Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16707 del 16/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 16/07/2010, (ud. 10/06/2010, dep. 16/07/2010), n.16707

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato GRANOZZI GAETANO, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta

mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

M.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 55/2008 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 01/04/2008 r.g.n. 1254/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/06/2010 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI per delega GRANOZZI GAETANO;

udito l’avvocato VACIRCA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso

per i conciliati, rigetto per gli altri.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza del 24.1 – 1^.4.2008, riformando la sentenza di primo grado, ha ritenuto, per quanto ancora qui rileva, la nullità del termine apposto ai contratti di lavoro conclusi da M.A. e B.M., condannando la parte datoriale al pagamento delle retribuzioni dalla rispettiva data di offerta delle prestazioni lavorative, coincidente con quella di notifica del ricorso di primo grado.

Per la cassazione di tale sentenza la Poste Italiane spa ha proposto ricorso fondato su otto motivi.

L’intimata B.M. ha resistito con controricorso.

L’intimata M.A. non ha svolto attività difensiva.

In corso di causa è stato depositato il verbale di conciliazione stipulato in sede sindacale fra la ricorrente e l’intimata M. A..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Dal ricordato verbale di conciliazione, debitamente sottoscritti dalla lavoratrice interessata e dal rappresentante della Poste Italiane spa, risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarando che, in caso di fasi giudiziali ancora aperte, le stesse sarebbero state definite in coerenza con il verbale stesso.

Ad avviso del Collegio il suddetto verbale di conciliazione si appalesa idoneo a dimostrare l’intervenuta cessazione della materia del contendere nel giudizio di Cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo.

Alla cessazione della materia del contendere consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto nei confronti dell’intimata con cui è intervenuta conciliazione, in quanto l’interesse ad agire (e, quindi, anche ad impugnare), deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutata la sussistenza di tale interesse (cfr, Cass., SU, n. 25278/2006).

Non è luogo a pronunciare sulle spese del giudizio di cassazione non avendo l’intimata svolto attività difensiva.

2. Quanto al ricorso proposto nei confronti di B. M., i primi tre mezzi censurano il mancato accoglimento dell’eccezione di risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso in relazione al tempo trascorso tra la scadenza del contratto a termine e la manifestazione della volontà della lavoratrice di ripristinare la funzionalità di fatto del rapporto.

Secondo l’insegnamento di questa Suprema Corte (cfr, in particolare, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554) ne giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto) per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo;

la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.

Nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto che la mera inerzia della lavoratrice dopo la scadenza del contratto non fosse sufficiente a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per mutuo consenso, non avendo la parte datoriale fornito nessuna prova in ordine alla sussistenza di circostanze rivelatrici della volontà delle parti di volere porre definitivamente fine al rapporto di lavoro.

Tale conclusione, in quanto priva di vizi logici o errori di diritto, resiste alle censure mosse in ricorso, comportando l’assorbimento delle doglianze svolte in relazione alla ritenuta sussistenza di elementi di giudizio che positivamente smentivano la sussistenza della volontà della lavoratrice di risolvere consensualmente il rapporto.

3. Il contratto in relazione al quale è stata ritenuta l’illegittimità del termine è stato concluso a norma dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 ed in particolare in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, che prevede quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine la presenza di esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane.

3.1 La Corte territoriale, premesso che l’accordo de quo era disciplinato dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, ha attribuito rilievo decisivo al fatto che, avendo le parti raggiunto un’intesa originariamente priva di termine, le stesse avevano stipulato accordi attuativi che avevano fissato un limite temporale alla possibilità di procedere con assunzioni a termine, limite fissato inizialmente al 31 gennaio 1998 e successivamente al 30 aprile 1998; il contratto a termine in esame, stipulato in epoca successiva all’ultimo dei termini sopra indicati, era illegittimo in quanto privo del supporto derogatorio.

3.2 Con il quarto e il quinto motivo di ricorso, tra loro connessi e da esaminare congiuntamente, la Società ricorrente ha contestato, fra l’altro, l’interpretazione data dalla Corte di merito al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997 ed agli accordi dalla stessa definiti come attuativi, deducendo, in particolare, che questi ultimi accordi avevano natura meramente ricognitiva.

Tale censura è infondata.

Con numerose sentenze questa Corte Suprema (cfr, ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha univocamente confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione ..), dopo il 30 aprile 1998.

Premesso, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che, in forza della sopra citata delega in bianco, le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha reputato che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.

In particolare è stato osservato che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti, nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr, ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

E’ stato altresì rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Infine è stata ritenuta corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e, cioè, quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina del divo n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, ex plurimis, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

3.3 Il sopra citato orientamento di questa Corte deve essere pienamente confermato, atteso che le tesi difensive che si sono confrontate nelle fasi di merito, quelle oggi proposte all’attenzione della Corte e, infine, le ragioni esposte nella sentenza impugnata, non sono sorrette da argomenti che non siano già stati scrutinati nelle ricordate decisioni o che propongano aspetti di tale gravità da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti.

