Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 167 del 07/01/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 167 Anno 2013
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: VENUTI PIETRO

SENTENZA
sul ricorso 25305-2010 proposto da:
FANTE

FNIGNN50T2OL182D,

GIOVANNI

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE G. MAllINI 6, presso lo
studio dell’avvocato VITALE ELIO, che lo rappresenta
e difende giusta delega in atti;
– ricorrente contro

2012
3149

TRENITALTA

S.P.A.,

in

persona

del

legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA,

L.G.

FARAVELLI

22,

presso lo studio

dell’avvocato MORRICO ENZO, che la rappresenta

e

Data pubblicazione: 07/01/2013

difende giusta delega in atti;
controricorrente

avverso la sentenza n. 2169/2010 della CORTE
D’APPELLO di ROMA, depositata il 29/04/2010 r.g.n.
1141/09;

udienza del 11/10/2012 dal Consigliere Dott. PIETRO
VENUTI;
udito l’Avvocato VALERIA COSENTINA per delega ENZO
MORRICO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

R.G. n. 25305/10
Ud. ii ott.

2012

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
stato licenziato dal datore di lavoro ex art.

2119

2000

è

c.c. Ha contestato il

licenziamento con ricorso al Tribunale di Roma e il giudice adito ha accolto la
domanda, dichiarando illegittimo il recesso e reintegrandolo nel posto di
lavoro.
Tale decisione è stata impugnata da Trenitalia S. p.A. e la Corte di
Appello di Roma, in accoglimento del gravame, con sentenza del 4 novembre
2005 ha dichiarato legittimo il licenziamento, rigettando l’originaria domanda
proposta dal lavoratore.
In ottemperanza a tale sentenza, Trenitalia S.p.A. — che, in forza della
sentenza di primo grado aveva reintegrato il lavoratore nel posto di lavoro —
comunicava al lavoratore la cessazione del rapporto di lavoro con effetto
immediato.
Il lavoratore, ritenendo che tale comunicazione configurasse un nuovo

licenziamento, risultando dalla stessa che il recesso era stato intimato non
solo in relazione alla sentenza della Corte di Appello del 4 novembre 2005, ma
francheu per altre ragioni, promuoveva altro giudizio nei confronti di Trenitalia
S.p.A., chiedendo dichiararsi illegittimo il secondo licenziamento e di essere
reintegrato nel posto di lavoro.
Il Tribunale adito rigettava il ricorso e tale decisione veniva confermata
dalla Corte di Appello di Roma con sentenza del 5 marzo

2010,

oggetto del

presente giudizio.
Ha osservato la Corte territoriale che era passata in giudicato la
sentenza della Corte di Appello del 4 novembre 2005 che aveva accertato la
legittimità del licenziamento; che la comunicazione di Trenitalia al lavoratore
di cessazione del rapporto non costituiva un autonomo licenziamento, ma una
presa d’atto della avvenuta riforma della sentenza di primo grado che aveva
ritenuto illegittimo il recesso; che, una volta accertata la legittimità del

Giovanni Fante, dipendente di Trenitalia S.p.A., il 16 agosto

licenziamento, correttamente il datore di lavoro in data io novembre 2005
aveva comunicato al lavoratore la definitiva cessazione del rapporto, atteso
che la sentenza di appello che aveva rigettato la domanda del lavoratore si era
sostituita immediatamente, ex art. 336, comma 2, c.p.c., a quella di primo
grado sulla scorta della sola lettura del dispositivo, senza che fosse necessario
attendere il deposito della motivazione.
lavoratore sulla base di tre motivi. La società Trenitalia ha resistito con
controricorso. Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
i.

