Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16826 del 07/08/2020

Cassazione civile sez. trib., 07/08/2020, (ud. 18/12/2019, dep. 07/08/2020), n.16826

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11026 del ruolo generale dell’anno 2015

proposto da:

Nouvel Son s.p.a., in persona del legale rappresentante,

rappresentata e difesa dagli Avv.ti Ernesto Postorino e Renato Piero

Biasci per procura speciale in calce al ricorso, elettivamente

domiciliata in Roma, via Cristoforo Colombo, n. 179, presso lo

studio del primo difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate;

– resistente –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria

Regionale del Lazio, n. 6263/28/14, depositata in data 21 ottobre

2014;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 dicembre

2019 dal Consigliere Dott. Triscari Giancarlo;

 

Fatto

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata e del ricorso si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Nouvel Son s.p.a. un avviso di accertamento con il quale aveva richiesto maggiori Ires, Irap e Iva, avendo verificato l’indebita deduzione di componenti negativi di redditi; la società aveva proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma che lo aveva parzialmente accolto; avverso la pronuncia del giudice di primo grado la società aveva proposto appello, limitando le ragioni di doglianza alla questione della non deducibilità dei costi per spese di pubblicità, per perdite su crediti nonchè per i premi assicurativi corrisposti ai fini dell’accantonamento per il pagamento del trattamento di fine mandato dei propri amministratori;

la Commissione tributaria regionale del Lazio ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: relativamente alla questione della non deducibilità dei costi per spese di pubblicità, non era fondata la linea difensiva della società secondo cui la stessa aveva la facoltà di dedurre i suddetti costi in parte nell’esercizio in cui erano state sostenute e in parte in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi, atteso che l’art. 108, comma 2, TUIR, doveva essere interpretato nel senso di riconoscere una facoltà alternativa di deduzione del suddetto costo; relativamente alla questione della deducibilità per perdita su crediti, la società non aveva assolto all’onere di provare di avere svolto una qualche attività finalizzata ad ottenere il pagamento del credito, non essendo sufficiente la mera indicazione dei suddetti crediti; con riferimento, infine, alla questione della deducibilità dei premi pagati, la società non aveva dato prova dell’esistenza del diritto al trattamento di fine mandato in favore dei propri amministratori mediante la produzione di un atto negoziale avente data certa anteriore al rapporto e al quale potere ricondurre il titolo dei pagamenti della polizza in esame; avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso la contribuente affidato a quattro motivi di censura;

l’Agenzia delle entrate ha depositato atto denominato di costituzione con il quale ha dichiarato di costituirsi al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione;

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 108, comma 2, per avere ritenuto che la deducibilità dei costi per pubblicità poteva essere effettuato, in via alternativa, o utilizzando il criterio della deduzione nell’esercizio in cui sono stati sostenuti ovvero mediante quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro anni successivi;

il motivo è infondato;

lo stesso, invero, è incentrato sulla considerazione che la previsione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 108, comma 2, non esclude la facoltà per il contribuente di utilizzare congiuntamente le due modalità di deduzione dei costi per pubblicità;

il citato D.P.R. n. 917 del 1986, art. 108, comma 2, catione temporis applicabile, disponeva che “Le spese di pubblicità e di propaganda sono deducibili nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi”;

la suddetta previsione, quindi, ha specifico riguardo alle modalità di deduzione delle spese di pubblicità e, in questo contesto, consente solo di scegliere tra la deduzione integrale immediata nell’esercizio in cui sono state sostenute e quella in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro anni successivi, ma tale opzione deve essere compiuta in relazione alla totalità delle spese di pubblicità sostenute nell’anno, non potendosi distinguere, come invece argomenta parte ricorrente, tra le singole spese di pubblicità;

la pronuncia in esame, dunque, è conforme al principio sopra indicato, avendo escluso che, relativamente al medesimo anno di imposta e con riferimento alle medesime spese, la contribuente potesse utilizzare, congiuntamente, le due distinte modalità di deduzione dei costi, avendo, invero, scelto di avvalersi del criterio di ammortamento in quote costanti;

con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame circa un punto decisivo per il giudizio, per avere ritenuto che la società non aveva provato di avere svolto una qualche attività finalizzata a richiedere il pagamento del credito, non avendo considerato il fatto decisivo consistente nell’avere prodotto non solo un elenco di crediti con le relative fatture ma anche le visure ricavate dal sistema Entrate effettuate presso l’Agenzie delle entrate da cui poteva evincersi che i debitori, cui le fatture erano intestate, avevano cessato l’attività e quindi risultavano estinti;

il motivo è inammissibile;

la questione della esistenza di elementi certi e precisi al fine di ritenere legittima la deduzione della perdita su crediti è stata specificamente affrontata dal giudice del gravame che ha ritenuto che la parte ricorrente non avesse assolto all’onere di provare di essersi attivata al fine di provvedere al recupero del credito e su tale affermazione si è fondata la ratio decidendi della pronuncia;

