Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16793 del 09/08/2016


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Cassazione civile sez. trib., 09/08/2016, (ud. 22/07/2016, dep. 09/08/2016), n.16793

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 25686/2010 R.G. proposto da:

G.S., elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo

studio dell’avvocato LORENZONI FABIO, che lo rappresenta e difende,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona dei rispettivi legali

rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

e

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 137/1/2010, depositata il 29/06/2010;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22

luglio 2016 dal Relatore Cons. Emilio Iannello;

udito per il ricorrente l’Avv. Michele Ferrante;

udito per l’Agenzia delle entrate, controricorrente, l’Avvocato dello

Stato Paola Maria Zerman;

udito il PM., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.ssa

Soldi Anna Maria, la quale ha concluso per l’accoglimento.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza n. 23451 del 11/09/2008 questa Corte cassava la sentenza della C.T.R. della Lombardia che, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto legittimo il diniego di rimborso delle somme pagate da G.S., medico oncologo, per Irap in relazione agli anni 1998, 1999 e 2000, per non essere stata data prova della carenza del requisito di una autonoma organizzazione nell’attività professionale espletata.

La S.C. riteneva, infatti, fondata la censura di vizio motivazionale, essendosi la C.T.R. limitata a constatare che non era stato documentato quanto argomentato in tema di (mancanza dei) requisiti organizzativi, “senza esplicitare quali sarebbero le omissioni rilevanti vista la incontestata produzione in prime cure del libro cespiti ammortizzabili”.

2. Pronunciando in sede di rinvio, la C.T.R. della Lombardia, con sentenza depositata in data 29/6/2010, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava il ricorso proposto dal contribuente, condannandolo alle spese, così dunque confermando la sentenza d’appello cassata.

Rilevava infatti che dalla documentazione prodotta (copia dei modelli F 24 dei versamenti Irap e di alcune pagine del libro dei cespiti ammortizzabili) “non si ricava prova sicura” della carenza dei presupposti d’imposta, “evincendosi soltanto l’impiego di alcuni beni strumentali al tempo utilizzati per lo svolgimento dell’attività”, ma non anche “quali siano i beni già ammortizzati, ma comunque utilizzati per lo svolgimento dell’attività”; soggiungeva che non risultavano nemmeno prodotte le dichiarazioni dei redditi degli anni in questione, ciò impedendo di desumere l’esistenza o meno di spese per dipendenti, per beni in leasing, e così analizzare la composizione dei costi affrontati per lo svolgimento dell’attività professionale.

3. Avverso tale sentenza il contribuente propone ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. Con il primo motivo di ricorso G.S. denuncia “violazione o falsa applicazione delle norme di diritto che regolano il giudizio di rinvio”, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di rinvio compiuto una autonoma valutazione dei fatti di causa senza coordinarsi con il dictum della cassazione e così ripetendo l’errore logico censurato con l’ordinanza di rinvio, consistito nel non aver tenuto conto della accertata valenza probatoria del registro dei cespiti depositato in primo grado a sostegno della domanda di rimborso.

5. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. omesso di esercitare il potere officioso, ad essa riconosciuto dal D.Lgs. n. 543 del 1992, art. 7, comma 1, di assunzione dei mezzi istruttori integrativi, e in particolare di ordinare all’Agenzia delle entrate la produzione in giudizio della certificazione dell’anagrafe tributaria in suo possesso.

6. Con il terzo motivo il ricorrente deduce “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la C.T.R., senza alcuna motivazione e in contrasto con quanto statuito nell’ordinanza di rinvio, negato che la produzione del registro dei cespiti ammortizzabili potesse dimostrare la carenza dei presupposti d’imposta, pur avendo al contempo riconosciuto che dai documenti prodotti si evince “l’impiego di alcuni beni strumentali al tempo utilizzati per lo svolgimento dell’attività”, elemento che invece avrebbe dovuto ritenersi di per sè sufficiente a escludere l’assoggettabilità ad Irap.

7. Con il quarto motivo il G. denuncia infine “violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, artt. 2 e 3”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il giudice di rinvio, con l’esposta motivazione, implicitamente recepito una lettura dei presupposti d’imposta erronea e in contrasto peraltro con quanto dimostrato in merito alle modalità di svolgimento dell’attività professionale.

