Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16782 del 09/08/2016


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Cassazione civile sez. trib., 09/08/2016, (ud. 27/06/2016, dep. 09/08/2016), n.16782

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 2619 del 2015 proposto da:

s.p.a. SAIMA AVANDERO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce al

ricorso, dagli avvocati Giovanni Scarpa e Claudio Lucisano, presso

lo studio dei quali in Roma, alla via Crescenzio, n. 91,

elettivamente si domicilia;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del direttore pro

tempore;

– intimata –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Campania, sezione 1, depositata in data 2 dicembre

2013, n. 599/1/13;

udita la relazione sulla causa svolta in camera di consiglio in data

27 giugno 2016 dal Consigliere Dr. Angelina Maria Perrino;

sentiti per la contribuente gli avvocati Claudio Lucisano e Giovanni

Scarpa e per l’Agenzia delle dogane e dei monopoli l’avvocato dello

Stato Anna Collabolletta;

sentito il sostituto procuratore generale Dr. Luigi Cuomo, che ha

concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

L’Agenzia delle dogane e dei monopoli ha irrogato alla società sanzioni conseguenti a violazioni inerenti all’assolvimento dell’iva all’importazione per l’anno 2005. A fondamento dell’irrogazione v’è la contestazione dell’indebito utilizzo del regime correlato al deposito fiscale iva, in quanto, nella prospettazione dell’ufficio, la merce oggetto d’importazione non è stata fisicamente introdotta nel deposito, benchè lo sdoganamento fosse avvenuto senza il pagamento dell’iva in dogana.

La contribuente ha impugnato l’atto di contestazione e d’irrogazione delle sanzioni, senza successo nè in primo nè in secondo grado. In particolare, la Commissione tributaria regionale ha reputato legittimo l’atto in questione in considerazione, appunto, dell’omissione dell’introduzione fisica nel deposito.

Avverso questa sentenza propone ricorso la società per ottenerne la cassazione, che affida a tre motivi, che illustra con memoria ex art. 378 c.p.c., cui l’Agenzia non replica con difese scritte.

Diritto

1.- Col secondo motivo del ricorso, il quale assume rilievo logico prodromico rispetto all’esame del primo, la società lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, comma 2, sostenendo che di questa norma non sussista il presupposto applicativo, consistente nell’omesso versamento in conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, mentre è configurabile il presupposto applicativo del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, in ragione della natura doganale dell’iva all’importazione.

1.1. – Va premesso che l’ordinanza di questa Corte n. 9278/16 non rileva in tema, sia perchè tale pronuncia è interlocutoria, sia perchè in quel giudizio la questione della natura dell’iva all’importazione non pertiene direttamente al thema decidendum.

1.2. – Ciò posto, il motivo è infondato.

Quanto alla natura del tributo, giova rimarcare che la materia doganale, giusta l’art. 3 del TFUE, è di competenza esclusiva dell’UE, le cui prescrizioni si applicano direttamente negli Stati membri.

In base alla normativa comunitaria, l’art. 4, paragrafo 9, del codice doganale comunitario (reg. 2913/92) definisce l’obbligazione doganale all’importazione come “l’obbligo di una persona di corrispondere l’importo dei dazi” ed il successivo paragrafo 10 identifica i dazi all’importazione con “i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente dovuti all’importazione delle merci”: ne deriva che l’obbligazione doganale non comprende Piva all’importazione, la quale ne resta per conseguenza estranea. La stessa Corte di giustizia ne ha dato atto espressamente: “i dazi all’importazione non includono l’iva da riscuotere per l’importazione di beni” (Corte giust. 29 luglio 2010, causa C-248/09, Pakora Pluss SIA, punto 47; conf., 2 giugno 2016, causa C-266 e 228/14, Eurogate Distribution Gmbh, punto 81, relativa ad un’ipotesi in cui, pur essendo insorta l’obbligazione doganale, non era configurabile quella di pagare l’iva all’importazione).

Il riconoscimento della posizione doganale di merce comunitaria, ossia di merce che può circolare liberamente all’interno dell’Unione europea, è ancorato all’immissione in libera pratica, la quale, a norma dell’art. 79 del codice doganale comunitario, “implica l’applicazione delle misure di politica commerciale, l’espletamento delle altre formalità previste per l’importazione di una merce, nonchè l’applicazione dei dazi legalmente dovuti”.

