Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16711 del 05/08/2020

Cassazione civile sez. lav., 05/08/2020, (ud. 16/01/2020, dep. 05/08/2020), n.16711

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17888-2015 proposto da:

L.L., P.S., T.L., S.A.,

R.F., G.G., tutti elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA E. TAZZOLI 2, presso lo studio dell’avvocato LAURA NISSOLINO,

che li rappresenta difende unitamente all’avvocato MATTEO MANGOLINI;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERO UNIVERSITARIA DI (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

M. PRESTINARI 13, presso lo studio degli avvocati PAOLA RAMADORI,

MARCO RAMADORI, rappresentata e difesa dall’avvocato MANUELA

GIOVANNA UBERTI;

– controricorrente –

avverso sentenza n. 1578/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 15/01/2015 R.G.N. 724/2011.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1.

la Corte d’Appello di Bologna ha respinto il gravame proposto dai sei ricorrenti per cassazione indicati in epigrafe, avverso la sentenza del Tribunale di Ferrara che a propria volta aveva disatteso la domanda con i quali i predetti, medici dirigenti presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di (OMISSIS), avevano chiesto il pagamento delle ore di lavoro straordinario svolte da ciascuno di essi dal gennaio 2004 al giugno 2008 o, in subordine, il risarcimento del danno;

la Corte distrettuale, quanto alla domanda di pagamento a titolo retributivo richiamava la giurisprudenza di legittimità che, sia per i dirigenti medici apicali, sia per quelli non apicali, aveva escluso il diritto al pagamento del lavoro straordinario, in quanto assorbito dalle previsioni della contrattazione collettiva che attribuivano una retribuzione di risultato compensativa anche dell’eventuale superamento dell’orario lavorativo;

quanto alla domanda di risarcimento la Corte felsinea escludeva che il danno potesse essere ritenuto in re ipsa, mentre, nel caso di specie, al di là dei tabulati da cui sarebbe risultata la prova delle ore lavorate in eccesso, non risultava allegato alcun elemento ulteriore da cui desumere l’effettivo verificarsi di un pregiudizio quale conseguenza della condotta datoriale, nè poteva essere ritenuta sufficiente la valutazione in termini assoluti del numero di ore prestate;

2.

i predetti medici hanno proposto ricorso per cassazione con cinque motivi, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso dell’Azienda Ospedaliera.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.

con il primo motivo i ricorrenti affermano la violazione ed errata applicazione delle norme di diritto e del CCNL in relazione alle finalità di tutela dei lavoratori perseguita dal legislatore eurounitario (D.Lgs. n. 66 del 2003 e direttive 93/104/CE, 2000/34/Ce nonchè L. n. 161 del 2014), anche in relazione agli artt. 32 e 36 Cost. (art. 360 c.p.c., n. 3);

in particolare, i ricorrenti, premessa la ricostruzione delle esigenze di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori cui è indirizzata la normativa interna ed eurounitaria citata, sottolineano come nel caso di specie il lavoro straordinario, in spregio a tali esigenze, sia stato strumentalmente utilizzato per coprire le carenze organizzative della struttura ospedaliera, al punto di divenire, il ricorso ad esso, una ordinaria modalità di organizzazione del lavoro;

da altro punto di vista i ricorrenti rimarcano come nei loro confronti non possano trovare applicazione le deroghe previste, anche a livello Europeo, per il lavoro dei dirigenti, non potendo essi essere qualificati come tali, stanti i vincoli di osservanza delle disposizioni di servizio cui incontestatamente erano sottoposti; infine, il motivo di ricorso segnala come le ore di lavoro svolte dai ricorrenti fossero tante e tali da imporre di ritenere che fossero stati superati i limiti di ragionevolezza cui la normativa faceva riferimento, in contrasto altresì con le primarie esigenze di tutela della personalità e della socialità di cui agli artt. 2,3 e 32 Cost., sicchè il costante superamento dell’orario di lavoro, fino al suo raddoppio senza previsione di riposi compensativi era da ritenere in re ipsa prova del rischio di compromissione del diritto alla salute dei lavoratori;

