Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16697 del 14/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 14/06/2021, (ud. 23/02/2021, dep. 14/06/2021), n.16697

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11852/2016 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12.

– ricorrente –

contro

HF9 s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa nel presente giudizio, in virtù di procura

speciale a margine del controricorso, dall’Avv. Antonio Mario

Cazzolla, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Livia

Ranuzzi in Roma, Viale del Vignola, n. 5.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Puglia, n. 2382/5/2015, depositata il 12 novembre 2015.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 febbraio

2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale della Puglia rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bari (n. 137/8/2014), che aveva accolto il ricorso presentato dalla società HF9 s.r.l., per l’anno 2011, contro il provvedimento di rigetto dell’Agenzia delle entrate, direzione generale della Puglia, dell’istanza di disapplicazione della norma antielusiva di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis e della L. n. 724 del 1994, art. 30. In particolare, il giudice d’appello rilevava che la risposta dell’Amministrazione finanziaria all’interpello del contribuente costituiva un atto impugnabile, in quanto pretesa tributaria definitiva, aggiungendo, quanto al merito, che sussistevano ragioni oggettive per escludere la sussistenza di una società di comodo. In particolare, la Commissione regionale evidenziava che la contribuente nel 2011 aveva acquistato un’azienda, già includente tra i suoi assets l’autorizzazione per la costruzione e l’esercizio di un impianto fotovoltaico, che nello stesso anno aveva chiesto l’iscrizione al registro grandi impianti presso il Gestore dei Servizi Energetici (GSE) al fine di ottenere gli incentivi economici per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili; ma che, non avendo conseguito la possibilità di accedere a tali incentivi, non aveva intrapreso la progettata attività economica. La mancata concessione degli incentivi previsti per la produzione di energia da fonti rinnovabili aveva, quindi, reso antieconomica la costruzione degli impianti ed aveva, di fatto, reso impossibile lo svolgimento dell’attività imprenditoriale, con i ricavi conseguenti. La prova contraria di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis, non è integrata soltanto dall’impossibilità assoluta ed oggettiva di conseguire ricavi, ma anche da ogni situazione in cui il mancato conseguimento di ricavi dipenda da circostanze oggettive non imputabili allo stesso contribuente. La ratio della norma è, infatti, quella di colpire quelle società che, al di là dell’oggetto sociale dichiarato, sono state costituite per gestire un patrimonio nell’interesse dei soci, anzichè svolgere un’effettiva attività imprenditoriale. Nella specie, la società contribuente non era un mero contenitore di beni riconducibile ai soci.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

3. Resiste con controricorso la società.

4. La Procura Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Anzitutto, si rileva che il ricorso per cassazione non è inficiato dalla eccezione di improcedibilità sollevata dalla controricorrente.

Invero, per questa Corte, a Sezioni Unite (Cass., sez. un., 3 novembre 2011, n. 22726) i fascicoli di parte restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti alle parti al termine del processo, dove l’espressione “termine del processo” va intesa come momento del suo passaggio in giudicato.

Pertanto, al ricorrente non può farsi carico neppure della mancata produzione della copia degli atti e documenti contenuti nel fascicolo di merito della controparte, essendo il meccanismo istituzionale di “acquisizione” connotato da una regola particolare.

Si è precisato, ai fini dell’applicazione del disposto dell’art. 369 c.p.c., comma 3, allora, che nel processo tributario non è applicabile “il principio enunciato da queste Sezioni Unite n. 7161/2010 e n. 28547/2008, con le quali s’era affermato che se il documento risulti prodotto nelle fasi di merito dalla controparte, è necessario che il ricorrente…cautelativamente…produca in copia il documento stesso…”, per l’ipotesi che la controparte non si costituisca nel giudizio di legittimità o si costituisca senza produrre il fascicolo o producendolo senza il documento.

Pertanto, nel ricorso avverso le sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti, avvinti ai sensi del D.P.R. n. 546 del 1992, art. 25, comma 2, comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata della produzione del proprio fascicolo, contenuto nel fascicolo d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4. Neppure è tenuta la parte ricorrente, per la medesima ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte. Pertanto, per i ricorsi avverso le sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ex art. 25, comma 2, restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità ed ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poichè detto fascicolo è già acquisito a quello d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla S.C. ex art. 369 c.p.c., comma 3, a meno che la predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria; neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte (Cass., sez. un., 3 novembre 2011, n. 22726; Cass., sez. 5, 30 novembre 2017, n. 28695).

