Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16736 del 16/07/2010

Cassazione civile sez. trib., 16/07/2010, (ud. 16/06/2010, dep. 16/07/2010), n.16736

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 17871/2006 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

D.C.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 72/2005 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

SASSARI, depositata il 27/05/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

16/06/2010 dal Consigliere Dott. SALVATORE BOGNANNI;

udito per il ricorrente l’Avvocato GIACOBBE, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ABBRITTI Pietro, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La controversia concerne l’impugnazione di quattro avvisi di accertamento relativi all’IVA per gli anni 1992-95, con i quali l’Ufficio IVA di Nuoro, a seguito di una verifica effettuata dalla Guardia di finanza nei confronti di D.C. e sulla base del verbale redatto in tale occasione, accertava il reddito imponibile anche ai fini di tale imposta, irrogando le sanzioni previste per l’omessa presentazione della dichiarazione e per l’omessa tenuta delle scritture contabili.

La commissione adita accoglieva i ricorsi in parte, rideterminando le sanzioni in senso più favorevole al contribuente, e rigettava nel resto, trattandosi di attività prettamente commerciale, non rientrante negli scopi del “CSI Montresta”, di cui il contribuente era presidente, e che gestiva il bar-caffè per conto proprio, senza rendere conto a chicchessia; introitava i proventi sul proprio conto corrente, ed ometteva la prescritta contabilità. La decisione era riformata dalla commissione tributaria regionale, sez. stacc. di Sassari, la quale, con la sentenza in epigrafe, col rigetto dell’appello dell’ufficio, dichiarava persino infondato l’accertamento, annullando gli avvisi. Avverso tale pronuncia l’agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi. D. non si è costituito.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Col primo motivo l’amministrazione ricorrente deduce violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23, comma 1, art. 54, comma 1 e art. 324 c.p.c., con riferimento all’art. 360, n. 4 del citato codice, in quanto la CTR non considerava che il giudice di prime cure aveva rigettato i ricorsi introduttivi in buona sostanza, anche se aveva mal calcolato le sanzioni, e ciò in modo più favorevole all’appellato, nella misura di L. 29.899.000 a fronte di quelle pretese per l’importo di L. 41.332.000, e pertanto non poteva riformare la pronuncia di primo grado in modo più favorevole a questi in mancanza di suo appello incidentale, da cui peraltro era decaduto essendosi costituito oltre il previsto termine di giorni 60.

Quindi la sentenza ormai era passata in giudicato quanto al debito d’imposta ed accessori diversi dalle sanzioni, senza che il semplice atto di controdeduzioni potesse inficiarne le statuizioni “in parte qua” in difetto di specifica impugnazione.

Il motivo è fondato.

Invero soltanto la parte vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre appello incidentale per far valere le domande e le eccezioni non accolte e, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia ex art. 346 cod. proc. civ., può limitarsi a riproporle, mentre quella rimasta parzialmente soccombente in relazione ad una domanda od eccezione, di cui intende ottenere l’accoglimento, ha l’onere di proporre appello incidentale, pena il formarsi del giudicato sul rigetto della stessa.

Quindi in applicazione di tale principio, D. era tenuto a proporre appello incidentale in ordine alle sue richieste ed eccezioni non accolte, e non invece limitarsi a ribadirle con le controdeduzioni, con la conseguenza che ormai su di esse si era formato il giudicato interno, e pertanto il giudice di appello non poteva annullare gli atti impositivi (Cfr. anche Cass. Sez. U., Sentenza n. 12067 del 24/05/2007; sentenza n. 9400 del 06/05/2005).

2) Col secondo motivo, indicato in via subordinata, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma (4?)3, seconda parte, artt. 2727 e 2697 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, in quanto il giudice di merito abbia sostanzialmente fondato la propria decisione esclusivamente su astratte considerazioni di diritto relative al trattamento tributario degli enti non commerciali”, quale è un circolo ricreativo affiliato ad un’organizzazione a carattere nazionale (ACLI o CSI), senza tener “in nessuna considerazione gli elementi specifici della presente fattispecie, che riguardano la natura dell’attività invece effettivamente svolta proprio dal contribuente.