il secondo motivo denuncia ancora la violazione del D.Lgs. n. 66 del 2003 e delle direttive da esso attuate, nonchè del CCNL, della Circolare del Ministero del lavoro n. 8/2005 e della L. n. 161 del 2014 (art. 360 c.p.c., n. 3) sul presupposto che le deroghe alla durata massima rispetto all’orario di lavoro per la dirigenza farebbero riferimento solo a situazioni particolari, da individuarsi secondo quanto stabilito dalla citata Circolare i cui presupposti (previsioni contrattuali in tal senso; decreto ministeriale di disciplina) non si erano mai verificati, il tutto in un contesto in cui, stante l’avvenuta abrogazione, ad opera della L. n. 161 del 2014, del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 17, comma 6-bis, il personale sanitario, rispetto al diritto ai riposi, era stato ormai del tutto equiparato agli altri lavoratori;

il terzo motivo di ricorso assume la violazione e falsa applicazione dell’artt. 2697 c.c. e art. 420-bis ss. c.p.c. sull’esercizio dei poteri officiosi del giudice in relazione all’art. 134 c.p.c. e art. 111 Cost. sul “giusto processo”, con riferimento all’ingiusto disconoscimento del risarcimento del danno per superamento dei limiti di “ragionevolezza” del lavoro svolto, sottolineandosi come i tabulati in atti fornissero la prova dei carichi di lavoro e delle ore, per il calcolo delle quali era stata in ipotesi richiesta la nomina di c.t.u., senza contare il possibile esercizio dei poteri istruttori giudiziali;

il quarto motivo denuncia l’omesso esame di un fatto controverso (art. 360 c.p.c., n. 5) consistente nella mancata valutazione di tutti i mezzi di prova direttamente forniti dai ricorrenti, oltre che della mancata contestazione degli elementi in fatto dedotti con il ricorso introduttivo, da cui era derivato l’erroneo disconoscimento del diritto dei ricorrenti al risarcimento del danno;

il quinto motivo infine afferma la nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4) per insufficiente e contraddittoria motivazione rispetto agli elementi di prova forniti ed offerti, di cui la Corte d’Appello non avrebbe indebitamente tenuto conto;

2.

il primo e secondo motivo riguardano in via diretta la affermata violazione delle norme di disciplina, sul piano retributivo o risarcitorio, dei diritti consequenziali allo svolgimento della prestazione resa nelle misure orarie allegate ed in sè non disconosciute dalla Corte territoriale;

2.1.

la risposta alle censure sollevate dai ricorrenti, anche in relazione alla normativa Europea di riferimento, non può che prendere le mosse da alcuni dati di fondo; il tema dello straordinario coinvolge in effetti due diverse questioni, consistenti, la prima, nell’aspetto retributivo delle ore svolte in eccedenza rispetto ad un dato orario normale e, l’altra, concernente la liceità in sè dello svolgimento di ore in eccedenza rispetto a tale orario;

la Direttiva 2000/34/CE (come anche il D.Lgs. n. 66 del 2003 che di essa costituisce attuazione) disciplina (eccezion fatta per l’ipotesi peculiare delle ferie annuali che l’art. 7, par. 1 della Direttiva e il D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 10 stabiliscono siano “retribuite”, peraltro senza nulla poi ovviamente regolare rispetto al quantum di tale retribuzione) taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro al fine di assicurare la fissazione di “prescrizioni minime di sicurezza e sanitarie in materia di organizzazione dell’orario di lavoro” (punto 1 del preambolo), sul presupposto che “il miglioramento della sicurezza, dell’igiene e della salute dei lavoratori durante il lavoro rappresenta un obiettivo che non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico” (punto 4), nella prospettiva di un “principio generale dell’adeguamento del lavoro all’essere umano” (punto 11);

in linea di principio la Direttiva non si applica dunque alla retribuzione dei lavoratori, se non per quanto riguarda il diritto alle ferie (v. Corte di giustizia UE, 20 novembre 2018, Sindicatul Familia Constanta, punto 35; Corte di Giustizia 26 luglio 2017, Halva, punto 25; Corte di Giustizia 21 febbraio 2018, Matzak, punto 24) e le regole da essa dettate sono invece da intendere, in via primaria, come norme di prevenzione, destinate a definire l’ambito di liceità, sotto il profilo del tempo e dell’orario, del ricorso alla prestazione lavorativa;

il piano retributivo è invece disciplinato, nel diritto interno, da altre fonti e, per quanto interessa l’ambito dell’impiego pubblico privatizzato, dalla contrattazione collettiva;

pertanto, una pregiudiziale Eurounitaria non può porsi rispetto ai diritti retributivi relativi allo straordinario, di cui alla domanda principale dei ricorrenti;