1.1. Va rigettata anche l’eccezione di assenza di autosufficienza sollevata dalla controricorrente per la mancata “trascrizione integrale” sia degli atti di causa che degli atti della controparte.

Infatti, per questa Corte, ai fini del rispetto dei limiti contenutistici di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità al dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva, dovendo il ricorrente selezionare i profili di fatto e di diritto della vicenda “sub iudice” posti a fondamento delle doglianze proposte in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; l’inosservanza di tale dovere (nella specie ravvisata dalla S.C. a fronte di ricorso per cassazione di 239 pagine, nonostante la semplicità della questione giuridica alla base della decisione impugnata, illustrata in due pagine) pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e, pertanto, comporta la declaratoria di inammissibilità del ricorso, ponendosi in contrasto con l’obiettivo del processo, volto ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa (art. 24 Cost.), nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo (art. 111 Cost., comma 2 e art. 6 CEDU), senza gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui (Cass., sez. 5, 30 aprile 2020, n. 8425). Non v’è dunque alcun obbligo di trascrizione integrale degli atti processuali, ma è sufficiente riportare con chiarezza e sintesi i profili di fatto e di diritto indispensabili per la decisione.

Nella specie, l’Agenzia delle entrate ha confezionato il ricorso per cassazione ne pieno rispetto del principio di autosufficienza, con l’indicazione del contenuto degli atti di causa rilevanti e con opportuni raccordi tra le porzioni di motivazioni delle sentenze di primo e di secondo grado, con il contenuto valutativo e censorio dei motivi di impugnazione.

1. Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e/o falsa applicazione di legge: D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 1, lett. h) ed i), e comma 3, ed art. 100 c.p.c.. Inammissibilità del ricorso di prime cure perchè avente ad oggetto un atto non rientrante nel novero dei provvedimenti immediatamente ed autonomamente impugnabili dinanzi al giudice tributario e, comunque, per mancanza (originaria) di interesse ad agire, costituente imprescindibile requisito della domanda di tutela giurisdizionale (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4)”. Secondo la ricorrente, infatti, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, contiene una elencazione tassativa degli atti avverso i quali è possibile presentare ricorso dinanzi al giudice tributario. In tale elenco non è incluso il provvedimento di rigetto dell’istanza per la disapplicazione della normativa antielusiva. Pertanto, il provvedimento del 28 agosto 2012 emesso dalla direzione regionale dell’Agenzia delle entrate della regione Puglia non era impugnabile, con conseguente inammissibilità del ricorso originario presentato dalla contribuente per violazione appunto del suddetto, art. 19. Il provvedimento di rigetto dell’istanza di disapplicazione di norma antielusiva non può, inoltre, essere ricondotto al diniego di agevolazione. Sia in caso di interpelli ordinari conoscitivi, sia in caso di interpelli “speciali” disapplicativi, l’attività svolta dall’Agenzia non costituisce esercizio di un potere impositivo, che è, infatti, rimandato ad un momento eventuale successivo, coincidente con l’emanazione di un atto lesivo della sfera giuridica del contribuente. Tale diniego, peraltro, non enuncia alcuna pretesa tributaria, nè quanto all’an nè sul quantum e, in ogni caso, non è neppure suscettibile di diventare definitivo, in quanto le valutazioni giuridiche nello stesso espresse possono essere contestate dal contribuente in sede di impugnazione avverso il conseguente (ed eventuale) avviso di accertamento.