La censura è assorbita dalla prima.

Comunque – e ciò viene rilevato solo “ad abundantiam” – essa è fondata. Invero il giudice di appello radicava le conclusioni della sentenza impugnata sulla assiomatica attribuzione di “assenza di fini di lucro” da parte del circolo, per essere quest’ultimo una struttura asseritamente affiliata ad organizzazione di livello nazionale a carattere assistenziale o ricreativo; per avere ottenuto l’autorizzazione all’esercizio di quell’attività dal Comune senza la preventiva iscrizione presso la Camera di commercio, ed inoltre per le prestazioni effettuate nei confronti dei soci: sulla base di queste sole circostanze – astrattamente considerate – il giudice di merito giungeva ad affermare che “le prestazioni rese da associazioni assistenziali”, quale sarebbe quella cui il contribuente in causa faceva riferimento, “non possono considerarsi di natura commerciale”.

Il giudicante mostrava così di ritenere che la asserita “natura non commerciale dell’ente” implicherebbe necessariamente la “natura non commerciale dell’attività” svolta, senza che si debba accertare in concreto il tipo (e le modalità di svolgimento) dell’attività effettiva. Nè considerava che in realtà era solo D. che, servendosi di quelle circostanze apparenti, svolgeva attività prettamente commerciale, tanto che effettuava le prestazioni di vendita anche a persone estranee a quel sodalizio, ed a prezzi di listino uguali ad altro bar esistente in quel Comune, come accertato dai militi della finanza. Inoltre va rilevato che è ben possibile l’esercizio di attività commerciali da parte di “enti non commerciali” (ovviamente con l’applicazione a tali attività del regime fiscale cui le stesse sono comunemente soggette). Infatti, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, prevede al comma 4 (nella formulazione applicabile “ratione temporis”) che rispetto agli “enti non commerciali” (alle associazioni, in particolare) si considerano fatte nell’esercizio di attività commerciali “le prestazioni di servizi ai soci, associati o partecipanti verso pagamento di corrispettivi specifici, o di contributi supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto”, salvo che si tratti (ad es. per le associazioni assistenziali) di prestazioni “effettuate in conformità alle finalità istituzionali”. Ancor più, il comma successivo dello stesso articolo prevede che il “trasporto di persone” debba essere sempre considerato una attività commerciale.

A loro volta il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 108, comma 1, secondo periodo, e D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 111, comma 2, (T.U.I.R.) esclude (per i c.d. “enti non commerciali” e per quanto qui più interessa) che possano considerarsi “attività commerciali”, rispettivamente “le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 c.c., rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione” e le prestazioni di servizi agli associati o partecipanti effettuate senza che, rispetto ad esse, vi sia il “pagamento di corrispettivi specifici, compresi i contributi e le quote supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto”. Il sistema normativo appare con tutta evidenza privilegiare, ai fini della identificazione della disciplina fiscale applicabile, la necessità di una analisi concreta delle singole attività svolte dagli “enti non commerciali”, escludendo che la “natura non commerciale del soggetto” possa determinare per questo solo fatto, sempre e comunque, la “natura non commerciale della (specifica) attività”. Ed invero, questa Corte ha già avuto modo di affermare che “gli enti di tipo associativo non godono di uno status di “extrafiscalità”, che li esenta, per definizione, da ogni prelievo fiscale, potendo anche le associazioni senza fini di lucro – come si evince dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 111, comma 2 (T.U.I.R.), (nel testo applicabile nella specie, “ratione temporis”) – svolgere, di fatto, attività a carattere commerciale. Il disposto dell’art. 111, comma 1, del citato T.U.I.R. – in forza del quale le attività svolte dagli enti associativi a favore; degli associati non sono considerate commerciali e le quote associative non concorrono a formare il reddito complessivo – costituisce d’altro canto una deroga alla disciplina generale, fissata dagli artt. 86 e 87 del T.U. citato, secondo la quale l’IRPEG si applica a tutti i redditi, in denaro o in natura, posseduti da soggetti diversi dalle persone fisiche: con la conseguenza che l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano l’esenzione è a carico del soggetto che la invoca, secondo gli ordinari criteri stabiliti dall’art. 2697 c.c.” (Cass. n. 16032/2005).

