Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16806 del 29/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 29/07/2011, (ud. 14/06/2011, dep. 29/07/2011), n.16806

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

CERVETTI PROJECT S.R.L., già CERVETTI RICAMBI S.R.L., in persona del

legale rappresentante prò tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 235, presso lo studio dell’avvocato CATERINO

CATERINA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

BERSELLI FILIPPO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

R.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 50,

presso lo studio dell’avvocato COSSU BRUNO, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato PICCININI ALBERTO, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 698/2008 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 08/01/2009 R.G.N. 419/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/06/2011 dal Consigliere Dott. ULPIANO MORCAVALLO;

udito l’Avvocato CATERINO CATERINA;

udito l’Avvocato COSSU BRUNO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 23 aprile 2004 il Tribunale di Bologna, giudice del lavoro, respingeva la domanda proposta da R.F. nei confronti della società datrice di lavoro Cervetti Ricambi s.r.l., intesa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento a lui intimato il 3 marzo 1999. Tale decisione veniva riformata dalla Corte d’appello di Bologna, che, con la sentenza qui impugnata, dichiarava l’illegittimità del licenziamento e condannava la datrice di lavoro al risarcimento dei danni e al pagamento di una indennità, sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro. La Corte di merito, in particolare, rilevava che fra le parti si era instaurato un rapporto di lavoro subordinato dacchè il R. aveva iniziato a svolgere la sua prestazione in data 1 marzo 1999 e che il lavoratore si era legittimamente rifiutato di sottoscrivere, successivamente, un contratto sottopostogli dalla datrice di lavoro, contenente un patto di prova, non potendosi in ciò configurare alcuna volontà di recedere unilateralmente dal rapporto (essendo prevista dal contratto collettivo, peraltro, la forma scritta in caso di dimissioni volontarie); inoltre, il R. si era recato sul posto di lavoro il successivo 4 marzo, dopo che il rappresentante legale della società, il giorno precedente, gli aveva comunicato per telefono che il rapporto sarebbe cessato in mancanza di sottoscrizione del patto di prova, e in tale occasione un’impiegata della stessa società gli aveva fatto presente che senza tale sottoscrizione non gli sarebbe stato riconsegnato il libretto di lavoro; infine; la data del licenziamento orale – 3 marzo 1999 – era risultata apposta anche sulla busta paga predisposta dalla società e poi consegnata al lavoratore; al lavoratore illegittimamente licenziato spettavano, quindi, il risarcimento del danno pari a cinque mensilità, nonchè l’indennità sostitutiva della reintegra avendo egli rinunciato a riprendere servizio.

2. Di questa sentenza la società domanda la cassazione con ricorso articolato in cinque motivi, cui il lavoratore resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 143 del c.c.n.l. erronea applicazione del principio della prova scritta delle dimissioni e violazione o falsa applicazione degli art. 2118, 2697, 1352 c.c., la ricorrente lamenta che la Corte di merito abbia escluso la configurazione delle dimissioni volontarie del dipendente ritenendo necessaria la forma scritta, senza considerare che tale forma non è prevista dal c.c.n.l. ad substantiam e che, comunque, anche l’eventuale previsione non avrebbe potuto escludere una doverosa indagine sulla effettiva volontà delle parti ai fini della protrazione del rapporto.

2. Il secondo motivo denuncia vizio di motivazione e violazione dell’art. 116 c.p.c., precisandosi, sempre in relazione alla ritenuta insussistenza delle dimissioni, che la Corte di merito avrebbe dovuto esaminare l’intero complesso probatorio, senza limitarsi a valorizzare un’unica testimonianza.

3. Con il terzo motivo, denunciandosi vizio di motivazione e violazione dell’art. 2735 c.c., si lamenta che la decisione impugnata abbia motivato in modo inadeguato circa la ritenuta esistenza di un licenziamento da parte della società e, in particolare, abbia erroneamente attribuito valore confessorio alle dichiarazioni rese dal rappresentante legale della società in sede di tentativo di conciliazione.

4. Il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e dell’art. 1227 c.c. Si sostiene che il regime sanzionatorio dell’art. 18 cit. non poteva trovare applicazione, essendo intervenuta la revoca del licenziamento prima del giudizio ed essendosi rifiutato il lavoratore di riprendere servizio, nè poteva trovare ingresso l’opzione per l’indennità sostitutiva, non avendola il dipendente esercitata entro il termine di trenta giorni dalla intervenuta revoca del recesso.

5. Il quinto motivo denuncia violazione dell’art. 2096 c.c., erronea applicazione del principio della prova scritta in ordine al patto di prova e vizio di motivazione. Si deduce che il menzionato principio della prova scritta non poteva essere applicato nella specie, in presenza di comportamenti, anche dolosi, del lavoratore, intesi a non sottoscrivere il patto di prova sottopostogli dalla datrice di lavoro anteriormente all’inizio del rapporto.