8. Il primo motivo di ricorso – al cui esame (come a quello del successivo) non osta l’erroneo riferimento nella relativa rubrica alla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 anzichè a quella di cui al n. 4, essendo noto che, come chiarito da ferma giurisprudenza di questa Corte, il ricorso per cassazione deve bensì essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, senza che tuttavia possa considerarsi necessaria l’adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass., Sez. U, n. 17931 del 24/07/2013, Rv. 627268) – è infondato.

La giurisprudenza di questa Corte ha già avuto occasione di precisare che, allorquando il giudice di legittimità annulli la sentenza impugnata per insufficienza di motivazione (come accaduto nel caso qui in esame, con la precedente ordinanza di cassazione con rinvio), non viene emesso alcun principio di diritto vincolante per il giudice di rinvio, il quale è tenuto unicamente a riesaminare i fatti oggetto di discussione ai fini di un nuovo apprezzamento complessivo adeguato ai rilievi contenuti nella sentenza di cassazione, sicchè le prescrizioni dettate al riguardo dal giudice di legittimità hanno valore meramente orientativo e non valgono a circoscrivere in un ambito invalicabile i poteri del giudice di rinvio, il quale resta libero di accertare nuovi fatti e decidere la controversia anche in base a nuovi presupposti oggettivi (v. Cass., Sez. 2, n. 6780 del 04/05/2012; Sez. 1, n. 2605 del 07/02/2006, Rv. 586817).

Il giudice di rinvio è, dunque, in tal caso, certamente tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza rescindente, e – pur decidendo con i medesimi poteri che aveva il giudice il cui provvedimento è stato annullato – non può evidentemente ripetere i vizi già censurati; sicchè è obbligato a non fondare la decisione sulle argomentazioni già ritenute incomplete o illogiche. Può, però, nuovamente prendere in considerazione l’intero materiale probatorio, eventualmente desumendo, anche aliunde – e dunque sulla base di elementi trascurati dal primo giudice – il proprio libero convincimento, così colmando i vuoti motivazionali segnalati ed eliminando le incongruenze rilevate.

Nel caso di specie il giudice di rinvio ha esercitato il proprio potere dovere di nuova valutazione delle prove offerte in giudizio in piena coerenza con i principi sopra enunciati, non potendosi in particolare ravvisare il denunciato allontanamento dalle indicazioni contenute nell’ordinanza di rinvio. Quest’ultima invero, lungi dall’esprimere una (del resto non consentita al giudice di legittimità) valutazione nel merito della conducenza probatoria, in un senso o nell’altro, delle prove offerte in primo grado dal ricorrente, si è limitata a rilevare l’insufficienza motivazionale in cui era incorso il giudice d’appello nell’affermare la mancata prova da parte del ricorrente della carenza del presupposto d’imposta, in particolare per aver omesso ogni valutazione in ordine alla rilevanza al detto fine del libro dei cespiti ammortizzabili che risultava prodotto in primo grado, così dunque segnalando una mera lacuna argomentativa di cui il giudice di rinvio si è correttamente fatto carico, esprimendo una compiuta valutazione del detto elemento di prova (il che è sufficiente a escludere il denunciato error in procedendo, indipendentemente da ogni considerazione circa la congruità della motivazione offerta a supporto di tale nuova valutazione, sindacabile di per sè – se del caso – sotto il diverso profilo del vizio motivazionale, ma non in relazione a un inesistente contrasto con il dictum della precedente pronuncia di questa Corte).

9. E’ altresì infondato il secondo motivo.

Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7 laddove attribuisce al giudice il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova e, dunque, anche nell’ora abrogato terzo comma (che attribuiva “alle commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”), dev’essere interpretato alla luce del principio di terzietà sancito dall’art. 111 Cost., il quale non consente al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori, ma gli attribuisce solamente un potere istruttorio in funzione integrativa, e non integralmente sostitutiva, degli elementi di giudizio (Cass. Civ., Sez. 5, n. 673 del 15/01/2007). Tale potere, pertanto, può essere esercitato soltanto ove sussista un’obiettiva situazione di incertezza, al fine di integrare gli elementi di prova già forniti dalle parti e non anche nel caso in cui il materiale probatorio acquisito agli atti imponga una determinata soluzione della controversia (cfr. Cass. Civ., Sez. 5, n. 24464 del 17/11/2006, Rv. 594275; n. 14960 del 22/06/2010, Rv. 613988) e sempre che la parte su cui ricade l’onere della prova non abbia essa stessa la possibilità di integrare la prova già fornita ma questa risulti piuttosto ostacolata dall’essere i documenti in possesso dell’altra parte o di terzi (v. Cass. Civ., Sez. 5, n. 955 del 20/01/2016, Rv. 638439; Sez. 5, n. 7078 del 24/03/2010; Sez. 5, n. 10970 del 14/05/2007).