Tanto più ciò è vero, se si consideri la irrilevanza (nel senso della non decisività), in linea di principio, della “finalità di lucro” per la qualificazione di una determinata attività come “attività commerciale” (cfr. ad es. Cass. nn. 7725/2004; 1367/2004).

Alla luce di tali considerazioni, non può non rilevarsi l’assoluta inesattezza della motivazione della sentenza impugnata, avendo il giudice di merito errato nel non considerare commerciale comunque la effettiva attività concretamente svolta nel bar del circolo, peraltro direttamente gestito dal contribuente, senza che questi avesse fornito la prova che quell’attività rientrasse nei fini dell’ente, ed assunta giustamente ad oggetto dell’atto impositivo contestato. Peraltro nessun riscontro era stato mai dato all’affermazione che avesse sostenuto delle spese sociali, per le quali nemmeno un verbale di assemblea era stato mai esibito.

3) Col terzo motivo la ricorrente lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 4 del codice di rito, posto che il giudice del gravame non pronunciava in ordine alla sproporzione prospettata circa l’entità delle sanzioni applicate rispetto alla gravità delle infrazioni, alla molteplicità e alla loro reiterazione per più annualità.

La doglianza va condivisa in parte.

La CTR rideterminava il trattamento sanzionatorio senza tenere conto dell’aumento, dovendo “partire” dall’applicazione di quello previsto nel minimo nella misura del 120% relativamente alla infrazione più grave (l’omessa dichiarazione) D.Lgs. n. 471 del 1997, ex art. 5, per poi operare quegli altri inerenti alle varie infrazioni e alle plurime annualità, in base invece al seguente principio. Infatti, ove la legge in vigore al momento dell’infrazione tributaria e quella successiva, prevedano sanzioni di diversa intensità, si rende applicabile quella più favorevole in base al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3, anche in riferimento alle fattispecie in cui si sia di fronte all’ipotesi di ripetute violazioni della medesima disciplina legislativa, come nella specie. Pertanto, posto che la normativa specifica dettata in tema di pluralità di violazioni delle disposizioni in tema di I.V.A. dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 48, è stata espressamente abrogata dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 16 – ai fini dell’individuazione della disciplina da applicarsi ad una pluralità di violazioni I.V.A. inerenti anche a distinti anni d’imposta, compiute fra il 1992 ed il 19 95 ed oggetto di un procedimento ancora in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. suindicato – al caso in esame si applica la normativa più favorevole rispetto alle disposizioni precedenti, mediante il cumulo giuridico previsto dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, non nella sua formulazione originaria, ma in quella poi superata a sua volta dalle modifiche ad essa apportate dal D.Lgs. 5 giugno 1998, n. 203, art. 2, comma 1, lett. e). Pertanto va rilevato come, rispetto alla disciplina di cui alla L. n. 4 del 1929, art. 8, il quale limitava le possibilità di cumulo giuridico alle sole ipotesi di pluralità di violazioni interessanti il medesimo anno d’imposta, sia da ritenersi in se più favorevole quella di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, la quale, nella sua formulazione originaria antecedente alla novella di cui al citato D.Lgs. n. 203, non prevedeva ancora nè la limitazione del suo ambito di applicabilità alle sole “violazioni formali”, nè una misura minima dell’aumento fissata, a seconda dei casi, nel quarto o nella metà della sanzione (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 15554 del 02/07/2009, n. 2609 del 08/03/2000).

Pertanto il ricorso deve essere accolto, e la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice “a quo”, altra sezione, per nuovo esame, il quale si uniformerà ai suindicati principi di diritto.

Quanto alle spese del processo, esse saranno regolate dal giudice del rinvio stesso.

P.Q.M.

LA CORTE Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, e rinvia, anche per le spese, alla commissione tributaria regionale della Sardegna, altra sezione, per nuovo esame.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2010

 

 

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