Con il primo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione

degli articoli 24, comma 2, COSL, 1362 e seguenti c.c., 2118, 2119, 2697 C.C.,
115, 116 c.p.c., 2, COTTIMI 2 e 3, e 5 della legge 15 luglio 1966 n. 604, 7 della

legge 20 maggio 1970 n. 300, in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3
c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti
controversi e decisivi per il giudizio in relazione al n. 5 dello stesso articolo, il
ricorrente deduce che dal tenore della comunicazione di Trenitalia del 10
novembre 2005 (“Anche in relazione a quanto disposto dalla Corte di Appello

di Roma in data 04 novembre u.s. con la presente la scrivente Società Le
comunica la propria intenzione di voler cessare con effetto immediato il
rapporto di lavoro con Ella intercorrente”) ed in particolare dalla presenza
della congiunzione “anche” in apertura, non erano desumibili i motivi che
avevano determinato la cessazione del rapporto di lavoro. Non era stato infatti
precisato il contenuto della statuizione della Corte di Appello di Roma né era
stata indicata “una riaffermata validità del licenziamento del 16.08.2000″.
Secondo le regole di ermeneutica contrattuale era pertanto logico e
coerente ritenere che il recesso fosse inefficace perchè non sorretto da alcun
motivo. In ogni caso era stato vulnerato il diritto di difesa del lavoratore, non
essendo stato il medesimo posto in grado di approntare alcuna difesa.
2. Con il secondo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione

degli articoli 431, 475 c.p.c., 153 disp. att. c.p.c., omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio
nonché illogicità della motivazione, in relazione all’articolo 360, primo
comma, n. 3 e 5 c.p.c., il ricorrente deduce che è errata l’affermazione della
Corte territoriale secondo cui, una volta accertata in appello, in riforma della

Per la riforma di tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il

3

sentenza di primo grado, la legittimità del licenziamento, questo riacquista ex

tune la sua efficacia, per cui il datore di lavoro non ha altro onere se non
quello di comunicare la definitiva cessazione del rapporto di lavoro per effetto
della pronuncia giudiziale.
Una siffatta affermazione è, ad avviso del ricorrente, illogica perché
confonde il procedimento disciplinare con il procedimento giudiziale che non

necessita dell’esperimento di una serie di procedure previste e regolamentate
da precise regole a tutela dei diritti ed interessi coinvolti”.
Peraltro, nella specie la sentenza di riforma nulla disponeva in ordine
agli effetti già prodottisi, onde era necessaria una statuizione specifica per
l’allontanamento del ricorrente dal servizio.
Deduce infine profili di contraddittorietà nella motivazione della
sentenza impugnata, nella parte in cui viene dato rilievo, ai fini della
caducazione immediata della sentenza riformata, ora alla lettura del
dispositivo in udienza ora alla pubblicazione della sentenza.
3. Con il terzo motivo, denunziando ex art. 360, primo comma, n. 3 e 5,
c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost., 132, 327, 431 c.p.c.,
119 disp. att. c.p.c. omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa
fatti controversi e decisivi per il giudizio, nonché illogicità della motivazione,
il ricorrente deduce che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte
territoriale, nelle controversie di lavoro la decisione non acquista valore di
sentenza sulla base del solo dispositivo letto in udienza, dovendo esso essere
integrato dalla motivazione che, giusta il dettato dell’art. iii Cost., deve
accompagnare tutti i provvedimenti giudiziali.
4. Il primo motivo non è fondato.
E’ principio consolidato di questa Corte — che va qui ribadito — che
nell’interpretazione degli atti unilaterali, il canone ermeneutico di cui all’art.
1362, primo comma, c.c., impone di accertare esclusivamente l’intento
proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio (v., fra le altre, Cass.
giugno

2002

n. 7973, Cass. 30 giugno 2005 n. 13970, Cass. 19 novembre 1998

n. 11712), rimanendo peraltro applicabile, in base al rinvio operato dall’art.
1324 c.c., il criterio dell’interpretazione complessiva dell’atto e non potendo
aversi riguardo alla comune intenzione delle parti, che non esiste, né farsi

prevede, per ottemperare ad una sentenza, “una semplice comunicazione ma

4

ricorso alla valutazione del comportamento dei destinatari dell’atto stesso
(Cass.

