Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16718 del 05/08/2020

Cassazione civile sez. lav., 05/08/2020, (ud. 18/02/2020, dep. 05/08/2020), n.16718

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6004-2014 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati MAURO

RICCI, EMANUELA CAPANNOLO, CLEMENTINA PULLI;

– ricorrente –

contro

M.S., MA.SE., M.G. tutti

nella qualità di eredi di C.M., tutti domiciliati in ROMA

PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato ALDO LICCI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3846/2013 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 06/11/2013 R.G.N. 4769/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/02/2020 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ALESSANDRO CIMMINO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MANUELA MASSA per delega verbale Avvocato EMANUELA

CAPANNOLO;

udito l’Avvocato ALDO LICCI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso del 20 settembre 2006 C.M. (titolare di pensione diretta e di pensione di reversibilità cat. SO, decorrenti da data anteriore al 1983) espose che l’INPS le aveva negato sia l’integrazione al trattamento minimo sulla pensione diretta che il trattamento previsto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 81 del 1989, riguardante l’integrazione al trattamento minimo sulla pensione di reversibilità, benefici che invece le spettavano superando le due pensioni cumulate il minimo garantito dalla legge; pertanto, chiese al giudice del lavoro di Lecce di riconoscere il proprio diritto alle differenze pensionistiche ed alla determinazione della pensione di reversibilità nell’importo cristallizzato al 30.9.1983, con condanna dell’INPS al pagamento delle somme maturate nei dieci anni precedenti.

2. Il Tribunale accolse la domanda e la Corte d’appello, su impugnazione dell’INPS incentrata sulle eccezioni di decadenza triennale e di prescrizione dei crediti pretesi, confermò la sentenza di primo grado.

3. Ad avviso della Corte territoriale la genericità della eccezione di prescrizione non ne consentiva la disamina, mentre l’eccezione di decadenza era infondata in ragione del fatto che, nel caso di specie, operava la decadenza decennale in quanto il procedimento amministrativo si era concluso nel 2003, posteriormente all’entrata in vigore del D.L. n. 384 del 1992, art. 4 conv. in L. n. 438 del 1992, con proposizione del ricorso giurisdizionale in data 20 settembre 2006; pertanto, l’azione era stata promossa entro il decennio dall’esaurimento del procedimento amministrativo.

4. Avverso tale sentenza ricorre l’INPS sulla base di due motivi.

Gli eredi di C.M., deceduta nelle more del giudizio, resistono con controricorso illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso l’Inps denuncia violazione del D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47, come modificato dal D.L. n. 98 del 2011, art. 38 conv. in L. n. 111 del 2011, nonchè dell’art. 38, comma 4, del D.L. citato; in particolare, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto non applicabile la decadenza di cui al D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47, come modificato dal D.L. n. 98 del 2011, art. 38, comma 1, lett. d), conv. con modif. in L. n. 111 del 2011. Rileva che la nuova formulazione dell’art. 47 cit. è applicabile ai giudizi pendenti al 6/7/2011 in primo grado e che, nella specie, il giudizio era pendente a tale data in quanto era stato introdotto con ricorso del 20/9/2006 e definito in primo grado con sentenza del 31.1.2011/10.10.2011. Inoltre, la ricorrente percepiva le pensioni da molto più di tre anni prima della proposizione del ricorso giudiziario ed il termine di decadenza aveva iniziato a decorrere dal riconoscimento parziale della prestazione, ovvero dal pagamento della sorte capitale.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione del D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47-bis introdotto dal D.L. n. 98 del 2011, art. 38 conv. con modifiche in L. n. 111 del 2011, nonchè dell’art. 38, comma 4, del D.L. n. 98 conv. in L. n. 111 del 2011. Lamenta che la Corte d’appello ha applicato la prescrizione decennale senza tenere conto che in base all’art. 47-bis cit. il termine di prescrizione dei ratei di pensione e relative differenze è pari a cinque e non a dieci anni.

4. Il ricorso è infondato. Va qui ribadito il principio, già affermato da questa Corte (Cass. n. 16549/2016; Cass. n. 21319/2016; Cass. n. 4671/2019), secondo il quale “La decadenza di cui al D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47, come modificato dal D.L. n. 98 del 2011, art. 38, comma 1, lett. d), conv. con modif. in L. n. 111 del 2011, non si applica alle domande di riliquidazione di prestazioni pensionistiche, aventi ad oggetto l’adeguamento di prestazioni già riconosciute, ma in misura inferiore a quella dovuta, liquidate prima del 6 luglio 2011, data di entrata in vigore della nuova disciplina”.

5. Va, infatti, precisato, che oggetto del presente giudizio è la riliquidazione di trattamento pensionistico già riconosciuto dall’INPS in modo parziale. Tale fattispecie – prima della innovativa disciplina contenuta nel D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 38, comma 1, lett. d, convertito in L. 15 luglio 2011, n. 111 del 2011, che si occupa di estendere la disciplina della decadenza “alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito” – non poteva essere certamente soggetta ad alcuna decadenza ai sensi dell’art. 47 cit. in quanto rientrante nel regime di esclusione delineato, secondo ripetute indicazioni, da questa Corte (Cass. Sez. un. 18 luglio 1996 n. 6491; Sez. Un. 12720 e n. 12718 del 29.5.2009; Cass. n. 12516/2004).