Tanto non basta, tuttavia, per l’inserimento della merce nel circuito commerciale, per il quale occorre la sua immissione in consumo; e il D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 36, comma 2, al riguardo prescrive che “si intendono destinate al consumo entro il territorio doganale le merci estere dichiarate per l’importazione definitiva”. Merci che, soltanto in esito all'”osservanza delle condizioni e formalità prescritte per l’importazione definitiva”, divengono “nazionalizzate”, in quanto tali equiparate, salvo che non sia espressamente disposto diversamente, a quelle nazionali (D.P.R. n. 43 del 1973, art. 134).

Il punto è che, ai fini dell’importazione definitiva, occorre adempiere non soltanto i dazi, ma anche gli altri diritti di confine, tra i quali si annovera l’iva all’importazione (D.P.R. n. 43 del 1973, art. 34).

1.3.- Il sistema dell’iva alle importazioni è peraltro per sua natura incardinato in quello generale dell’iva: “Viva all’importazione è intesa, al fine di garantire la neutralità del sistema comune rispetto all’origine dei beni, a porre i prodotti importati nella stessa situazione dei prodotti nazionali analoghi per quanto riguarda gli oneri fiscali gravanti sulle due categorie di merci” (Corte giust. 25 febbraio 1988, causa C-299/86, Rainer Drexl, pronunciata su pregiudiziale italiana, punto 9).

Il che ne evidenzia la natura di tributo interno, in quanto l’iva all’importazione non colpisce esclusivamente il prodotto importato in quanto tale, ma s’inserisce nel sistema fiscale uniforme dell’iva, che colpisce sistematicamente e secondo criteri obiettivi sia le operazioni degli Stati membri, sia quelle all’importazione (Corte giust. 5 maggio 1982, causa C- 15/81, Schul, punto 21): difatti, a norma dell’art. 12, comma 5, della sesta direttiva, “l’aliquota applicabile all’importazione di un bene è quella applicata alla fornitura di uno stesso bene effettuata all’interno del paese”; norma, questa, la quale trova rispondenza nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 69, che, ai fini della determinazione dell’iva all’importazione, richiama l’applicabilità delle “aliquote indicate nell’art. 16”.

La natura interna del tributo non ne consente l’assimilazione ai dazi, anche se l’iva all’importazione condivide con essi la caratteristica di trarre origine dal fatto dell’importazione nell’Unione e della susseguente introduzione nel circuito economico degli Stati membri (Corte giust. 11 luglio 2013, in causa C-272/12, Harry Winston SA, punto 41), con la conseguenza che fatto generatore ed esigibilità dell’iva all’importazione sono collegati a quelli dei dazi.

1.4.- Tanto chiarito sulla natura del tributo, occorre precisare che l’illegittimo impiego del deposito fiscale iva finisce di norma col riverberarsi almeno sulla tempestività dell’assolvimento dell’iva.

La disciplina dei depositi iva è affidata al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 50-bis, introdotto dalla L. 18 febbraio 1997, n. 28, che ha recepito la direttiva n. 95/7/Ce, concernente semplificazioni in materia d’imposta sul valore aggiunto sui traffici internazionali, al fine di evitare un trattamento fiscale deteriore in relazione ai beni comunitari rispetto a quello riservato ai beni provenienti da Paesi terzi: ciò in quanto, a seguito dell’abbattimento delle barriere tra gli Stati membri, soltanto per le merci extraeuropee era prevista la possibilità dell’immagazzinamento nel territorio dell’Unione, senza assolvere i dazi e le imposte nazionali, come l’iva. Scopo della norma è stato di evitare di assoggettare ad iva tutti i singoli passaggi in caso, in particolare, di cessioni intracomunitarie e di immissione in libera pratica di beni non comunitari: l’introduzione nei depositi all’uopo istituiti comporta il differimento dell’obbligo di assolvimento dell’imposta fino al momento dell’estrazione delle merci per l’immissione in consumo e pone l’obbligo direttamente a carico dell’ultimo acquirente (il sesto comma della norma stabilisce al riguardo che “…la base imponibile è costituita dal corrispettivo o valore relativo all’operazione non assoggettata all’imposta per effetto dell’introduzione ovvero, qualora successivamente i beni abbiano formato oggetto di una o più cessioni, dal corrispettivo o valore relativo all’ultima di tali cessioni, in ogni caso aumentato, se non già compreso, dell’importo relativo alle eventuali prestazioni di servizi delle quali i beni stessi abbiano formato oggetto durante la giacenza fino al momento dell’estrazione”).