20

gennaio 2009 n. 1387).

Nella fattispecie in esame la Corte territoriale, dopo aver premesso che
la sentenza della Corte di Appello del 4 novembre

2005

che aveva accertato la

legittimità del licenziamento intimato al lavoratore il 16 agosto
passata in giudicato, ha affermato che la missiva del 10 novembre

2000,
2005

era

era da

recesso a produrre i suoi effetti per effetto della riforma della sentenza di
primo grado, senza che al termine “anche” potesse essere attribuito il
significato di ulteriori ragioni non dichiarate.
Trattasi di interpretazione riservata al giudice di merito, la quale può
essere sindacata in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali
di ermeneutica contrattuale oppure per vizi di motivazione, elementi questi
non ricorrenti nella specie, dovendo escludersi la violazione di detti criteri ed
essendo la motivazione adeguata, logica ed immune da vizi o contraddizioni.
5. Anche il secondo motivo è infondato.
Questa Corte ha più volte affermato che, in ipotesi di ordine di
reintegrazione nel posto di lavoro emesso a seguito di accertamento della
illegittimità del licenziamento, l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il
lavoratore (o di pagargli la retribuzione) trova il suo fondamento genetico
nella lex contractus e nella giuridica continuità del rapporto sostanziale, non
interrotto dal licenziamento illegittimo; ne consegue che, una volta
intervenuti in appello la riforma della prima sentenza e l’accertamento della
legittimità dell’originario licenziamento, l’estromissione del lavoratore
dall’azienda non è configurabile come nuovo licenziamento, bensì come mera
comunicazione della definitiva cessazione del rapporto per effetto della
riconosciuta legittimità del precedente licenziamento e quindi della sua
riacquistata idoneità a determinare ex tunc il suddetto effetto.
E’ stato inoltre precisato che l’art. 336 c.p.c., nella nuova formulazione
introdotta dalla legge n. 353 del 1990, non subordina più al passaggio in
giudicato della sentenza di riforma i cosiddetti effetti espansivi esterni,
comportando perciò non soltanto la caducazione immediata della sentenza
riformata (le cui statuizioni vengono sostituite automaticamente da quelle
della sentenza di riforma), ma altresì l’immediata propagazione delle
conseguenze della sentenza di riforma agli atti dipendenti dalla sentenza

interpretare come una mera presa d’atto della riacquistata idoneità del

impugnata; ne consegue che la riforma in appello della sentenza che abbia
accertato l’illegittimità di un licenziamento e ordinato la reintegrazione del
lavoratore comporta non soltanto la caducazione dell’accertamento e
dell’ordine ripristinatorio, ma altresì il venir meno della ricostituzione del
rapporto di lavoro provvisoriamente riaffermata da quell’ordine e la
restituzione al licenziamento della sua piena efficacia estintiva fin dalla data
2000

n.

8745; Cass. 14 gennaio 2005 n. 637; Cass. 19 luglio 2005 n. 15220; Cass. 5
marzo 2009 n. 5323).
Corretta è dunque la sentenza impugnata che, alla stregua di tali
affermazioni, ha ritenuto che la sentenza di appello del 4 novembre 2005,
riformando quella di primo grado che aveva ritenuto illegittimo il
licenziamento, si era sostituita immediatamente a quella di primo grado ed
aveva determinato la caducazione automatica di tutte le statuizioni in essa
contenute, essendo immediatamente efficace ex art. 336 c.p.c.
Quanto, poi, al rilievo che la sentenza di riforma nulla disponeva in
ordine agli effetti della sentenza di primo grado già prodottisi, la questione è
irrilevante nel presente giudizio, in cui si controverte sulla contrapposta
interpretazione data dalle parti alla missiva del io novembre 2005:
licenziamento, secondo l’assunto del ricorrente; mera presa d’atto della
riacquistata idoneità del recesso a produrre i suoi effetti, secondo la società.
Non sussistono, infine, i profili di contraddittorietà della impugnata
sentenza dedotti dal ricorrente, costituiti dall’avere questa dato rilievo, ai fini
della caducazione immediata della sentenza riformata, ora alla lettura del
dispositivo in udienza ora alla pubblicazione della sentenza, avendo la
sentenza impugnata chiarito (pag. 5) che “nel rito del lavoro, poiché il

