Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16701 del 09/08/2016


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Cassazione civile sez. trib., 09/08/2016, (ud. 21/03/2016, dep. 09/08/2016), n.16701

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26147-2004 proposto da:

COUNTRY SAS, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DI SANTA COSTANZA 35 presso lo

studio dell’avvocato ANTONIO VITTUCCI, che lo rappresenta e difende

giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

MINISTERO FINANZE AGENZIA ENTRATE UFFICIO ROMA (OMISSIS), in persona

del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI

PORTOGHESI 12 presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 112/2008 della COMM.TRIB.REG. del LAZIO,

depositata il 21/10/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/03/2016 dal Consigliere Dott. LUCIO LUCIOTTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato ANTONIO VITTUCCI, che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito per il controricorrente l’Avvocato CARLA COLELLI, che si

riporta al controricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza n. 21 del 21.10.2008 la Commissione tributaria regionale del Lazio rigettava l’appello proposto dalla Country s.a.s. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Roma che aveva a sua volta rigettato il ricorso proposto dalla predetta società avverso l’avviso di liquidazione di imposta di registro, di bollo e penale dovute in relazione alla sentenza della Pretura di Roma n. 7419 del 28 novembre 1997.

Sosteneva il giudice di appello che la società contribuente – che aveva dedotto l’assoggettabilità ad IVA e non ad imposta di registro del contratto di affitto di azienda che era stato risolto con la citata sentenza pretorile – non aveva provato nè di aver pagato l’IVA per il periodo di riferimento nè di averla registrata nelle proprie scritture contabili.

2. Ricorre per cassazione la società contribuente che propone un motivo variamente articolato, cui resiste l’Agenzia con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo ed unico motivo di ricorso, corredato da due quesiti, la società contribuente denuncia, a sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, plurime violazioni di norme di diritto (art. 24 Cost., L. n. 241 del 1990, art. 3, art. 2697 c.c., art. 112 c.p.c.) nonchè la “nullità dell’accertamento per difetto di motivazione”. Censura la sentenza d’appello per avere la CTR: a) legittimato con la stessa un atto impositivo che, in violazione dello Statuto dei diritti del contribuente e delle norme sulla liquidazione delle imposte di registro sugli atti giudiziari, non conteneva il motivo di applicazione di tale imposta; b) omesso di affrontare la questione dell’assoggettabilità dei canoni di affitto di azienda ad IVA piuttosto che ad imposta di registro; c) invertito l’onere probatorio laddove ha ritenuto spettasse alla contribuente dimostrare di aver versato l’Iva sugli importi indicati in sentenza; d) omesso di motivare sulla misura della sanzione applicata. Quindi, “sui due punti relativi alla carenza di motivazione (debenza imposta di registro oltre all’IVA dovuta – sanzioni applicate)” ha formulato i seguenti quesiti di diritto:

1) “In tema di tassazione di una sentenza per canoni dovuti in materia di locazione di azienda, tra soggetti IVA (L. n. 633 del 1972), tale che una parte (Ag. delle Entrate) deduca l’applicazione dell’imposta di registro e l’altra parte invece l’IVA dovuta ex lege, incombe a quest’ultima l’onere di provare documentalmente la debenza del tributo ed anche l’avvenuto versamento dell’IVA?”;

2) “In tema di applicazione di sanzioni ex L. n. 472 del 1997 ove l’atto emesso dalla P.A. non rechi la “valutazione del grado di violazione e della personalità del responsabile”, può ritenersi motivato e legittimo?”.

2. Il motivo di ricorso è inammissibile per la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei in esso contenuti, facendo riferimento cumulativo alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, ovverosia quelle di cui ai nn. 3), 4) e 5), peraltro prospettato con formulazione confusa, che non permette di cogliere con chiarezza le doglianze proposte, e che è corredato soltanto da due quesiti di diritto, peraltro inadeguati, in quanto non riferibili a tutti i singoli profili di censura dedotti, e non ossequiosi delle prescrizioni imposte, appunto a pena d’inammissibilità, dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile al caso di specie “ratione temporis”, stante la data di pubblicazione della sentenza impugnata (21 ottobre 2008).

2.1. Come costantemente affermato da questa Corte (da ultimo cfr. Cass. n. 24781 del 2015) non è consentito prospettare la medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto (n. 3), che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, quello del vizio di motivazione (n. 5) che, invece, quegli elementi di fatto intende rimettere in discussione sub specie di errore di giustificazione della decisione di merito sul fatto. Inoltre, è contraddittoria anche la denuncia, in un unico motivo dei due opposti vizi di omessa pronuncia (n. 4) e di omessa o insufficiente motivazione circa fatti discussi e decisivi (n. 5), nonchè della violazione di norme di diritto sostanziali (n. 3). L’uno, infatti, implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente a norma del n. 4, e non con la denuncia della violazione di norme di diritto sostanziali (n. 3), ovvero del vizio di omesso esame circa fatti discussi e decisivi (n. 5), mentre l’altro presuppone l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione, e va denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass. 13866/2014); entrambe le censure, omissive e motivazionali, contraddicono quella ex n. 3 che, come si è detto, suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma.

2.2. La ricorrente è quindi venuta meno all’obbligo di precisare, in concreto, i vizi riscontrabili nella sentenza d’appello, non potendo tale scelta (a norma dell’art. 111 Cost., e del principio inderogabile della terzietà del giudice) essere rimessa alla Corte (conf. Cass. 6235/2015 e giurisprudenza ivi citata) come accadrebbe nel caso di specie, in cui manca non solo una separata trattazione dei motivi di censura, ma anche l’enucleazione di tanti quesiti (di diritto e di fatto) quanti sono i mezzi di impugnazione dedotti.

A tal proposito va osservato che neanche possono ritenersi ammissibili le censure che abbiano trovato riscontro nei due quesiti proposti dalla ricorrente (v. punto 1), in ragione del principio (affermato da Cass. S.U., n. 5624 del 2009, seguita da Sez. 5, n. 16345 del 2013) secondo cui la decisione della Corte di cassazione, in caso di proposizione cumulativa di più motivi formalmente unici, può essere limitata all’oggetto del quesito o dei quesiti idoneamente formulati, rispetto ai quali il motivo costituisce l’illustrazione. Infatti, i due quesiti sopra trascritti non superano il vaglio di ammissibilità in quanto formulati in maniera astratta e generica (Cfr. Cass. SS.UU. n. 21672/2013, n. 23675/2013), risolvendosi in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta e la cui risposta, comunque, non consente di risolvere il caso “sub iudice” (Cass. SS.UU. n. 28536 del 02/12/2008).

Conclusivamente, quindi, il motivo di ricorso va dichiarato inammissibile e la ricorrente condannata, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese processali liquidate come in dispositivo ai sensi del D.M. Giustizia n. 55 del 2014.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il motivo di ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 3.000,00 per spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione quinta civile, il 21 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2016

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