o limitazione) per il precedente titolare e l’acquisto per il susseguente; dal punto di vista soggettivo, come riferimento al precedente titolare (autore dell’atto di attribuzione o portatore dell’interesse e termine al quale va ricondotto l’effetto).

Ove pertanto non sia configurabile un tale nesso di derivazione (non bastando la mera sostituzione di un soggetto ad un altro in una determinata posizione giuridica) neppure si prospetta una situazione giuridica soggettiva di avente diritto (o avente causa); sicchè, non è tale la condizione di chi sia titolare di un diritto acquistato in maniera autonoma, anche se tale acquisto sia, per avventura, successivo ad una perdita o ad una limitazione in una altrui sfera giuridica: dovendo una causa autonoma di acquisto essere considerata a titolo originario e non già derivativo.

Ebbene, nella fattispecie in esame, il committente solidalmente responsabile con il proprio appaltatore, ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2 (che recita: “In caso di appalto di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti”), non trae la propria posizione in via derivata da un dante causa (nel caso di specie: il lavoratore) come invece il cessionario del suo credito, ma presta una garanzia in favore del datore di lavoro ed a vantaggio del lavoratore, adempiendo alla quale assolve ad un’obbligazione propria, istituita ex lege, che lo legittima, come nei rapporti tra condebitori solidali, ad un’azione di regresso ai sensi dell’art. 1299 c.c. nei confronti dell’appaltatore, obbligato principale.

E nei suoi confronti, quando si renda inadempiente, il medesimo committente può agire anche in surrogazione dei diritti del lavoratore, ai sensi dell’art. 1203 c.c., n. 3, in base al diverso titolo del rapporto di appalto assistito dal particolare obbligo di garanzia legale, posto che: “Ai fini dell’operatività della surrogazione legale di cui all’art. 1203 c.c., n. 3, non è necessario nè che il surrogante sia tenuto al pagamento del debito in base allo stesso titolo del debitore surrogato, nè che egli sia direttamente obbligato nei confronti dell’accipiens, richiedendo la norma soltanto che il surrogante abbia un interesse giuridicamente qualificato alla estinzione dell’obbligazione” (Cass. 16 dicembre 2013, n. 28061).

Ed è per tale ragione che T. s.p.a. non può essere qualificata ad alcun titolo avente diritto del lavoratore, il quale riceve la propria garanzia attraverso il meccanismo predisposto dalla speciale normativa in materia di appalto, così essendo soddisfatto del proprio credito. E per effetto di ciò, vengono meno, per la parte così soddisfatta, i presupposti di applicabilità del Fondo di Garanzia gestito dall’Inps, avendo l’adempimento del committente, obbligato solidale dell’appaltatore datore di lavoro, rimediato alla sua insolvenza, in virtù della garanzia istituita del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2 a carico del committente medesimo. Sicchè, quest’ultimo non può sicuramente accedere a detto Fondo, sulla base di un titolo autonomo, per la ragione detta, e pertanto non di derivazione diretta da quello del lavoratore (quale appunto suo “avente diritto”).

La ritenuta infondatezza del motivo scrutinato assorbe l’esame dell’unico motivo incidentale condizionato, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 443 c.p.c., art. 148 disp. att. c.p.c. e L. n. 297 del 1982, art. 2 per improponibilità della domanda di intervento del Fondo di garanzia gestito dall’Inps, attesa la natura previdenziale delle sue obbligazioni di pagamento del T.f.r. e delle ultime tre mensilità, nel caso di mancata presentazione della domanda in via amministrativa entro i termini di legge e di insinuazione allo stato passivo del fallimento del datore di lavoro.

Dalle superiori argomentazioni discende coerente, in accoglimento del sesto e settimo motivo del ricorso principale nei limiti di cui in motivazione, respinti gli altri e assorbito il ricorso incidentale condizionato dell’Inps, la cassazione della sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti con rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio, alla Corte d’appello di Genova in diversa composizione.

PQM

LA CORTE

accoglie il sesto e settimo motivo del ricorso principale, limitatamente ai “buoni pasto”, rigettati gli altri e assorbito l’incidentale condizionato dell’Inps; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Genova in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2016

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