1.5.- I depositi fiscali in questione sono luoghi fisici, ubicati sul territorio italiano, adibiti alla custodia di beni nazionali e comunitari che non siano destinati alla vendita al minuto nei locali dei medesimi depositi, in cui le merci entrano e stazionano e da cui escono al momento dell’estrazione: essi si differenziano sia dal deposito doganale (contemplato dagli art. 98 e ss. codice doganale comunitario), inteso come regime doganale, sia dal deposito fiscale per le accise, configurato come impianto, in cui avvengono la fabbricazione, la lavorazione, la trasformazione e la detenzione dei prodotti soggetti ad accisa, in regime sospensivo (D.Lgs. n. 504 del 1995, art. 5).

La fisicità del deposito iva e la necessità della fisicità dell’inserimento dei beni in esso emergono inequivocabilmente già dalle scelte semantiche del legislatore, che ha impiegato verbi come “introdurre”, il quale evoca l’attività fisica dell’immettere dentro

qualcosa e lemmi come “custodia”, che suggerisce il rapporto, anch’esso fisico, con la cosa che ne è oggetto (conformi, nel senso che la materiale introduzione delle merci nel deposito è richiesta dall’art. 50-bis, vedi, fra varie, Cass. n. 19749/14; ord. n. 15995, 15994, 15993, 15992, 15991, 15989, 15987, 15986, 15985, 15984, 15983, 15982, 15981, 15980 del 2015 e Corte giust. 15 luglio 2014, in causa C272/2013, Equoland Soc. coop. a r.I.).

Irrilevante ad orientare un’opzione per la virtualità dell’introduzione dei beni è il D.M. 20 ottobre 2007, n. 419, art. 4, contenente il regolamento attuativo della disciplina dei depositi iva, il quale prevede che l’introduzione e l’estrazione dei beni dal deposito debbano avvenire “sulla scorta di un documento amministrativo, commerciale o di trasporto, con l’indicazione dei dati di cui all’art. 3, comma 1, del presente regolamento, fatti salvi i casi di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis, comma 4, lett. b), per i quali l’introduzione avviene sulla base del documento doganale di importazione…”: la norma si limita a regolare le forme documentali che devono accompagnare l’introduzione e l’estrazione, coordinandole con le indicazioni che deve contenere il registro contemplato dal precedente art. 3, il quale, significativamente, si riferisce, come del resto fa il D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis, comma 3, alla “movimentazione dei beni custoditi nel deposito I.V.A.”.

Nè sono destinate ad incidere su queste conclusioni le norme d’interpretazione autentica del quarto comma del suddetto art. 50-bis succedutesi nel tempo, per mezzo del D.L. n. 185 del 2008, art. 16, comma 5 bis, come convertito, successivamente modificato dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, secondo cui, nel testo da ultimo novellato, “l’introduzione si intende realizzata anche negli spazi limitrofi al deposito IVA, senza che sia necessaria la preventiva introduzione della merce nel deposito”. La norma, difatti, si riferisce alla sola dell’art. 50-bis, comma 4, lett. h), ossia alle “prestazioni di servizi, comprese le operazioni di perfezionamento e le manipolazioni usuali, relative a beni custoditi in un deposito I.V.A…”, non già alle operazioni, rilevanti nel caso in esame, “di immissione in libera pratica di beni non comunitari destinati ad essere introdotti in un deposito IVA”, oggetto della lett. b) del medesimo comma.