3.4 Il sesto motivo di ricorso, con cui la ricorrente si duole che la Corte d’Appello abbia ritenuto “generiche e non affatto esplicitate” le ragioni del contratto individuale, essendo diretto contro una (ulteriore) ragione di ritenuta illegittimità del termine, è inammissibile (per carenza di interesse) una volta rigettate le censure avverso l’altra ragione di illegittimità testè ricordata, posto che quest’ultima è di per sè sufficiente a sostenere il decisum (cfr, ex plurimis, Cass., 10.9.2004, n. 18240; Cass., 21.10.2005, n. 20454).

4. Con il settimo e l’ottavo mezzo viene censurata la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ha condannato la Società al pagamento delle retribuzioni dalla data dell’offerta delle prestazioni lavorative.

4.1 Sotto un primo profilo la Società ricorrente denuncia in sostanza la violazione del principio di corrispettività delle prestazioni oltre che della disciplina privatistica in tema di onere probatorio.

Le doglianze sono da ritenersi infondate in base all’insegnamento di questa Corte Suprema (cfr, Cass., SU, 8 ottobre 2002, n. 14381, nonchè, ex plurimis, Cass., 13 aprile 2007, n. 8903) che, con riferimento all’analoga ipotesi della trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione dei termini, o comunque dell’elusione delle disposizioni imperative della L. n. 230 del 1962, ha affermato che il dipendente che cessa l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla – in linea generale in misura corrispondente a quella della retribuzione – qualora provveda a costituire in mora lo stesso datore di lavoro ai sensi dell’art. 1217 c.c.; le censure presentano inoltre profili di inammissibilità, per violazione del principio di autosufficienza, per non essere stato riprodotto nel ricorso il testo dell’atto (ricorso di primo grado) di cui viene contestata l’idoneità a costituire la costituzione in mora (cfr, ex plurimis, Cass., 10 agosto 2004, n. 15412).

4.2 La ricorrente si duole altresì che la Corte territoriale abbia respinto l’eccezione dell’aliunde perceptum in relazione a quanto l’odierna intimata avrebbe ricevuto da altri datori di lavoro.

La doglianza è infondata, avendo la Corte territoriale rilevato l’assoluta genericità dell’eccezione in difetto delle allegazioni che l’avrebbero dovuta sostanziare e non essendo stato tale difetto di allegazione validamente confutato dalla ricorrente, che si limita a richiamare le istanze istruttorie svolte, le quali tuttavia, riferendosi alle richieste di informazioni presso l’UPLMO e a quella di esibizione della documentazione fiscale della lavoratrice, sono esse stesse generiche e non soddisfano, quindi, la necessaria deduzione dei fatti determinanti l’asserito aliunde perceptum.

Ed invero la doglianza svolta è fondata sull’erroneo assunto che l’aliunde perceptum potrebbe essere dedotto soltanto genericamente e ricadrebbe sul lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione.

Infatti, al riguardo, la giurisprudenza formatasi in materia di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo ritiene che l’eccezione con la quale il datore di lavoro deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione, ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte.

Pertanto, allorquando vi sia stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trame d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (cfr, Cass., SU, n. 1099/1998).

E’ stato, tuttavia, precisato che, ai fini della sottrazione dell’aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute al lavoratore ingiustamente licenziato, è necessario che risulti la prova, da qualsiasi parte provenga, non solo del fatto che il lavoratore stesso abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione, ma anche di quanto percepito, essendo questo il fatto che riduce l’entità del danno presunto (cfr, Cass., n. 6668/2004); in ogni caso, spetta al datore di lavoro il relativo onere probatorio, quantomeno in punto di negligenza del lavoratore nel cercare altra proficua occupazione (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 2402/2004; 12798/2003).

Nel caso di specie la ricorrente, sostenendo di aver dedotto in sede di merito la possibilità che la propria controparte avesse espletato attività lavorativa retribuita da terzi, attribuisce erroneamente alla lavoratrice l’onere di dimostrare di non essere stato occupata.

Pertanto, non risultando essere stata comunque acquisita la prova al riguardo ed essendosi la datrice di lavoro sottratta all’onere probatorio a lei facente carico, deve ritenersi insussistente in fatto il presupposto stesso per la detrazione di quanto acquisito (realmente o presumibilmente) dalla lavoratrice in altre occupazioni.

5. In definitiva il ricorso va rigettato.

L’alterno esito dei giudizi di merito consiglia la compensazione delle spese.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti di M.A.; nulla per le spese; rigetta il ricorso proposto nei confronti di B.M. e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 10 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2010

 

 

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