1.1. Il primo motivo è infondato.

1.2. Invero, con una prima decisione di questa Corte si è ritenuto che il diniego da parte del direttore regionale delle entrate di disapplicazione di una legge antielusiva, effettuato ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, comma 8, è un atto definitivo in sede amministrativa (così indicato espressamente dal D.M. Finanze 19 giugno 1998, n. 259, attuativo della procedura di cui al citato art. 37-bis, comma 8) e recettizio con immediata rilevanza esterna, da qualificarsi come un’ipotesi di diniego di agevolazione, come tale impugnabile innanzi alle Commissioni tributarie, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 1, lett. h). Il relativo giudizio instaurato dinanzi al giudice tributario, vertendo in materia di diritti soggettivi e non di meri interessi legittimi, è a cognizione piena e si estende, quindi, al merito della pretesa e non è limitato alla mera illegittimità dell’atto per cui, all’esito, potrà essere emessa una decisione sulla fondatezza della domanda di disapplicazione, con conseguente attribuzione, ove ne ricorrano le condizioni applicative, dell’agevolazione richiesta (Cass., sez. 5, 15 aprile 2011, n. 8663). In particolare, si è osservato che l’unico tratto differenziale rispetto alle altre ipotesi di “agevolazione” era di tipo procedimentale, in quanto il potere di autorizzazione non spettava all’Ufficio locale competente per territorio, ma alla massima autorità regionale in materia fiscale e l’atto di controllo consisteva in una autorizzazione specifica e preventiva. Sussisteva l’interesse ad agire in capo al destinatario del diniego che, con l’azione giurisdizionale, era in grado di evitare un effetto a sè pregiudizievole.

Si precisava – ma tale precisazione veniva confutata dalla giurisprudenza di legittimità successiva – che la mancata impugnazione di tale atto tipico comportava la intangibilità dello stesso, con esclusione di ogni contestazione successiva, ponendosi come fatto di per sè preclusivo nell’ambito del giudizio sul rifiuto espresso o tacito di rimborso.

1.3. Con una successiva sentenza questa Corte (Cass., sez. 5, 5 ottobre 2012, n. 17010; successivamente in termini Cass., sez. 5, 11 luglio 2019, n. 18604, sia pure in una ipotesi di istanza di “revisione” di risposta ad interpello, ritenuta inammissibile; anche Cass., sez. 6-5, 6 ottobre 2017, n. 23469; Cass., sez. 65, 11 dicembre 2019, n. 32425; Cass., 8 maggio 2019, n. 12150; Cass., sez. 5, 21 gennaio 2020, n. 1230) confermava la impugnabilità del provvedimento di rigetto della istanza di disapplicazione, ma con alcune importanti precisazioni. Si afferma, in particolare, l’esclusione della equiparazione tra “agevolazione fiscale” e “disapplicazione di norma antielusiva”, sicchè il provvedimento di rigetto della istanza di disapplicazione non può rientrare in alcune delle categorie di atti impugnabili di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19. La natura tassativa degli atti indicati nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, però, consente una interpretazione estensiva del “catalogo”, sino a ricomprendervi tutti gli atti adottati dell’ente impositore che, con l’esplicitazione delle concrete ragioni che li sorreggono, portino a conoscenza del contribuente una individuata pretesa tributaria (Cass., sez. 5, 8 maggio 2019, n. 12150).

Va precisato che vi è una mera facoltà di impugnazione del privato, il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa tributaria in un secondo momento. La mancata impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, non determina, in ogni caso, la non impugnabilità di questa pretesa, che può essere successivamente reiterata in uno degli atti tipici di cui allo stesso art. 19.

L’istanza di disapplicazione della normativa antielusiva rientra nel novero degli atti impugnabili per varie ragioni: l’istanza è obbligatoria per il privato; deve contenere la descrizione compiuta della fattispecie concreta; deve essere corredata della documentazione rilevante; è soggetta a richieste istruttorie; è volta ad ottenere un atto dell’amministrazione; le determinazioni del direttore regionale sono comunicate al richiedente mediante servizio postale, in plico raccomandato, con avviso di ricevimento, con provvedimento da ritenersi “definitivo”.

In particolare, la risposta all’interpello, positiva o negativa, costituisce il primo atto con cui l’amministrazione, a seguito di una fase istruttoria e di una valutazione tecnica, e con particolare garanzie procedimentali, porta a conoscenza del contribuente, in via preventiva, il proprio convincimento in ordine ad una specifica richiesta, relativa ad un determinato rapporto tributario, con l’immediato effetto di incidere, comunque, sulla condotta del soggetto istante in ordine alla dichiarazione dei redditi in relazione alla quale l’istanza è stata inoltrata. Sussiste, quindi, l’interesse ad impugnare da parte del contribuente ai sensi dell’art. 100 c.p.c., ai fini del controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’atto emesso dall’amministrazione. Ovviamente, l’omessa impugnazione dell’atto di diniego non pregiudica la posizione del contribuente che ad esso non ritenga di adeguarsi.

