Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1681 del 19/01/2022
Cassazione civile sez. II, 19/01/2022, (ud. 18/11/2021, dep. 19/01/2022), n.1681
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
F.G., e Paim Cooperativa Sociale s.p.a., con sede in
(OMISSIS), in persona del legale rappresentante sig.
F.G., rappresentati e difesi per procura alle liti a margine del
ricorso dall’Avvocato Simona Carloni, elettivamente domiciliati
presso il suo studio in Roma, via Monte Santo n. 2;
– ricorrenti –
contro
Agenzia delle Entrate;
– intimata –
avverso la sentenza n. 734 dell’8. 6. 2017 del Tribunale di Pisa;
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
18. 11. 2021 dal consigliere relatore Dott. Mario Bertuzzi.
Fatto
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
Con atto notificato a mezzo posta l’8.1.2018 F.G. e la Paim Cooperativa Sociale s.p.a. propongono ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione della sentenza n. 734 dell’8.6.2017 del Tribunale di PISA che, in parziale accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, Direzione provinciale di Pisa, aveva rigettato l’opposizione avverso le ordinanze ingiunzioni che contestavano la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 9, per avere conferito incarichi professionali a infermieri dipendenti pubblici senza avere acquisito la preventiva autorizzazione della loro Amministrazione di appartenenza.
L’agenzia delle Entrate non ha svolto attività difensiva.
La causa è stata avviata in decisione in adunanza camerale non partecipata.
Parti ricorrenti hanno depositato memoria.
Il primo motivo di ricorso denunzia violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 9, e della L. n. 689 del 1981, art. 3 censurando la sentenza impugnata per avere affermato, a sostegno della conclusione accolta, che la disposizione di cui all’art. 53 citato impone a carico del datore di lavoro l’obbligo, con conseguente onere della prova, di verificare le condizioni che escludono la richiesta di autorizzazione, non potendosi lo stesso rimettere unicamente a quanto dichiarato sua sponte dal lavoratore. Tale interpretazione della norma, sostiene il ricorso, è errata, dal momento che si risolve con l’imporre un onere di indagare sullo status del lavoratore che oltrepassa il livello di diligenza richiesto, integrando una prova diabolica, atteso che, in mancanza di qualsiasi archivio dei pubblici dipendenti, il conferente l’incarico non ha altro modo di riscontrare la situazione se non assumendo dallo stesso lavoratore tutte le informazioni necessarie.
Il secondo motivo denunzia violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3 e dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 365 c.p.c., comma 1, n. 5, lamentando che il giudice a quo, nel decidere la controversia, abbia omesso di valutare che gli opponenti, in occasione dei conferimenti degli incarichi, avevano verificato che i lavoratori era iscritti all’albo professionale ed avevano partita iva, e che gli stessi avevano dichiarato ampia disponibilità di orari e inoltre “di non trovarsi in nessuna situazione di incompatibilità e essere comunque in possesso di tutte le autorizzazioni di legge eventualmente previste”, fatti che, se debitamente valutati, avrebbero dovuto portare a concludere che i comparenti avevano adempiuto correttamene al loro obbligo di indagine ovvero, quanto meno, della presenza di un errore scusabile escludente la loro responsabilità.
I motivi, che possono essere trattati congiuntamene, sono infondati.
Il giudice di appello ha rigettato in parte qua l’opposizione, ritenendo non solo erronea la interpretazione degli opponenti, secondo cui la violazione dell’art. 53 legge citata presupporrebbe la consapevolezza da parte del conferente l’incarico della qualità di dipendente pubblico del lavoratore, ma altresì l’assunto secondo ogni onere a loro carico si sarebbe esaurito e sarebbe stato assolto dalle dichiarazioni ricevute dal soggetto incaricato, in particolare dalla sua attestazione circa la mancanza di situazioni di incompatibilità nell’assunzione dell’incarico. Il Tribunale ha quindi affermato che l’art. 53 legge citata impone al datore di lavoro il dovere di verificare le condizioni che escludono la richiesta di autorizzazione, non potendosi lo stesso rimettere unicamente a quanto eventualmente dichiarato dal lavoratore, e che nella specie tale onere non risultava assolto, non risultando richieste nemmeno specifiche dichiarazioni ai soggetti cui veniva conferito l’incarico, né assunte informazioni in altro modo.
Le argomentazioni svolte dalla sentenza impugnata in ordine alla interpretazione della norma di legge di cui si discute ed al contenuto e consistenza del conseguente onere che grava sul conferente si sottraggono alle censure di violazione di legge prospettate dal ricorso per essere del tutto conformi all’orientamento di questa Corte, che ha avuto modo di precisare che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53 impone a carico del datore di lavoro un obbligo di verifica delle condizioni che escludono la richiesta di autorizzazione e che, al fine della sua osservanza, egli non può rimettersi unicamente a quanto dichiarato sponte sua dal lavoratore. Si è inoltre chiarito che tale conclusione interpretativa non contrasta affatto con quanto previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 in tema di violazioni amministrative, in quanto l’errore sulla liceità del fatto giustifica l’esclusione della responsabilità solo nel caso in cui sia inevitabile, situazione questa che richiede sia un elemento positivo, estraneo all’autore dell’infrazione, idoneo ad ingenerare la convinzione della liceità della sua condotta ed altresì la condizione che, da parte sua, sia stato fatto tutto il possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero quindi possa essergli mosso (Cass. n. 9289 del 2020; Cass. n. 25752 del 2016).
Il ricorso assume che l’onere di accertare se il lavoratore era o meno dipendente pubblico doveva nella specie ritenersi assolto in ragione della dichiarazione di assenza di situazioni di incompatibilità resa dal lavoratore al momento dell’accettazione dell’incarico, nonché dal fatto che egli era in possesso di partita iva ed era iscritto all’Albo degli infermieri professionali ed al relativo ente previdenziale ed aveva manifestato, quanto all’orario di lavoro, assoluta disponibilità e libertà.
In adesione all’orientamento giurisprudenziale sopra menzionato deve al riguardo ritenersi corretta la valutazione del Tribunale che ha riconosciuto, ai fini dell’assolvimento dell’onere in discorso, prive di concludenza le circostanze sopra addotte, essendo sufficiente al riguardo osservare che l’art. 53 citato non introduce alcuna situazione di “incompatibilità” per il dipendente pubblico, ma si limita a prevedere che gli incarichi provenienti da enti pubblici o privati siano autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, sicché la dichiarazione sopraindicata del soggetto incaricato non rileva sotto il profilo, che sarebbe il solo rilevante, dell’esistenza o meno della sua qualità di dipendente pubblico, e che altresì le altre circostanze non sono di per sé incompatibili con tale status, con l’effetto che la loro ricorrenza non rappresenta un dato sufficiente ad escluderlo.
Il ricorso va pertanto respinto.
Nulla sulle spese, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.
Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2022