6. Tali motivi devono essere esaminati unitariamente per l’intima connessione delle censure proposte; e l’esame congiunto ne rivela l’infondatezza per ciascuno degli evidenziati profili.

6.1. Come questa Corte ha più volte precisato, la forma scritta necessaria, a norma dell’art. 2096 c.c., per il patto di assunzione in prova è richiesta ad substantiam, e tale essenziale requisito di forma, la cui mancanza comporta la nullità assoluta del patto di prova, deve sussistere sin dall’inizio del rapporto, senza alcuna possibilità di equipollenti o sanatorie, potendosi ammettere la non contestualità della sottoscrizione di entrambe le parti prima della esecuzione del contratto, ma non anche la successiva documentazione della clausola verbalmente pattuita mediante la sottoscrizione, originariamente mancante, di una delle parti, atteso che ciò si risolverebbe nella inammissibile convalida di un atto nullo, con sostanziale diminuzione della tutela del lavoratore (cfr. Cass. n. 11122 del 2002; n. 22308 del 2004). In particolare, in fattispecie analoghe a quella in esame, è stata ritenuta la nullità del patto di prova sottoscritto dal dipendente il giorno successivo all’inizio dell’attività, restando irrilevante il fatto che il dipendente avesse ritardato la sottoscrizione, essendo a conoscenza dell’esistenza del patto e avendo manifestato il proprio consenso verbalmente (cfr. Cass. 11122/2002, cit.). Nella specie, l’accertamento del giudice di merito è nel senso che il lavoratore ha iniziato la sua prestazioneil0 marzo 1999, mentre solo alcuni giorni dopo gli è stato sottoposto il patto di prova, quale condizione per la assunzione. Al riguardo, d’altra parte, le censure della ricorrente si risolvono in una diversa valutazione del fatto e presuppongono, inammissibilmente, circostanze irrilevanti, relative all’esistenza di intese o volontà pregresse in ordine alla assunzione in prova.

6.2. In base ad accertamento puntuale, non adeguatamente censurato in questa sede, la decisione impugnata ha rilevato che il lavoratore rifiutò di sottoscrivere il patto di prova sottopostogli in epoca successiva all’inizio della prestazione, pervenendo alla conclusione, giuridicamente ineccepibile, che un tale rifiuto, essendo legittimo, non poteva certamente integrare un’ipotesi di dimissioni volontarie, tanto più che il R. si era recato nei locali della società – il (OMISSIS) – a seguito della telefonata del legale rappresentante che gli aveva preannunciato il recesso datoriale in mancanza della sottoscrizione del patto di prova.

6.3. In particolare, le critiche mosse dalla società si risolvono, al riguardo, in una inammissibile diversa ricostruzione dei fatti, intesi, essenzialmente, a svalutare gli elementi di prova utilizzati dalla Corte di merito e a valorizzare, viceversa, altre risultanze.

6.4. Con queste premesse, risulta ininfluente la previsione collettiva riguardante le modalità e le forme delle dimissioni, essendo escluso, comunque, che il lavoratore abbia in alcun modo manifestato l’intento di recedere dal contratto.

6.5. L’esistenza del recesso datoriale, invece, è stata ritenuta dalla Corte territoriale in base a concorrenti elementi, anche documentali, quali, in particolare, la preannunciata restituzione del libretto di lavoro e l’indicazione della data di cessazione del rapporto – 3 marzo 1999 – sulla busta paga consegnata al lavoratore:

tutti elementi che, anche in tal caso, sono inadeguatamente censurati dalla società ricorrente, che contrappone, inammissibilmente, una contraria sua valutazione dei fatti in base ad altre risultanze inidonee a scalfire la coerenza del giudizio di fatto della Corte d’appello.

6.6. Infondate si rivelano, infine, le doglianze relative al risarcimento del danno e all’indennità sostitutiva, che presuppongono circostanze puntualmente escluse, in fatto, nella decisione di merito, come il rifiuto illegittimo del dipendente di riprendere servizio e l’avvenuta revoca del licenziamento da parte datoriale (la quale, peraltro, non sarebbe comunque idonea a far decorrere il termine per l’esercizio dell’opzione per l’indennità:

cfr. Cass. n. 4000 dei 2005, e altre conformi).

7. In conclusione il ricorso è respinto. La ricorrente va condannata al pagamento delle spese del giudizio, secondo il criterio della soccombenza, con liquidazione in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 24,00 per esborsi e in Euro tremila/00 per onorario, oltre a spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2011

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