Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16767 del 06/08/2020

Cassazione civile sez. trib., 06/08/2020, (ud. 26/02/2020, dep. 06/08/2020), n.16767

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 29066/2013 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato.

– ricorrente –

contro

CALZATURIFICIO EN. MAR SRL IN LIQUIDAZIONE;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale

dell’Emilia-Romagna, sezione n. 4, n. 67/04/12, pronunciata il

27/07/2012, depositata il 31/10/2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 febbraio

2020 dal Consigliere Dott. Guida Riccardo.

 

Fatto

RILEVATO

che:

l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, con tre motivi, nei confronti del Calzaturificio En. Mar Srl, in liquidazione, rimasto intimato, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, indicata in epigrafe, che – in controversia concernente l’impugnazione dell’avviso di accertamento, in fini IRES, IRAP, IVA, per l’annualità 2004, con il quale, in applicazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, come modificato dalla L. n. 289 del 2002, art. 2, comma 8, erano stati recuperati a tassazione i costi per la produzione di calzature anti-infortunistiche, ritenuti indeducibili perchè connessi ad attività delittuose (art. 517, c.p.; della L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49), per l’apposizione sulle suole delle scarpe della dicitura “made in Italy”, nonostante che le tomaie fossero state prodotte all’estero (in India e in Romania) -, nel contraddittorio della società, ha confermato la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Ravenna, favorevole alla società contribuente;

la Commissione regionale, dato atto che ai sensi della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, sono indeducibili i costi connessi ad attività qualificabili come reato e che, nella specie, si era in presenza di una sentenza di non luogo a procedere per prescrizione del reato, disattendendo la prospettazione difensiva della società appellata, ha ritenuto che le calzature non fossero di origine italiana; tuttavia, valorizzando l’argomento della contribuente secondo cui, in base alla citata L. n. 537 del 1993, art. 14, sono assoggettabili ad imposizione soltanto i costi connessi ad attività illecita e (al contrario) sono deducibili quelli sostenuti dall’impresa per l’attività lecita, ha rilevato che, sotto il particolare profilo della distinzione tra le due categorie di costi, l’atto impositivo era “assolutamente carente”, il che giustificava il suo annullamento, in ragione del difetto assoluto di motivazione.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo del ricorso (“1) Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”), l’Agenzia censura la sentenza impugnata che, nell’annullare l’avviso per carenza assoluta di motivazione, ha pronunciato oltre il limite della domanda in quanto la contribuente non aveva impugnato l’avviso per difetto di motivazione in punto di indicazione dei costi e delle spese connessi alla produzione illecita, ma aveva contestato l’ipotesi delittuosa prospettata dagli accertatori, e, in subordine, aveva (erroneamente) sostenuto che nessun costo di produzione fosse connesso a una condotta penalmente rilevante, essendo quest’ultima circoscritta all’apposizione sulle suole delle scarpe del marchio di origine “made in Italy”;

2. con il secondo motivo (“2) Violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42 e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”), l’Agenzia assume che la CTR ha ritenuto sussistente il delitto di cui all’art. 517, c.p., (Vendita di prodotti industriali con segni mendaci), a causa dell’impossibilità di qualificare le calzature commercializzate dalla società contribuente quali prodotti di origine italiana e che, tuttavia, ha annullato l’atto impositivo, per carenza assoluta di motivazione, poichè, in esso, non erano distinti i costi – indeducibili – collegati all’attività illecita da quelli deducibili – sostenuti dall’impresa e, ancora, per la ravvisata indeducibilità del 100% dei costi di lavorazione e dei costi di ammortamento degli impianti e delle spese per il personali, che invece erano sicuramente collegati all’attività lecita del Calzaturificio;

al riguardo, l’ufficio ascrive alla CTR di non avere considerato che l’avviso non era privo di motivazione in quanto illustrava i presupposti di fatto e di diritto della pretesa impositiva (nel rispetto dei requisiti del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2), sicchè, semmai, anche rispetto alla prospettazione della Commissione regionale, la sua illegittimità avrebbe dovuto essere collegata alla violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, e non alla carenza di motivazione;

3. con il terzo motivo (“3) Insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio / omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”), l’Agenzia censura la sentenza impugnata, per un verso, per non avere preso in esame l’avviso di accertamento, il processo verbale di constatazione e gli allegati al pvc, da cui risultava che l’atto impositivo non era certo carente dal punto di vista della distinzione tra costi collegati all’attività illecita e costi collegati all’attività lecita; per altro verso, per avere trascurato che l’Amministrazione finanziaria non aveva recuperato a tassazione l’intero ammontare dei costi sostenuti dalla società,

ma solo quelli afferenti alle attività illecite, oltre ad una quota forfetaria (pari al 60%) dei costi generali, ossia comuni a più fatti o atti, in parte leciti e in parte illeciti;

4. il primo motivo è fondato, con conseguente assorbimento degli altri;

4.1. è noto che, secondo indirizzo incontrastato nella giurisprudenza di questa Corte, non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tuttavia da ritenersi tacitamente proposta per essere in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate, delle quali costituisca l’antecedente logico e giuridico (Cass. 23/05/2019, n. 13964; 12/03/2004, n. 5134; 05/02/2007, n. 2372);

4.2. nel caso in esame, dal passo della sentenza della CTP, riprodotto per autosufficienza nel ricorso per cassazione, si evince che l’avviso era stato annullato in quanto era stato escluso che, alla fattispecie, fosse applicabile la L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis (Interventi correttivi di finanza pubblica), nella formulazione vigente ratione temporis, secondo cui: “Nella determinazione dei redditi di cui al testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti.”;

non risulta che, nel ricorso introduttivo, la società avesse chiesto l’annullamento dell’avviso per difetto assoluto di motivazione e neppure che la contribuente avesse dedotto tale profilo giuridico nel giudizio di gravame, nel quale, con apposita memoria, l’appellata aveva argomentato sulla portata applicativa della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, come novellato dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, commi 1 e 3;

4.3. la CTR, quindi, è incorsa nel vizio di ultrapetizione per avere annullato l’avviso per mancanza assoluta di motivazione, ossia in forza di un vizio che non era stato fatto valere dalla contribuente e che nemmeno era in un rapporto di connessione logico-giuridica con le questioni prospettate dalla società;

5. ne consegue che, accolto il primo motivo e assorbiti il secondo e il terzo, la sentenza è cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

PQM

la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2020.

Depositato in cancelleria il 6 agosto 2020

 

 

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