Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1677 del 27/01/2010

Cassazione civile sez. trib., 27/01/2010, (ud. 18/12/2009, dep. 27/01/2010), n.1677

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAPA Enrico – Presidente –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

cui domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

V.P.E.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 27/10/05 della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, depositata il 6.4.2006;

udita la relazione della causa svolta nell’adunanza in camera di

consiglio del 18 dicembre 2009 svolta dal consigliere relatore dott.

Mario Bertuzzi;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto

Procuratore Generale dott. GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per

il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con atto notificato il 27.6.2006, l’Agenzia delle Entrate ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia in epigrafe indicata, notificata il 4.5.2006, che, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva accolto il ricorso della contribuente, libero professionista, contro il silenzio rifiuto formatosi sulla sua istanza di rimborso irap per gli anni 1998 e 2002.

L’intimata non si è costituita.

Attivata procedura ex art. 375 cod. proc. civ., gli atti sono stati trasmessi al Procuratore Generale, che ha concluso per la trattazione del ricorso in camera di consiglio e per il suo rigetto per manifesta infondatezza.

Il primo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 e art. 2696 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per non avere dichiarato d’ufficio la contribuente decaduta dal diritto al rimborso per le somme versate fino al 28.6.1999 per avere presentato la relativa richiesta di restituzione oltre il termine di 48 mesi.

Il motivo è infondato.

Costituisce orientamento costante di questa Corte, che qui va ulteriormente ribadito, che la decadenza del contribuente dal diritto al rimborso per non aver presentato la relativa istanza entro il termine di cui D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38 dal versamento dell’imposta indebitamente corrisposta, ancorchè rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, non può essere eccepita per la prima volta in cassazione, qualora – come nel caso di specie – dalla sentenza impugnata risulti la sola data dell’istanza di rimborso ma non anche quella del versamento dell’imposta (che costituisce il dies a qua indispensabile ai fini del computo del termine di decadenza), non essendo consentita, in sede di legittimità, la proposizione di nuove questioni di diritto, anche se rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, quando esse presuppongano o comunque richiedano nuovi accertamenti di fatto, preclusi, come tali, alla Corte di Cassazione, salvo che nelle particolari ipotesi di cui all’art. 372 cod. proc. civ., nè essendo possibile ipotizzare un “error in procedendo” del giudice di merito – consistente nel mancato esame del documento – poichè la stessa rilevabilità d’ufficio della decadenza va coordinata con il principio della domanda, il quale non può essere fondato, per la prima volta in cassazione, su un fatto mai dedotto in precedenza, implicante un diverso tema di indagine e di decisione (Cass. n. 24226 del 2004; Cass. n. 646 del 2006).

Con il secondo motivo, l’Agenzia delle Entrate censura la sentenza impugnata sotto il profilo della violazione e falsa applicazione della L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 114, e D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2, 3, 85 27 e 36 e per vizio di motivazione, assumendo che ai sensi di tali disposizioni debbono considerarsi soggetti ad irap tutti i lavoratori autonomi esercenti arti e professioni, quale che sia il grado di intensità organizzativa impresso alla propria attività, rimanendone sottratti solo coloro che svolgono attività di collaborazione coordinata e continuativa. Il motivo è manifestamente infondato.

Questa Corte ha affermato il principio secondo cui, in tema di irap, l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, di attività di lavoro autonomo diversa dall’impresa commerciale costituisce, secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 156 del 2001, presupposto dell’imposta soltanto qualora si tratti di attività autonomamente organizzata. Il requisito dell’autonoma organizzazione,il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente che eserciti attività di lavoro autonomo: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che, secondo l’id quod plerumque ucciditi costituiscono nell’attualità il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui (Cass. 3678/07 ed altre).

La ratio decidendi della sentenza impugnata è conforme a tale principio e, pertanto, si sottrae ai vizi di violazione di legge denunziati. La censura di difetto di motivazione è sollevata in modo del tutto generico, senza indicazione di motivi specifici secondo cui l’accertamento in ordine alla mancanza del requisito di autonoma organizzazione e la valutazione degli elementi di fatto posti a base della decisione sarebbero carenti sotto il profilo motivazionale; nè il ricorrente deduce la presenza di elementi di prova che sarebbero stati trascurati dal giudice di merito e che, se considerati, avrebbero potuto portare ad un diverso decisum.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Nulla si dispone sulle spese di lite, non avendo l’intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2010

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