3.

rispetto al piano retributivo, come evidenziato nella stessa sentenza impugnata, già le Sezioni Unite di questa Corte, chiamate ad interpretare la disposizione che qui viene in rilievo, hanno evidenziato che “l’art. 65 del c.c.n.l. 5 dicembre 1996, area dirigenza medica e veterinaria, nel prevedere la corresponsione di una retribuzione di risultato compensativa anche dell’eventuale superamento dell’orario lavorativo per il raggiungimento dell’obiettivo assegnato, esclude in generale il diritto del dirigente, incaricato della direzione di struttura, ad essere compensato per lavoro straordinario, senza che, dunque, sia possibile la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario, poichè la complessiva prestazione del dirigente deve essere svolta al fine di conseguire gli obiettivi propri ed immancabili dell’incarico affidatogli” (v. Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9146);

il principio è stato, poi, ribadito in successive decisioni con le quali si è precisato che lo stesso si applica anche al personale dirigente in posizione non apicale “rispondendo ad esigenze comuni all’intera dirigenza e ad una lettura sistematica delle norme contrattuali, che, ove hanno inteso riconoscere una compensazione delle ore straordinarie per i medici-dirigenti, lo hanno specificamente previsto” (v. Cass. 4 giugno 2012, n. 8958; Cass. 16 ottobre 2015, n. 21010), come per le guardie mediche, i servizi di disponibilità etc. (v. ora anche Cass. 10 dicembre 2019, n. 32264);

3.1.

in più recenti pronunce è stato precisato che le parti collettive, nel disciplinare il “trattamento accessorio legato alle condizioni di lavoro”, hanno previsto, all’art. 62 del CCNL 1996 Area della dirigenza medica e veterinaria, la costituzione di un fondo “finalizzato alla remunerazione di compiti che comportano oneri, rischi o disagi particolarmente rilevanti, collegati alla natura dei servizi che richiedono interventi di urgenza o per fronteggiare particolari situazioni di lavoro” (comma 2) ed al comma 3 hanno stabilito che “per quanto attiene i compensi per lavoro straordinario e le indennità per servizio notturno e festivo si applicano le disposizioni di cui al D.P.R. n. 384 del 1990, artt. 80 e 115”, sottolineandosi quindi che, il predetto art. 80 prevede che il predetto straordinario debba avere carattere eccezionale e rispondere ad effettive esigenze di servizio, oltre essere preventivamente autorizzato (Cass. 22 marzo 2017, n. 7348);

attraverso un progressivo affinamento dei primi precedenti di legittimità, a partire da Cass. 7348/2017 cit. (poi ripresa da Cass. 28787/2017 e quindi, tra le molte, da Cass. 8 novembre 2019, n. 28942) si è rimarcata dunque la diversità fra il sistema di incentivazione basato sul criterio del “plus orario” e quello legato al conseguimento degli obiettivi;

interpretando le clausole contrattuali sopra richiamate le une per mezzo delle altre si perviene infatti alla conclusione che le parti collettive, anche al fine di armonizzare la disciplina della dirigenza medica con i principi che regolano nel settore pubblico il rapporto dirigenziale, fra i quali assume particolare rilievo quello della onnicomprensività del trattamento economico, hanno reso del tutto residuale la possibilità del compenso del lavoro straordinario (così, sempre Cass. 7348/2017 cit.);

lavoro straordinario che resta dunque limitato a specifiche prestazioni aggiuntive (guardie mediche, pronta disponibilità etc. di cui si è detto), anche destinate a sopperire a situazioni di urgenza o particolari, ma in tal caso (ancora Cass. 7348/2017 cit.) sulla base della previa autorizzazione dell’ente datore di lavoro (al fine di assicurare coerenza con l’interesse pubblico e le previsioni di bilancio), la cui mancanza non consente di riconoscere altrimenti alcun diritto retributivo a tale titolo (Cass. 31 gennaio 2017, n. 2509);