Nel caso di specie, non può revocarsi in dubbio che, da un lato, trattandosi di istanza di rimborso di Irap già versata dal contribuente, l’onere di dimostrare la sussistenza del fatto costitutivo della pretesa restitutoria (ossia, il carattere indebito del pagamento e, dunque, l’insussistenza dei presupposti di imposta) spettasse al ricorrente (v. ex multis Cass. Civ., Sez. 5, n. 25311 del 28/11/2014, Rv. 633690; Sez. 5, n. 18749 del 05/09/2014, Rv. 632244) e, dall’altro, gli elementi di valutazione che quest’ultimo assume avrebbero potuto essere richiesti ex officio dal giudice tributario in esercizio dei poteri istruttori invocati, ben potevano essere offerti dallo stesso ricorrente attraverso la produzione di documentazione (in particolare, le dichiarazioni dei redditi) da presumersi ovviamente nella sua piena disponibilità.

10. E’ altresì infondato il terzo motivo di ricorso.

I giudici di rinvio hanno offerto specifica motivazione del convincimento espresso circa la (in)idoneità della documentazione prodotta in primo grado (registro dei cespiti ammortizzabili) a dimostrare la carenza dei presupposti di imposta; come già s’è rilevato con riferimento al primo motivo di ricorso, tale valutazione non può ritenersi in contrasto con (nè tantomeno preclusa da) quanto statuito nell’ordinanza di rinvio, la quale invero, come si è evidenziato, non ha certo espresso alcuna positiva valutazione in ordine al contenuto e all’idoneità probatoria di tale documentazione, ma solo segnalato l’assenza di alcuna motivazione in proposito, nel precedente grado, da parte del giudice del merito.

Ciò posto, la detta valutazione di insufficienza del menzionato registro ad offrire idonea dimostrazione della fondatezza della domanda di rimborso deve altresì ritenersi adeguatamente giustificata attraverso il rilievo del limitato contenuto informativo da esso desumibile, inidoneo ad escludere sia l’esistenza di “beni già ammortizzati, ma comunque utilizzati nello svolgimento dell’attività”, sia l’esistenza di spese per collaboratori (non necessariamente subordinati) e/o beni in leasing, al qual riguardo come ragionevolmente evidenziato dai giudici di merito – solo le dichiarazioni dei redditi presentate per gli anni in questione avrebbero potuto offrire adeguate e conferenti informazioni.

Trattasi di motivazione logicamente congruente, che come tale pertanto si sottrae alla dedotta censura di vizio motivazionale.

11. La decisione, nei termini indicati, risulta altresì pienamente coerente con il quadro normativo di riferimento e gli esposti criteri di riparto dell’onere probatorio, appalesandosi sotto tale profilo l’infondatezza anche del quarto motivo di ricorso.

Varrà infatti al riguardo rammentare che il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2 prevede quale presupposto per l’applicazione dell’IRAP “l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”. La Corte costituzionale, con sentenza n. 156 del 21 maggio 2001, ha ritenuto legittima l’imposta in quanto non colpisce il lavoro autonomo in sè, ma la capacità produttiva che deriva dalla “autonoma organizzazione”, non coincidente con l’autorganizzazione ma intesa come elemento impersonale ed aggiuntivo rispetto all’apporto del professionista.

Alla luce di tale intervento nella giurisprudenza di questa Corte si è consolidato il principio – dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi – secondo cui il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui (v. ex pluribus Cass. Civ., Sez. U, n. 12111 del 26/05/2009, Rv. 608231; Sez. 5, n. 16406 del 05/08/2015, non massimata; Sez. 5, n. 25311 del 28/11/2014, Rv. 633690).

Nel caso di specie, con la decisione impugnata, la C.T.R. ha confermato la legittimità del diniego del chiesto rimborso essenzialmente in ragione – come detto – del rilievo per cui la documentazione offerta non è in grado di escludere l’esistenza di beni strumentali (già ammortizzati) eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, nè di dimostrare che il contribuente non si sia avvalso, negli anni in questione, in modo non occasionale, di lavoro altrui.

Non si vede pertanto, nè il ricorrente lo spiega, perchè e in qual misura detta ratio decidendi implichi una erronea lettura dei presupposti d’imposta.

12. Il ricorso va pertanto rigettato con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia delle entrate, delle spese processuali, liquidate in Euro 1.800, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 22 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2016

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