Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16791 del 29/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 29/07/2011, (ud. 12/05/2011, dep. 29/07/2011), n.16791

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. BANDINI Giancarlo – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AZIENDA RISORSE IDRICHE DI NAPOLI – A.R.I.N. S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato RIZZO GAETANO, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

P.M., (in proprio e nella qualità di procuratrice

speciale di C.S.), C.M., C.

F., CA.MA., C.D., C.

M.R., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BARBERINI 3,

presso lo studio dell’avvocato PARLATO GUIDO, che li rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2497/2006 della CORTE D’APPELLO di. NAPOLI,

depositata il 23/02/2007 R.G.N. 1081/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/05/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito l’Avvocato RIZZO GAETANO;

udito l’Avvocato PARLATO GUIDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.R., dipendente della Arin (Azienda Risorse Idriche di Napoli) con la qualifica di impiegato di concetto con funzioni direttive di classe A, ha convenuto in giudizio l’Azienda sua datrice di lavoro chiedendo il riconoscimento del diritto alla qualifica di quadro in relazione alle mansioni svolte, fino alla data del suo collocamento a riposo, quale reggente dell’Ufficio Impianti Privati.

Il Tribunale di Napoli ha accolto la domanda, con decisione che è stata confermata dalla Corte di Appello di Napoli, sul rilievo che l’istruttoria svolta nel giudizio di primo grado aveva confermato lo svolgimento da parte del C. di compiti di direzione di un ufficio di primaria importanza, con ampia discrezionalità e responsabilità decisionale e alle dirette dipendenze del dirigente superiore gerarchico.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la Arin spa affidandosi a tre motivi di ricorso cui resistono con controricorso gli eredi C..

Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2095, 2103, 1322 c.c., art. 1362 c.c. e segg., artt. 1372, 1375 c.c., della L. n. 190 del 1985, dell’accordo interconfederale 29.7.1987, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatti controversi e decisivi, chiedendo a questa Corte di stabilire se “nel procedimento di determinazione della qualifica del lavoratore è imprescindibile la lettura e l’interpretazione della normativa pertinente”; se “nell’attribuzione della qualifica di quadro è prescritta l’interpretazione e l’applicazione, oltre che della normativa della L. n. 190 del 1985, della normativa collettiva nazionale che fissa i requisiti di appartenenza alla categoria”; se “la violazione della normativa collettiva interconfederale è denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 3, n. 3” e se “a tale normativa si applicano le regole di interpretazione sancite nell’art. 1362 c.c. e segg.”.

2.- Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatti controversi e decisivi, chiedendo alla Corte di stabilire se “nell’accertamento delle mansioni di fatto del lavoratore, deve il giudice esaminare l’organizzazione aziendale nella quale si esplicano le mansioni stesse, dando conto delle varie posizioni lavorative esistenti nella struttura piramidale dell’azienda”.

3.- Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatti controversi e decisivi, chiedendo a questa Corte di stabilire se “nel procedere alla determinazione della qualifica spettante al lavoratore per effetto delle mansioni espletate, è imprescindibile la lettura e l’interpretazione della normativa collettiva pertinente, senza tenersi conto di alcun principio di parità con situazioni pregresse”.

4.- I tre motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente in quanto tra loro connessi. Le censure espresse in tutti i motivi con riferimento alla violazione di norme di legge, nonchè delle norme dell’accordo interconfederale del 29.7.1987, devono ritenersi inammissibili per mancanza dei requisiti prescritti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.

Sempre per la stessa carenza, devono ritenersi inammissibili anche le censure svolte nel primo e nel terzo motivo, per quanto riguarda i vizi di motivazione ivi denunciati.

5.- Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, e quindi anche al ricorso in esame, nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, che deve essere idoneo a far comprendere alla S.C., dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. n. 8463/2009). Per la realizzazione di tale finalità, il quesito deve contenere la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice a quo e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare alla fattispecie. Nel suo contenuto, inoltre, il quesito deve essere caratterizzato da un sufficienza dell’esposizione riassuntiva degli elementi di fatto ad apprezzare la sua necessaria specificità e pertinenza e da una enunciazione in termini idonei a consentire che la risposta ad esso comporti univocamente l’accoglimento o il rigetto del motivo al quale attiene (Cass. n. 5779/2010, Cass. n. 5208/2010).

Anche nel caso in cui venga dedotto un vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’illustrazione del motivo deve contenere, a pena d’inammissibilità, la “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”. Ciò comporta, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Al riguardo, inoltre, non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata (cfr.

ex plurimis, Cass. n. 8555/2010, Cass. sez. unite n. 4908/2010, Cass. n. 16528/2008, Cass. n. 8897/2008, Cass. n. 16002/2007).