successivamente si è rilevato che anche gli artt. 14 e 60 del c.c.n.l. del 3.11.2005 Area della dirigenza medica e veterinaria, confermano nella sostanza la pregressa disciplina collettiva (Cass. 30 novembre 2017 n. 28787), basata dunque, da un lato, sulla retribuzione di risultato e sui fondi ad essa destinati, destinata alla copertura anche degli “obiettivi prestazionali eccedenti l’orario dovuto” (art. 14, comma 1, c.c.n.l. cit.) e su un sistema di prestazioni aggiuntive (guardie mediche, pronta disponibilità, attività autorizzate perchè non precedentemente programmabili etc.) remunerate a parte;

in definitiva, la mera eccedentarietà oraria non comporta di per sè un trattamento economico aggiuntivo, trovando la propria collocazione nell’ambito del raggiungimento degli obiettivi di budget e nella determinazione delle quote della retribuzione di risultato (così, sempre Cass. 7348/2017 cit.), potendo altrimenti essere remunerate le predette prestazioni aggiuntive, qualora disposte o autorizzate;

3.2.

si ricorda, del resto, che, come affermato dalla Corte Costituzionale (v. sentenza n. 470 del 2002 e sentenza n. 141 del 1979), l’art. 36 Cost., “nel proclamare il diritto del lavoratore a una retribuzione proporzionata al suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, non può essere riferito alle singole fonti della retribuzione del lavoratore, ma alla sua globalità”;

ne consegue, secondo quanto affermato sempre dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 164 del 1994 – che “il silenzio dell’art. 36 Cost., sulla struttura della retribuzione e sull’articolazione delle voci che la compongono significa che è rimessa insindacabilmente alla contrattazione collettiva la determinazione degli elementi che concorrono a formare, condizionandosi a vicenda, il trattamento economico complessivo dei lavoratori, del quale il giudice potrà poi essere chiamato a verificare la corrispondenza ai minimi garantiti dalla norma costituzionale”;

nè la norma che qui viene in rilievo si pone in contrasto con l’art. 4, comma 1, della Carta Sociale Europea del 3 maggio 1996 (ratificata e resa esecutiva con L. 9 febbraio 1999, n. 30), secondo cui le parti si impegnano a riconoscere il diritto dei lavoratori ad un tasso retribuivo maggiorato per le ore di lavoro straordinario ad eccezione di alcuni casi particolari, in quanto è chiaro che la situazione in esame rientra nell’ambito di tali casi particolari, atteso che è proprio l’intera disciplina della retribuzione ad essere ispirata a criteri, in sè non irragionevoli e differenziati da quelli di un mero computo orario; come già accennato, neppure si ravvisano i presupposti per la sottoposizione di questioni interpretative pregiudiziali alla Corte di giustizia, non essendo ciò necessario quando esse non siano rilevanti (già si è detto che la Direttiva non si occupa in sè dei diritti retributivi dello straordinario ora in esame) e dunque risulti inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (tra le altre: Cass., S.U., 10 settembre 2013, n. 20701; Cass., S.U., 24 maggio 2007, n. 12067; Cass. 7 giugno 2018, n. 14828);

3.3.

i motivi, per quanto attiene al riconoscimento di differenze retributive sulla base della misura delle prestazioni orarie vanno dunque disattesi;

4.

diverso è il piano della liceità della misura oraria del ricorso al lavoro del singolo lavoratore interessato, quale espressa dalla Direttiva 2000/34/CE, come anche dal D.Lgs. n. 66 del 2003, che di essa costituisce attuazione, oltre a contenere ulteriori disposizioni integrative;

tale aspetto è coinvolto dalla domanda subordinata, in cui i medici ricorrenti lamentano lo svolgimento di “innumerevoli ore di straordinario non pagato a cui non sono seguiti riposi compensativi”;

la portata della citata normativa generale è quella propria di una disciplina prevenzionistica, la cui violazione non opera sul versante del corrispettivo dovuto (v. anche supra, punto 2.1 e le sentenze delle Corte di Giustizia ivi richiamate), quanto semmai sul piano sanzionatorio, latamente inteso;

4.1.