dispositivo viene letto in udienza, con pubblicazione immediata e successivo
deposito in cancelleria, lo stesso racchiude gli elementi del comando
giudiziale che non possono essere mutati in sede di redazione della
motivazione, sicché, nel giudizio di appello, la sua lettura fissa il termine
iniziale di decorrenza della nuova decisione ormai inalterabile, con la
conseguenza che da tale data cessano gli effetti della sentenza riformata”.
6. Infondato, infine, è il terzo motivo, con il quale il ricorrente censura
l’affermazione della Corte di appello ora riportata, deducendo che anche nel
rito del lavoro la decisione non acquista valore di sentenza sulla base del solo

della sua intimazione (cfr., per tutti tali principi, Cass. 27 giugno

6

dispositivo letto in udienza, dovendo questo essere integrato dalla
motivazione.
A sostegno del motivo il ricorrente ha richiamato la sentenza di questa
Corte del 14 febbraio 1996 n. 1422, in cui, tra l’altro, è stato affermato che
“anche nelle controversie di lavoro, in cui la decisione acquista valore non
sulla base del solo dispositivo letto in udienza, ma a seguito del deposito
o, in caso di giudice collegiale, da parte del presidente o dell’estensore, ne
determina la nullità insanabile ai sensi dell’art. .161, secondo comma, cod.
proc. civ., che va rilevata anche d’ufficio dal giudice dell’impugnazione”.
Ma tale affermazione, estrapolata dalla motivazione della sentenza e, nei
termini anzidetti, massimata, si inseriva in un ragionamento più ampio ed
articolato ed atteneva ad una fattispecie del tutto diversa, in cui mancava la
sottoscrizione di uno dei magistrati tenuti a sottoscrivere la sentenza (il
giudice estensore).
Quel Collegio, in ragione di tale mancanza, ha affermato il principio che
l’omessa sottoscrizione della sentenza da parte del giudice, o nel caso di
sentenza emessa da un giudice collegiale, da parte di uno dei magistrati tenuti
a sottoscriverla ai sensi dell’art. 132 c.p.c., determina (nel caso in cui
l’impedimento del magistrato non risulti menzionato ai sensi del terzo comma
dell’art. 132 c.p.c. cit.) la nullità insanabile della sentenza medesima, restando
escluse l’applicabilità del procedimento di correzione degli errori materiali e la
possibilità di distinguere tra omissione intenzionale ed omissione
involontaria, provocata da errore o dimenticanza.
Il motivo in esame deve dunque essere respinto, ribadendosi qui il
principio, enunciato da Cass.

21

marzo 2008 n. 7698, secondo cui nel rito del

lavoro il dispositivo della sentenza non è – come nel rito ordinario – un atto
puramente interno, modificabile dallo stesso giudice fino a quando la
sentenza non venga pubblicata, ma è atto di rilevanza esterna, che racchiude
gli elementi del comando giudiziale i quali non possono essere mutati in sede
di redazione della motivazione, atteso che la sua lettura in udienza fissa in
maniera immodificabile tale comando portandolo ad immediata conoscenza
delle parti (negli stessi termini: Cass. 10575/9o, Cass. 1374/91).

della sentenza, la mancata sottoscrizione di quest’ultima da parte del giudice

7

7. Alla stregua di tutto quanto precede, il ricorso deve essere rigettato,
previa condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio,
come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
del presente giudizio, che liquida in C 40,00 per esborsi ed C 3.000,00 per
Così deciso in Roma in data n ottobre

2012.

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