con il presente motivo, in realtà, parte ricorrente introduce una questione non conferente con la suddetta ragione decisoria, in quanto punta l’attenzione su di una circostanza, relativa alla cessazione dell’attività da parte dei soggetti debitori, che non ha costituito, come detto, il profilo centrale su cui si è fondata la decisione;

peraltro, in difetto del principio di specificità, il motivo in esame fa riferimento alla avvenuta cessazione dell’attività da parte dei debitori cui le fatture erano intestate, senza, tuttavia, specificare che la questione era stata prospettata nei precedenti giudizi di merito e senza indicare il contenuto della documentazione comprovante l’avvenuta cessazione dell’attività, facendo solo un mero rinvio alle memorie illustrative prodotte in primo grado ed ai documenti allegati, senza ulteriore specificazione;

con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 5, per avere interpretato la norma in esame nel senso che l’unica prova che il contribuente deve fornire, ai fini della deducibilità della perdita su crediti, riguarderebbe il fatto di avere svolto un’attività volta ad ottenere il pagamento dei crediti, escludendo, in tal modo, ulteriori e diversi elementi di prova che, pure, soddisfano i requisiti previsti dalla norma in esame;

in particolare, parte ricorrente evidenzia che la sentenza, sul punto, incorre nel vizio di violazione di legge, tenuto conto degli elementi forniti dall’appellante nel processo di primo grado (di cui alle memorie illustrative dell’allegato 1), in cui venne data al Giudicante la prova della cessione dell’attività dei debitori;

il motivo è infondato;

la questione relativa al vizio di violazione di legge in esame è prospettata con riferimento alla sussistenza, nella fattispecie, dell’avvenuta cessazione dell’attività da parte dei debitori, indicato dalla ricorrente come uno dei possibili parametri di riferimento per l’individuazione di elementi “certi e precisi” ai fini dell’applicazione della norma;

su tale profilo, relativo alla avvenuta cessazione dell’attività da parte dei debitori, la cui rilevanza è stata posta a fondamento del presente motivo di ricorso, già in sede di esame del secondo motivo di ricorso si è avuto modo di rilevare il difetto di specificità della ragione di doglianza, sicchè tale considerazione deve essere ribadita anche relativamente al presente motivo;

inoltre, va altresì osservato che il giudice del gravame, dopo avere chiaramente espressamente riportato il testo della previsione normativa in esame, ha evidenziato che la parte si era limitata a dimostrare l’esistenza dei crediti, secondo le proprie scritture, producendo un elenco e alcune fatture, ed è da tale verificare che, in sostanza, ha fatto derivare la mancanza, nel caso di specie, di elementi certi e precisi per giustificare la deduzione delle perdite su crediti e tale valutazione è insindacabile in questa sede;

con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 17, comma 1, lett. c), per avere ritenuto che, ai fini della deducibilità dei costi consistenti in premi versati per una polizza assicurativa stipulata al fine dell’accantonamento per il trattamento di fine mandato dei propri amministratori, era necessaria la prova dell’esistenza del suddetto diritto mediante atto negoziale avente data certa anteriore al rapporto;

il motivo è infondato;

questa Corte (Cass. civ., 19 ottobre 2018, n. 26431) ha precisato che in tema di redditi di impresa, in base al combinato disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 17, comma 1, lett. c), e art. 105, possono essere dedotte in ciascun esercizio, secondo il principio di competenza, le quote accantonate per il trattamento di fine mandato, previsto in favore degli amministratori delle società, purchè la previsione di detto trattamento risulti da un atto scritto avente data certa anteriore all’inizio del rapporto, che ne specifichi anche l’importo: in mancanza di tali presupposti trova applicazione il principio di cassa, come disposto dal medesimo D.P.R. n. 917 del 1986, art. 95, comma 5, che stabilisce la deducibilità dei compensi spettanti agli amministratori delle società nell’esercizio nel quale sono corrisposti;

in precedenza, questa Corte (Cass. civ., 5 settembre 2014, n. 18752) aveva, altresì, affermato che in tema di imposte sui redditi, e con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, gli accantonamenti effettuati da una società in favore dei propri amministratori, relativi al trattamento di fine rapporto, sono deducibili quali componenti negativi solo se il diritto all’indennità risulta da atto di data certa anteriore all’inizio del rapporto, in quanto il rinvio che il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 70, comma 3, (attuale art. 105, comma 4) opera al precedente art. 16 (attuale art. 17) è un rinvio pieno, non limitato all’identificazione della categoria del rapporto sottostante cui si riferisce l’indennità, ma esteso alle condizioni richieste dall’art. 16, lett. c);

non sussiste, pertanto, il vizio di violazione di legge, in quanto la pronuncia è conforme ai suddetti principi;

in conclusione, sono infondati il primo, terzo e quarto motivo, inammissibile il secondo, con conseguente rigetto del ricorso;

nulla sulle spese per mancata costituzione dell’intimata; si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuti;

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuti

Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2019.

Depositato in cancelleria il 7 agosto 2020

 

 

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