il tema degli orari di lavoro della dirigenza medica è peraltro assai articolato, sussistendo figure, come il dirigente di struttura complessa, per le quali la contrattazione non prevede orari esatti di lavoro ed altre, come quelle degli altri dirigenti medici, rispetto alle quali un orario (38 ore settimanali) è stato mantenuto già dalla contrattazione collettiva meno recente (v. art. 16 c.c.n.l. 8 giugno 2000 area dirigenza medica e veterinaria);

anche rispetto a queste ultime figure la qualifica della posizione come dirigenziale ha talora fatto ritenere inapplicabili, ai sensi del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 17, comma 5, e art. 17, comma 1, lett. a Direttiva cit., le limitazioni orarie di cui al D.Lgs. n. 66/2003 ed in tal senso parrebbero alcuni passaggi di Cass. 8958/2012 cit.;

sono tuttavia intervenuti, successivamente, altri sviluppi normativi (tra cui il D.L. n. 112 del 2008, art. 41, comma 13, qui fuori gioco ratione temporis, poi abrogato, in una con l’abrogazione del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 17, comma 6-bis, di esclusione dei ruoli sanitari dai limiti alla prestazione giornaliera) ed ordinamentali (v. la procedura d’infrazione promossa dalla Commissione a carico della Repubblica italiana nel 2013, poi chiusa nel 2014, in esito alle modifiche normative sopra dette, apportate dalla L. n. 161 del 2014, art. 41 proprio al fine di adeguamento del diritto interno alla Direttiva), la cui linea appare nel senso di riconoscere la soggezione del lavoro medico pubblico, quando impostato su basi orarie (come è per i medici non preposti a strutture complesse) alle regole della Direttiva e del D.Lgs. n. 66 del 2003;

peraltro, quale che sia la ricostruzione in dettaglio e ratione temporis della disciplina delle diverse cadenze temporali del lavoro straordinario dei medici (giornaliero, settimanale, periodale, annuale), l’esistenza, nella contrattazione collettiva, di una regolazione di esso, come indubbiamente è per i dirigenti medici non preposti a struttura complessa (quale deriva ad es. dall’affiancarsi della previsione di negoziati per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti l’orario, di cui all’art. 16, comma 1, c.c.n.l. 8.6.2000 o art. 16, comma 1, del successivo c.c.n.l., oltre alla disciplina collettiva su guardie mediche e pronta disponibilità, regolati come straordinario ed oltre altresì agli eventuali straordinari autorizzati non programmabili) esclude (per quanto qui interessa e tenuto conto che la domanda quale riportata nel ricorso per cassazione è formulata solo sulla base del numero complessivo delle ore lavorate nei circa quattro anni e mezzo di riferimento) l’applicazione tout court D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 5, comma 3, che individua il limite massimo delle 250 ore annue solo in mancanza di tale contrattazione;

la disciplina collettiva del lavoro eccedente l’orario di base, pur non contenendo un limite espresso annuo, non appare infatti compatibile, per il suo carattere composito, modulato in parte per obiettivi (naturalmente meno rigidi nella dinamica temporale) e in parte sulla base di prestazioni aggiuntive, rispetto ad una previsione legale di fondo – quella dell’art. 5, comma 3 cit. – destinata ad operare, anche per la sua formulazione, soltanto in casi in cui il fenomeno risulti più ampiamente deregolato in ambito intersindacale;

4.2.

il fatto che i limiti massimi previsti per le varie scansioni periodali dalla Direttiva e dal D.Lgs. n. 66 del 2003 non trovino applicazione in tutto (v. i dirigenti delle strutture complesse, privi di previsioni orarie nei c.c.n.l.) o in parte (v. ad es. il citato D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 5, comma 3), non significa tuttavia che le prestazioni possano, nei diversi ambiti temporali in cui esse possono articolarsi, trasmodare indefinitamente;

è infatti comunque necessaria l’osservanza dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori (v. anche art. 17, par. 1 della Direttiva; D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 17, comma 5, oltre ai già citati “considerando” della Direttiva), sicchè non è lecita la richiesta o l’accettazione sistematica di prestazioni in condizioni irragionevoli, in quanto esorbitanti, ovverosia svolte in contesti tali da sacrificare, per la misura del lavoro (valutata su base giornaliera o su più ampi periodi) ed eventualmente anche l’inadeguatezza del contesto organizzativo e dei mezzi predisposti, non solo l'”integrità fisica”, ma anche la “personalità morale” del lavoratore, secondo dati testuali inequivocabili desumibili dall’art. 2087 c.c., attraverso cui si esprime, nel quadro costituzionale, la necessaria garanzia del diritto alla salute (v. Corte Costituzionale 7 maggio 1975, n. 101), come anche il diritto all’esecuzione della prestazione in condizioni rispettose della dignità del lavoro (art. 35 e 2 Cost.);

