Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1680 del 19/01/2022
Cassazione civile sez. II, 19/01/2022, (ud. 18/11/2021, dep. 19/01/2022), n.1680
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
F.G., e Paim Cooperativa Sociale s.p.a., con sede in
(OMISSIS), in persona del legale rappresentante sig.
F.G., rappresentati e difesi per procura alle liti a margine del
ricorso dall’Avvocato Simona Carloni, elettivamente domiciliati
presso il suo studio in Roma, via Monte Santo n. 2;
– ricorrenti –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del direttore, rappresentata e
difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata
presso i suoi uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2353 della Corte di appello di Firenze,
depositata il 24.10.2017;
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
18.11.2021 dal consigliere relatore Dott. Mario Bertuzzi.
Fatto
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
Con atto notificato a mezzo posta il 23.10.2018 F.G. e la Paim Cooperativa Sociale s.p.a. propongono ricorso, affidato a tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 2353 del 24.10.2017 della Corte di appello di Firenze che, in parziale accoglimento dell’appello della Agenzia delle Entrate di Pisa, aveva rigettato l’opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione n. 19290/2009 che irrogava loro una sanzione pecuniaria per la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 9, per avere conferito incarichi professionali ad un infermiere dipendente pubblico senza avere acquisito la preventiva autorizzazione della sua Amministrazione di appartenenza.
L’agenzia delle Entrate ha notificato controricorso.
La causa è stata avviata in decisione in adunanza camerale non partecipata.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
Il primo motivo di ricorso denunzia violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 9, e della L. n. 689 del 1981, art. 3 censurando la sentenza impugnata per avere affermato, a sostegno della conclusione accolta, che la disposizione di cui all’art. 53 citato impone a carico del datore di lavoro l’obbligo, con conseguente onere della prova, di verificare le condizioni che escludono la richiesta di autorizzazione, non potendosi lo stesso rimettere unicamente a quanto dichiarato sua sponte dal lavoratore. Tale interpretazione della norma finisce infatti con l’imporre, sostengono i ricorrenti, un onere di indagare sullo status del lavoratore che oltrepassa il livello di diligenza richiesto, integrando una prova diabolica, atteso che, in mancanza di qualsiasi archivio dei pubblici dipendenti, egli non ha altro modo di riscontrare la situazione se non assumendo dallo stesso lavoratore tutte le informazioni necessarie.
Il secondo motivo denunzia violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3 e degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamentando che il giudice a quo abbia fondato la sua decisione sul rilevo che gli opponenti non avevano fornito la prova di avere fatto il possibile per accertare se il lavoratore fosse o meno un pubblico dipendente, nonostante che essi avessero allegato che il lavoratore era iscritto all’albo professionale ed aveva partita iva, che lo stesso aveva dichiarato ampia disponibilità di orari e di non versare in situazioni di incompatibilità, valutando tali elementi di fatto non nel loro complesso e quali fonti di presunzioni circa la buona fede degli istanti.
I motivi, che possono essere trattati congiuntamene, sono infondati.
Il giudice di appello ha rigettato in parte qua l’opposizione, ritenendo infondato l’assunto dei ricorrenti secondo ogni onere a loro carico si sarebbe esaurito e sarebbe stato assolto dalle dichiarazioni ricevute dal soggetto incaricato, in particolare dalla sua attestazione circa la mancanza di situazioni di incompatibilità nell’assunzione dell’incarico. La Corte di appello ha quindi affermato che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 9, impone al datore di lavoro il dovere di verificare le condizioni che escludono la richiesta di autorizzazione, non potendosi lo stesso rimettere unicamente a quanto eventualmente dichiarato dal lavoratore, e che nella specie tale onere non risultava assolto, atteso che le circostanze acquisite non escludevano la qualità di dipendente pubblico del lavoratore, la cui esistenza o meno avrebbe potuto essere agevolmente accertata acquisendo autocertificazioni annuali o dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà o le dichiarazioni dei redditi.