6. Tali pronunce hanno affermato che la decadenza di cui all’art. 47 del D.P.R. 30 aprile 1970, n. 639 – come interpretato dal D.L. 29 marzo 1991, n. 103, art. 6, convertito, con modificazioni, nella L. 1 giugno 1991, n. 166 – non può trovare applicazione in tutti quei casi in cui la domanda giudiziale sia rivolta ad ottenere non già il riconoscimento del diritto alla prestazione previdenziale in sè considerata, ma solo l’adeguamento di detta prestazione già riconosciuta in un importo inferiore a quello dovuto, come avviene nei casi in cui l’istituto previdenziale sia incorso in errori di calcolo o in errate interpretazioni della normativa legale o abbia disconosciuto una componente, nei quali casi la pretesa non soggiace ad altro limite che non sia quello della ordinaria prescrizione decennale” (sentenza n. 12720 del 29/05/2009).

7. Si tratta di un indirizzo ancora applicabile rispetto alle prestazioni liquidate prima del 6.7.2011, data di entrata in vigore della nuova disciplina di cui al D.L. n. 98 del 2011, conv. in L. n. 111 del 2011, posto che con la sentenza n. 69/2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della nuova disciplina della decadenza introdotta nel 2011 per le liquidazioni parziali nella sua (limitata) portata retroattiva, in relazione ai “giudizi in corso in primo grado”. E ciò proprio perchè si tratta di disciplina diversa da quella precedentemente in vigore, per come delineata in base alla giurisprudenza delle Sezioni Unite. La Corte Cost. ricorda, infatti, che in sede di esegesi della precedente normativa “le sezioni unite della Corte di cassazione già con sentenza n. 6491 del 1996 avevano affermato – e con successiva pronunzia n. 12720 del 2009 hanno ribadito che la decadenza ivi prevista non può trovare applicazione in tutti quei casi in cui la domanda giudiziale sia rivolta ad ottenere non già il riconoscimento del diritto alla prestazione previdenziale in sè considerata, ma solo l’adeguamento di detta prestazione già riconosciuta in un importo inferiore a quello dovuto, come avviene nei casi in cui l’Istituto previdenziale sia incorso in errori di calcolo o in errate interpretazioni della normativa legale o ne abbia disconosciuto una componente, nei quali casi la pretesa non soggiace ad altro limite che non sia quello della ordinaria prescrizione decennale”.

7.Pertanto nel caso in esame, trattandosi di liquidazione parziale ovvero di prestazione riconosciuta solo in parte, la decadenza non poteva essere applicata, prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, neppure in relazione ai singoli ratei.

8. Analoghe considerazioni devono valere con riferimento all’eccezione di prescrizione di cui al secondo motivo del ricorso dell’Inps.

Per quel che qui rileva, il D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 38, comma 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, art. 1, comma 1, dichiarato incostituzionale da Corte Cost. n. 69 del 2014, alla lettera d) aveva aggiunto il citato art. 47-bis per cui la pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, riguarda necessariamente anche le disposizioni introdotte dall’art. 47-bis, che non potrà che avere applicazione per il periodo successivo al 6/7/2011, dovendosi al riguardo richiamare quanto si legge nella citata sentenza della Corte Costituzionale che sottolinea “il vulnus arrecato al principio dell’affidamento, nella parte in cui prevede che le disposizioni di cui al comma 1, lettera d), si applicano anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore del presente decreto”; è evidente che se il nuovo termine quinquennale di prescrizione per ratei non liquidati, in vigore dal 6 luglio 2011, si applica solo da tale data, essendo stato proposto il ricorso introduttivo in data 20 settembre 2006, non viene neanche in rilievo l’applicazione dell’art. 252 disp. att. c.c. valevole in ogni caso in cui cambia la prescrizione in corso di rapporto.

9. Anteriormente a tale nuova disciplina, come si è detto inapplicabile al caso di specie, la soluzione della questione del termine di prescrizione dei crediti per prestazioni non corrisposte integralmente, ha formato oggetto di numerose pronunce di questa Corte di cassazione che ha avuto modo di elaborare il principio di diritto secondo il quale in tali casi l’applicabilità dell’art. 2948 c.c. è preclusa in quanto, pur trattandosi di erogazioni periodiche mensili, non sussiste il presupposto implicito della liquidità ed esigibilità del medesimo credito preteso; l’art. 2948 c.c., si è detto, presuppone la liquidità ed esigibilità del credito, perchè solo in tal caso il credito stesso si può considerare pagabile periodicamente e non è sufficiente, a questo fine, che tale sia soltanto in astratto, in base cioè alla disciplina legale applicabile nei momento in cui esso è sorto (Cass. 21 maggio 1990 n. 6245, Cass. n 12472 del 1993, cit., Cass. n 7393 del 1994; Cass. n. 4534 del 1995; Cass. 2563 del 2016).

10. Si è affermato che alle componenti essenziali di ratei di prestazioni previdenziali o assistenziali non liquidate si applica la prescrizione ordinaria decennale e non la prescrizione quinquennale, che presuppone la liquidità del credito, da intendere, non secondo la nozione comune, ma secondo il disposto del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 129, secondo cui si prescrivono in cinque anni a favore dell’istituto le rate di pensione “non riscosse”; ne consegue che il diritto di credito relativo a qualsiasi somma (ivi compresa quella per rivalutazione ed interessi, costituente parte integrante del credito base) che non sia stata posta in riscossione si prescrive nel termine di dieci anni, trattandosi di credito non liquido ai sensi e per gli effetti del citato art. 129 (Cass. n. 10955 del 2002 ed anche Cass. n. 4353 del 2009, n. 16023 del 2004, n. 17771 del 2003, n. 7030 del 2003, n. 17126 del 2002).

11. Il ricorso va, dunque, rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.500,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15% e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2020

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