E’ proprio la circostanza che si abbia riguardo a prestazioni di servizi, tra le quali sono annoverate quelle di perfezionamento e di manipolazione, a richiedere la disponibilità di spazi ulteriori rispetto al solo deposito, rendendo logico il riferimento soltanto a tale ipotesi della norma interpretativa. La disposizione interpretativa in questione, in definitiva, in luogo di smentire, conferma la necessità dell’introduzione fisica nel deposito dei beni non comunitari immessi in libera pratica, per evitare l’immediato assolvimento dell’imposta sul valore aggiunto necessaria per la loro immissione in consumo: è occorsa un’espressa disposizione, dettata dalla peculiarità del suo oggetto, volta ad ampliare la nozione di “introduzione della merce nel deposito”.

1.6. – Si attaglia dunque in pieno alla fattispecie l’applicazione del principio di diritto affermato dalla Corte di giustizia nella causa Equoland Soc.coop. a r.I., secondo il quale “l’art. 16, paragrafo 1, della sesta direttiva deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale che subordini la concessione dell’esenzione dal pagamento dell’IVA all’importazione, prevista da tale normativa, alla condizione che le merci importate e destinate a un deposito fiscale ai fini dell’IVA siano fisicamente introdotte nel medesimo” (punto 30 e dispositivo).

In questa cornice, indubbiamente l’assolvimento dell’imposta mediante emissione di autofattura all’atto dell’estrazione dei beni del deposito e la sua annotazione nei registri delle vendite escludono evasione, ma integrano il tardivo assolvimento dell’imposta: ciò in quanto l’iva all’importazione va versata per effetto ed in occasione di ciascuna importazione (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70: “l’imposta relativa alle importazioni è accertata, liquidata e riscossa per ciascuna operazione”), al momento dell’accettazione della dichiarazione in dogana; là dove l’iva “intracomunitaria” relativa alle merci introdotte nel deposito va assolta successivamente, ossia al momento dell’estrazione mediante il meccanismo dell’inversione contabile. Per conseguenza, il successivo assolvimento in tanto è consentito, ed esclude qualsivoglia violazione, in quanto l’utilizzo del deposito sia regolare. Il che non è avvenuto nel caso in esame, in cui il giudice d’appello ha accertato e la società non ha contestato, che l’introduzione nel deposito è stata virtuale e non fisica.

L’assolvimento successivo dell’iva si è per conseguenza tradotto in un assolvimento ritardato, ossia nel mancato pagamento del tributo nel termine previsto, che il legislatore sanziona con il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13, non già quando disciplina il trattamento sanzionatorio delle violazioni delle leggi doganali (coni, Cass. 16109/15). Ne deriva il rigetto del motivo.

2. – Col primo e col terzo motivo di ricorso, da esaminare congiuntamente, perchè connessi, la società si duole:

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dell’omesso esame dei fatti decisivi dell’inapplicabilità alla fattispecie del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 13 e della tempestività dell’assolvimento dell’iva mediante autofattura – primo motivo;

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione del richiamato D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis, come convertito, sul presupposto che l’imposta sia stata assolta mediante emissione dell’autofattura all’atto dell’estrazione dei beni dal deposito – terzo motivo.

La complessiva censura è fondata.

La Corte di giustizia, nella causa Equoland dinanzi richiamata, ha statuito che la violazione dell’obbligo formale d’introduzione fisica delle merci nel deposito “non ha comportato, perlomeno nel procedimento principale, il mancato pagamento dell’IVA all’importazione poichè questa è stata regolarizzata nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile applicato dal soggetto passivo” (punto 37), stabilendo che “la sesta direttiva dev’essere interpretata nel senso che, conformemente al principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, essa osta ad una normativa nazionale in forza della quale uno Stato membro richiede il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione sebbene la medesima sia già stata regolarizzata nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile, mediante un’autofatturazione e una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo” (punto 49 e dispositivo).

Occorre in conseguenza accertare se e quando l’iva intracomunitaria sia stata assolta mediante il meccanismo dell’inversione contabile, anche al fine di verificare la proporzionalità della sanzione irrogata, in considerazione dell’entità del ritardo in cui è incorsa la società, dato dal tempo intercorso tra lo sdoganamento della merce e l’applicazione del congegno dell’inversione contabile.

Accertamenti, questi, che, previa cassazione della sentenza impugnata, dovrà svolgere il giudice del rinvio.

PQM

La Corte:

Rigetta il primo motivo di ricorso, ne accoglie il secondo ed il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Campania.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2016

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