4.3.

in sostanza, il regime dell’orario di lavoro e quello ad esso complementare dei riposi sono tali per cui la pretermissione di riposi dovuti o la sistematica richiesta di lavoro straordinario oltre i limiti (giornalieri, settimanali, di periodo ed infine annuali) stabiliti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, come anche, quando tali massimi non siano espressamente previsti, l’attuazione della prestazione oltre i limiti generali di ragionevolezza di cui si è detto è fonte di responsabilità datoriale;

questa Corte ha in proposito ritenuto l’esistenza di un danno non patrimoniale in re ipsa, allorquando si agisca per il riconoscimento di responsabilità da carattere usurante della prestazione quale effetto di per sè solo del superamento delle specifiche regole di legge o contrattazione sui riposi (Cass. 15 luglio 2019, n. 18884; Cass. 1 dicembre 2016, n. 24563; Cass. 14 luglio 2015, n. 14710) od alla sistematica violazione dei massimi previsti per lo straordinario (Cass. 10 maggio 2019, n. 12538) applicabili al caso interessato;

il ragionamento è stato essenzialmente sviluppato sulla base della copertura costituzionale che l’art. 36 Cost. fornisce alla durata del lavoro giornaliero e settimanale, ma è chiaro che analogo ragionamento non può non valere per gli ulteriori limiti massimi desumibili dal D.Lgs. n. 66/2003 o dalla relativa direttiva eurounitaria, in sè o per quanto previsto dalla contrattazione collettiva cui essi facciano rinvio;

il predetto superamento dei limiti di orario consente poi, ove si dimostri il relativo nesso causale, anche il risarcimento di danni ulteriori, come quello alla salute (Cass. 24563/2016, cit., ma anche già Cass. 20 agosto 2004, n. 16398, fino a Cass. 4 marzo 2000, n. 2455);

peraltro, l’autonomia del danno alla salute rispetto al danno da carattere “gravoso e usurante” della prestazione (danno che già Cass. 2455/2000, cit. indicava come relativo ai “disagi” fisiopsichici, così distinguendoli dalle vere proprie infermità, temporanee o permanenti) rende evidente come quest’ultimo diritto attenga piuttosto alla dignità della prestazione lavorativa, quale espressione particolare, nell’ambito della produttività nel lavoro per altri, della dignità della persona;

questa Corte in tempi più risalenti ha già del resto più volte affermato, seppure in un contesto di ristoro retributivo ma sempre rispetto al lavoro dirigenziale, che per il ricorrere di un carattere “gravoso e usurante della prestazione non è necessario che essa debba portare alla rovina fisico-psichica del lavoratore” (Cass. 13882/2004 cit., ma anche già Cass. 12 gennaio 1987 n. 117);

può però accadere, come si è detto, che la normativa, di legge o contrattuale, non si applichi o non regoli espressamente, per una o più scansioni temporali, limiti massimi per l’orario di lavoro;

ciò tuttavia non esclude la risarcibilità del danno, allorquando le condizioni della prestazione, pur in assenza di quelle regole specifiche, si manifestino in concreto come parimenti in contrasto rispetto al diritto alla dignità del lavoro di cui si è detto;

4.4.

le diverse situazioni sopra delineate, a seconda che si agisca sul presupposto della sistematica violazione di limiti massimi esplicitamente previsti per la prestazione lavorativa o, in assenza di tali previsioni esplicite, delineando un quadro di intollerabilità delle condizioni e della misura del lavoro, impongono tuttavia corrispondenti specifiche allegazioni di chi agisca per l’attuazione delle conseguenti responsabilità risarcitorie;