Se il provvedimento è negativo esso prelude, predeterminandone il contenuto, ad un eventuale avviso di accertamento relativo alla dichiarazione dei redditi presentata in difformità dalla risposta. La risposta all’interpello non impedisce alla stessa amministrazione di rivalutare, in sede di esame della dichiarazione dei redditi o dell’istanza di rimborso, l’orientamento (negativo) in precedenza espresso, nè al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale. Resta fermo che, invece, la risposta positiva del direttore regionale impedisce all’amministrazione l’applicazione della norma antielusiva oggetto di interpello, in applicazione del principio di tutela dell’affidamento, che ha diretto fondamento costituzionale e carattere generale ed immanente anche nell’ordinamento tributario nel quale trova espresso riconoscimento, in linea generale, nella L. n. 212 del 2000, art. 10.

Si è anche affermato che le risposte rese dall’Amministrazione finanziaria agli atti di interpello di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 11, non sono impugnabili, trattandosi di meri pareri che non incidono direttamente in danno del contribuente, salvo quelli resi a seguito di richiesta di disapplicazione di norme antielusive i quali, anche secondo la disciplina anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 156 del 2015, possono essere impugnati in quanto contenenti una compiuta pretesa tributaria (Cass., sez. 5, 20 dicembre 2018, n. 32962).

1.4. Questa Corte ha ritenuto non impugnabile solo il provvedimento di improcedibilità emesso dalla direzione regionale, perchè con tale tipologia di decisione l’amministrazione non manifesta il proprio convincimento sul merito della richiesta. Trattasi, dunque, non di provvedimento “definitivo”, ma di provvedimento solo “interlocutorio” (Cass., sez. 5, 13 aprile 2012, n. 5843). In quel caso il provvedimento della amministrazione aveva dichiarato improcedibile l’istanza di interpello ai sensi del D.M. n. 259 del 1998, art. 1, comma 3, per difetto delle indicazioni ed allegazioni essenziali al fine della correlativa valutazione di merito. L’istanza di disapplicazione era stata ritenuta dalla direzione regionale come “non presentata”, sicchè non si era in presenza di un provvedimento definitivo corredato da idonea motivazione, ma solo di un provvedimento di natura “interlocutoria”, che si limitava, in assenza di qualsiasi attività istruttoria o di valutazioni tecniche, a dichiarare l’istanza di interpello come “non presentata”, senza alcuna valutazione sul merito (in tal senso anche Cass., sez., 5, 11 dicembre 2019, n. 32425, che evidenzia la peculiarità della sentenza n. 5843/2012).

1.5. Nel caso in esame, invece, l’Agenzia delle entrate ha emesso un provvedimento che si è soffermato sul merito della controversia, non limitandosi ad una pronuncia di improcedibilità; sicchè, tale provvedimento è impugnabile dinanzi al giudice tributario per le ragioni sopra indicate.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione e/o falsa applicazione di legge: L. n. 724 dei 1994, art. 30, comma 4-bis, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8 ed D.M. Finanze 19 giugno 1998, n. 259, art. 1 (art. 360 c.p.c., n. 3)”, in quanto il giudice d’appello ha erroneamente ritenuto sussistenti circostanze oggettive non imputabili al contribuente, consistenti, nella specie, nella mancata concessione degli incentivi economici previsti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Così decidendo, la Commissione regionale non ha fatto buon governo delle norme che disciplinano la disapplicazione delle disposizioni antielusive, contenute nella L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30, comma 4-bis, nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 8 e del D.M. Finanze 19 giugno 1998, n. 259, art. 1. Tali norme prevedono espressamente che, in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi, la società interessata può chiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive mediante apposita istanza da presentare al direttore regionale delle entrate competente per territorio. Tali oggettive situazioni devono essere rappresentate dal contribuente mediante istanza di interpello. La direzione regionale dell’Agenzia delle entrate ha rigettato l’istanza di disapplicazione, in quanto le circostanze addotte dalla società erano ascrivibili a libere scelte imprenditoriali, non rientranti tra le oggettive situazioni che rendono impossibile il conseguimento dei ricavi. Va però osservato che, come chiarito dalla Circolare 9 luglio 2007, n. 44/E, al paragrafo 6.4., la disapplicazione della disciplina nei casi di società che richiedono contributi pubblici è possibile solo qualora sia dimostrato che la loro mancata erogazione costituisce motivo per cui non è stato conseguito l’ammontare minimo di ricavi imposti dalla norma, ma a condizione che i finanziamenti siano stati tempestivamente richiesti e che questi, già riconosciuti e imputati al bilancio della società che presenta l’istanza, non siano stati erogati per causa non imputabile alla società stessa. Pertanto, il mancato riconoscimento dei contributi richiesti non integra le oggettive situazioni di impossibilità, la cui sussistenza è richiesta per procedere alla disapplicazione della normativa antielusiva; sicchè il giudice d’appello è incorso nella violazione e falsa applicazione della normativa sopra richiamata.