Le argomentazioni svolte dalla sentenza impugnata in ordine alla interpretazione della norma di legge di cui si discute ed al contenuto e consistenza del conseguente onere che grava sul conferente si sottraggono alle censure di violazione di legge prospettate dal ricorso per essere del tutto conformi all’orientamento di questa Corte, che ha avuto modo di precisare che l’art. 53 D.Lgs. citato impone a carico del datore di lavoro un obbligo di verifica delle condizioni che escludono la richiesta di autorizzazione e che, al fine della sua osservanza, egli non può rimettersi unicamente a quanto dichiarato sponte sua dal lavoratore. Si è inoltre chiarito che tale conclusione interpretativa non contrasta affatto con quanto previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 in tema di violazioni amministrative, in quanto l’errore sulla liceità del fatto giustifica l’esclusione della responsabilità solo nel caso in cui sia inevitabile, situazione questa che richiede sia un elemento positivo, estraneo all’autore dell’infrazione, idoneo ad ingenerare la convinzione della liceità della sua condotta ed altresì la condizione che, da parte sua, sia stato fatto tutto il possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero quindi possa essergli mosso (Cass. n. 9289 del 2020; Cass. n. 25752 del 2016).
Il ricorso assume che l’onere di accertare se il lavoratore era o meno dipendente pubblico doveva nella specie ritenersi assolto in ragione della dichiarazione di assenza di situazioni di incompatibilità resa dal lavoratore al momento dell’accettazione dell’incarico, nonché dal fatto che egli era in possesso di partita iva ed era iscritto all’Albo degli infermieri professionali ed al relativo ente previdenziale ed aveva manifestato, quanto all’orario di lavoro, assoluta disponibilità e libertà.
In adesione all’orientamento giurisprudenziale sopra menzionato deve al riguardo ritenersi corretta la valutazione della Corte di appello che ha riconosciuto, ai fini dell’assolvimento dell’onere in discorso, prive di concludenza le circostanze sopra addotte, essendo sufficiente al riguardo osservare che l’art. 53 citato non introduce alcuna situazione di “incompatibilità” per il dipendente pubblico, ma si limita a prevedere che gli incarichi provenienti da enti pubblici o privati siano autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, sicché la dichiarazione sopraindicata del soggetto incaricato non rileva sotto il profilo, che sarebbe il solo rilevante, dell’esistenza o meno della sua qualità di dipendente pubblico, e che altresì le altre circostanze non sono di per sé incompatibili con tale status, con l’effetto che la loro ricorrenza non rappresenta un dato sufficiente ad escluderlo.
Il terzo motivo di ricorso denunzia violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, assumendo che la motivazione della sentenza impugnata è illogica e contraddittoria, in quanto, da un lato, ha escluso che le indagini svolte dagli opponenti non fossero sufficienti ad integrare la diligenza richiesta, essendosi limitate alle informazioni date dal lavoratore, dall’altra, ha ritenuto che lo status di pubblico dipendente dello stesso poteva essere agevolmente accertato dall’acquisizione di autocertificazioni, dichiarazioni sostitutive di atto notorio e dichiarazioni dei redditi, cioè da documenti provenienti dallo stesso lavoratore.
Il motivo è infondato in quanto muove da una lettura non corretta della motivazione della sentenza impugnata, la quale, partendo dalla esatta premessa che l’onere della prova a carico dell’opponente ha per oggetto lo svolgimento delle opportune verifiche in ordine alla qualità del soggetto incaricato ed in particolare se questi sia o meno dipendente pubblico, ha rilevato che la prova di tale riscontro non poteva emergere dalle circostanze indicate dagli opponenti e addotte dallo stesso prestatore, da cui non poteva escludersi tale sua qualità. La precisazione da parte della Corte di appello, secondo cui una tale verifica avrebbe potuto essere agevolmente condotta mediante l’acquisizione di determinati atti (quali le autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà o le dichiarazioni dei redditi) non si pone in contraddizione o illogicità con il giudizio espresso, per trattarsi di atti formati dallo stesso soggetto incaricato della prestazione, se solo si tiene conto che essi, a differenza delle altre circostanze, oltre ad essere assistiti da maggiore attendibilità in ragione della loro natura, permetterebbero proprio di verificare direttamente se il dichiarante rivesta o meno la qualità di dipendente pubblico, ponendosi come rappresentativi del fatto circa la necessità o meno di richiedere, prima del conferimento dell’incarico, l’autorizzazione richiesta dalla legge.
Il ricorso va pertanto respinto.
Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 2.300,00, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2022