pertanto, nell’agire al fine di perseguire il superamento dei limiti orari prefissati o per la violazione del diritto al riposo, è necessaria l’allegazione non solo del lavoro svolto, ma anche della dimensione temporale che si assume violata; mentre nell’agire, in mancanza di quelle regole prefissate, è senza dubbio il lavoratore, secondo il paradigma dell’art. 2087 c.c., a dover puntualmente allegare e dimostrare che, per la misura del lavoro, eventualmente in associazione ad altri aspetti (quali la prestazione del servizio senza fruire di tutto quanto – in termini di mezzi, nonchè di collaborazioni o sostituzioni – sia necessario sotto il profilo della funzionalità o della sicurezza), si determinino quelle condizioni di irragionevolezza che fanno ravvisare una violazione al diritto inviolabile alla dignità della prestazione lavorativa e dunque alla “personalità morale” del lavoratore;

4.5.

nè è a dirsi che, in tal modo, si renda sfornita di presidi dissuasivi la disciplina Eurounitaria;

infatti, la possibilità di ravvisare un danno in re ipsa è senza dubbio misura sanzionatoria adeguata nei casi in cui si applichino i limiti del D.Lgs. n. 66 del 2003 e della Direttiva di riferimento o della normativa collettiva cui essi rinviino;

ma anche negli altri casi, rispetto ad eventi concretamente dannosi, ricorre la predetta responsabilità risarcitoria, in capo agli enti o chi agisca per il datore di lavoro e, quando ad essere coinvolto sia il diritto alla salute tutelato da quelle norme, anche penale, così come è per ogni vicenda lavorativa che dia luogo a lesioni come conseguenza di infrazione a norme prevenzionistiche, specifiche o generiche;

l’ordinamento interno non è dunque in sè privo, quanto a rimedi, di efficacia dissuasiva, pur nella varia modulazione dei relativi regimi;

non vi è pertanto alcuna necessità, anche da questo punto di vista ed a parte anche quanto sarà detto al punto 5, di rimettere alla Corte di giustizia alcuna questione di interpretazione;

5.

il ricorso per cassazione, nel caso di specie, non indica una specifica violazione di regole sui massimi orari e l’unico dato concreto in esso contenuto è quello, desumibile dalle pagine da 3 a 5, del numero complessivo di ore negli anni considerati, mentre la domanda e poi anche il ricorso per cassazione ad essa relativo dovevano essere articolati, rispetto a limiti legali o contrattuali cogenti, adducendone in specifico la violazione in ragione delle relative scansioni temporali o, rispetto al superamento dei limiti di ragionevolezza, attraverso una circostanziata contestualizzazione dell’accaduto (sostanzialmente in termini, rispetto a vicenda analoga alla presente, v. Cass. 28 marzo 2017, n. 7921);

in proposito il terzo e quarto motivo, anch’essi relativi alla domanda risarcitoria, nulla apportano di più specifico;

in particolare, il terzo motivo ipotizza, rispetto alla domanda di danni, l’erronea sottovalutazione dei tabulati o la possibilità di svolgere ulteriore istruttoria;

la censura è tuttavia generica;

essa non contiene la precisazione di quali specifiche violazioni di precisi limiti della prestazione straordinaria dovrebbero desumersi dai tabulati inerenti le ore 12 di lavoro svolte, limitandosi ad un generico richiamo a “Linee di intesa” sull’impegno di servizio o ad un non meglio precisato “Regolamento dell’orario di lavoro dell’Area della dirigenza medica (anno 2002)” ed al rinvio ad una “legenda”, posta in calce ai predetti tabulati, da cui si sarebbero potute “individuare… le ore di lavoro svolte ed il tipo di attività prestata dai singoli ricorrenti”, senza che nel motivo di ricorso siano neppure indicate quale contenuto esatto avessero le previsioni di quelle “Linee di intesa” o del Regolamento interno che sarebbero state violate, nè quale rilievo rivestisse o quale fosse in specifico il “tipo di attività” menzionata;

neppure il richiamo ai “tabulati” con i “carichi di lavoro dei singoli ricorrenti e dei loro reparti” è meglio specificato nel concreto contenuto e rilevanza degli elementi documentali così addotti;

la formulazione si pone dunque in contrasto con i presupposti di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 4 e 6 della stessa disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e l’argomentazione siano idonee, riportando anche la trascrizione esplicita dei passaggi degli atti e documenti su cui le censure si fondano, a manifestare pregnanza, pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di ricercare autonomamente in tali atti e documenti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti (v. ora, sul punto, Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34469);

così come generica, esplorativa ed in contrasto con gli oneri di allegazione che si impongono a chi agisce in giudizio è la censura in ordine alla mancata nomina di c.t.u. finalizzata a verificare le ore di lavoro svolte o a dare corso ad altre imprecisate iniziative officiose;

ancora più generico è poi il quarto motivo, facendo esso riferimento alla mancata valutazione di “tutti” i mezzi di prova forniti o dedotti o alla mancata contestazione, non meglio specificata, degli elementi in fatto dedotti nel ricorso introduttivo;