6.- Questa Corte ha più volte ribadito che, nel vigore dell’art. 366 bis c.p.c., non può ritenersi sufficiente – perchè possa dirsi osservato il precetto di tale disposizione – la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dall’esposizione del motivo di ricorso, nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie. Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis c.p.c., secondo cui è invece necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la S.C. è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 ha inteso valorizzare (Cass. n. 5208/2010, Cass. n. 20409/2008). E’ stato altresì precisato che il quesito deve essere formulato in modo tale da consentire l’individuazione del principio di diritto censurato posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del principio, diverso da quello, la cui auspicata applicazione da parte della S.C. possa condurre a una decisione di segno inverso; ove tale articolazione logico-giuridica mancasse, infatti, il quesito si risolverebbe in una astratta petizione di principio, inidonea sia a evidenziare il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio a opera della S.C. in funzione nomofilattica. Il quesito, pertanto, non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello alla S.C. in ordine alla fondatezza della censura, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la S.C. in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regala iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (Cass. sez. unite n. 27368/2009); per gli stessi motivi, il quesito di diritto non può mai risolversi nella generica richiesta rivolta alla S.C. di stabilire se sia stata violata o meno una certa norma, nemmeno nel caso in cui il ricorrente intenda dolersi dell’omessa applicazione di tale norma da parte del giudice di merito, e deve investire la ratio decidendi della sentenza impugnata, proponendone una alternativa e di segno opposto (Cass. n. 1285/2010, Cass. n. 4044/2009).

7.- Nella specie, nessuno dei quesiti formulati da parte ricorrente a chiusura dei motivi di ricorso, come sopra riportati, può ritenersi adeguato a recepire l’iter argomentativo che supporta le relative censure in quanto, oltre ad essere sostanzialmente privo di riferimenti concreti agli elementi di fatto rilevanti nel caso specifico, nessuno di essi individua chiaramente il principio di diritto posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato, nè propone un principio diverso e alternativo rispetto a quello applicato dal giudice di merito, ma si limita inammissibilmente ad una serie di richieste rivolte a questa Corte per stabilire genericamente se nel procedimento di attribuzione della qualifica del lavoratore devono essere seguite o meno determinate norme di legge e della contrattazione collettiva applicabile alla fattispecie che viene in esame, in relazione alle mansioni concretamente esercitate dal lavoratore. Premesso che nella sentenza impugnata viene fatto specifico riferimento alla normativa collettiva applicabile alla fattispecie (cfr. pag. 3 della decisione della Corte d’appello), è evidente, dunque, che nessuno dei quesiti in esame può ritenersi risolutivo e dotato di effettiva rilevanza ai fini della decisione del corrispondente motivo, dovendo precisarsi, per quanto riguarda il terzo motivo, che anche il riferimento alla configurabilità di un “principio di parità con situazioni pregresse” non è conferente rispetto al decisum della Corte d’appello, che non si fonda sull’affermazione dell’esistenza di un principio di parità di trattamento tra lavoratori, ma sulla accertata corrispondenza delle mansioni di fatto svolte dal lavoratore con quelle previste dalla qualifica di quadro.

8.- Anche le carenze motivazionali alle quali si fa riferimento nel primo e nel terzo motivo di ricorso non appaiono sufficientemente individuate e precisate nel senso che si è sopra indicato, ovvero mediante la necessaria indicazione del fatto controverso in una parte del motivo che costituisca un momento di sintesi del complesso degli argomenti critici sviluppati nell’illustrazione dello stesso motivo e delle ragioni per le quali tali carenze dovrebbero rendere la motivazione inidonea a giustificare la decisione. Non sussistono, infine, i vizi di motivazione denunciati con il secondo motivo, avendo la Corte territoriale adeguatamente argomentato in ordine alla autonomia operativa e decisionale del C. nella gestione dell’ufficio al quale era stato preposto, e risolvendosi le contrarie affermazioni della ricorrente in una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla Corte d’appello, inidonea a radicare un deducibile vizio di legittimità di quest’ultima (anche perchè l’affermazione che quanto asserito in sentenza non troverebbe riscontro nella realtà organizzativa dell’azienda non è sostenuta da alcun riferimento agli atti del processo). Al riguardo, deve rimarcarsi che, come questa Corte ha costantemente ribadito, il controllo sulla motivazione non può risolversi in una duplicazione del giudizio di merito e che alla cassazione della sentenza impugnata può giungersi non per un semplice dissenso dalle conclusioni del giudice di merito – poichè in questo caso il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento dello stesso giudice di merito, che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione – ma solo in caso di motivazione contraddittoria o talmente lacunosa da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto alla base della decisione (cfr.

ex plurimis, Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 18885/2008, Cass. n. 6064/2008).

9.- Il ricorso deve essere pertanto respinto.

10.- Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono distratte a favore del procuratore antistatario.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 37,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali, con distrazione a favore dell’avv. Parlato Guido, antistatario.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2011

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