6.

la sentenza della Corte territoriale non si pone del resto in contrasto con i principi sopra affermati, allorquando essa nega che la sola – così essa afferma “valutazione in termini assoluti del numero di ore di prestate” possa “essere sufficiente ad integrare la prova di un effettivo danno”, proprio perchè, mancando la puntuale denuncia della sistematica violazione di singole previsioni di legge o contrattazione collettiva sui limiti massimi dello straordinario, è corretto affermare che la responsabilità datoriale non possa dirsi automatica, mentre, rispetto a pregiudizi eventualmente scaturenti dall’irragionevole misura in cui fosse stata richiesta la prestazione di lavoro, il rilievo – sempre tratto dalla sentenza di appello – secondo cui “non risulta allegato alcun elemento ulteriore dal quale possa argomentarsi che essi (i lavoratori, n.d.r.) hanno effettivamente subito un danno in conseguenza della condotta del datore di lavoro” non resta scalfito, anche per la già menzionata genericità dei motivi di ricorso (supra, punto 5) dalla dispiegata impugnazione;

7.

va infine disatteso anche il quinto motivo, in cui si assume, senza apparentemente distinguere tra pretesa retributiva e domanda risarcitoria, la nullità della sentenza per violazione degli obblighi motivazionali di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4;

infatti, “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione”, sicchè rileva soltanto ciò che incide sull'”esistenza della motivazione in sè” con vizio che “si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass., S.U., 7 aprile 2014, n. 8053); le motivazioni della sentenza impugnata, sia sotto il profilo retributivo, sia sotto quello risarcitorio, sono chiaramente desumibili e sono state sopra già riepilogate e pertanto il vizio denunciato, per come rilevante ratione temporis nel vigente regime processuale, non sussiste;

8.

il ricorso va quindi integralmente respinto e le spese del grado restano regolate secondo soccombenza;

9.

va altresì formulato il seguente principio “in tema di dirigenza medica nel pubblico impiego privatizzato, lo svolgimento di lavoro straordinario – inteso quale prestazione eccedente gli orari stabiliti dalla contrattazione collettiva – non fa sorgere diritti retributivi ulteriori rispetto a quanto previsto a titolo di retribuzione di risultato o a titolo di specifiche attività aggiuntive (pronta disponibilità; guardie mediche; prestazioni autorizzate non programmabili etc.); tuttavia, la sistematica richiesta o accettazione di prestazioni eccedenti i limiti massimi stabiliti dalla legge o dalla contrattazione collettiva rispetto alla misura (giornaliera, settimanale, periodale o annua) del lavoro o la violazione delle regole sui riposi, come anche, qualora tali norme non si applichino o, per talune scansioni temporali, manchino, lo svolgimento della prestazione secondo modalità temporali irragionevoli, rendono il datore di lavoro responsabile, ai sensi dell’art. 2087 c.c., del risarcimento del danno cagionato alla salute (art. 32 Cost.) o alla personalità morale (art. 35 e 2 Cost., in relazione all’art. 2087 c.c.) del lavoratore. Peraltro, mentre il danno da carattere gravoso o usurante della prestazione, quando sia allegata e provata la violazione sistematica di norme specifiche sui limiti massimi dell’orario o la violazione di norme sui riposi, è da ritenere in re ipsa, nel caso in cui viceversa tali norme non siano applicabili o manchino, chi agisce, per ottenere il corrispondente risarcimento, è tenuto ad allegare e provare che le prestazioni, per le irragionevoli condizioni temporali, in una eventualmente al contesto in cui si sono svolte, sono state in concreto lesive della personalità morale del lavoratore”.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 6.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, in misura del 15 ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 16 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2020

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