2.1. Il motivo è fondato.

2.2. La L. n. 724 del 1994, art. 30, vigente nel periodo dal 1 gennaio 2008 al 31 dicembre 2015, prevede al comma 4-bis, che “in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonchè del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4, la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, comma 8”.

Alla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-ter, si prevede anche che “con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate possono essere individuate determinate situazioni oggettive, in presenza delle quali è consentito disapplicare le disposizioni del presente articolo, senza dover assolvere all’onere di presentare l’istanza di interpello di cui al comma 4-bis”.

Dal 1 gennaio 2016, il D.Lgs. n. 156 del 2015, art. 7, prevede al comma 4-quater, che “il contribuente che ritiene sussistenti le condizioni di cui al comma 4-bis, ma non ha presentato l’istanza di interpello prevista dal medesimo comma ovvero, avendola presentata, non ha ricevuto risposta positiva, deve darne separata indicazione nella dichiarazione dei redditi”.

Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, all’epoca vigente dispone, poi, che “le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti di imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi. A tal fine il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l’operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione. Con decreto del Ministro delle finanze da emanare ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 3, sono disciplinate le modalità per l’applicazione del presente comma”.

2.3. L’applicazione della disciplina delle società di comodo è subordinata, quindi, all’esito negativo di un test basato su specifici coefficienti matematici, finalizzato ad accertare la non operatività della presunta società di comodo. La determinazione della non operatività si ha quando l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi ordinari, imputati al conto economico, è inferiore a quello dei ricavi figurativi. Si tratta, dunque, di una mera operazione matematica incentrata sull’applicazione di un coefficiente stabilito per legge sul valore di taluni cespiti appartenente alla società. La determinazione dell’imponibile è effettuata sulla base di precisi criteri di legge, che escludono qualsiasi discrezionalità deduttiva, imponendosi sia in sede di accertamento, sia di determinazione giudiziale, salva la prova contraria da parte del contribuente (Cass., sez. 6-5, 5 luglio 2016, n. 13699; Cass., sez. 5, 18 aprile 2018, n. 9461). Dal possesso di alcuni beni, che costituisce allora il fatto noto, si risale, con un’operazione matematica, al reddito, che rappresenta il fatto ignoto, ascrivibile al contribuente.

Infatti, la L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1, all’epoca vigente, stabilisce che “agli effetti del presente articolo le società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, in nome collettivo e in accomandita semplice, nonchè le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, si considerano non operativi se l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, è inferiore alla somma degli importi che risultano applicando le seguenti percentuali…”.

In precedenza, invece, prima delle modifiche di cui al D.L. n. 223 del 2006, convertito in L. n. 296 del 2006, l’Ufficio finanziario che intendeva contestare ad una società il mancato raggiungimento del reddito minimo fissato dalla legge, doveva procedere in contraddittorio, con la richiesta, a pena di nullità, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezione della richiesta (L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4). Il contribuente, quindi, poteva dare dimostrazione della sussistenza delle oggettive situazioni di carattere “straordinario” che avevano reso impossibile il conseguimento del limite dei ricavi.

2.4. Con la nuova disciplina, successiva al D.L. n. 223 del 2006, quindi, viene lasciata, ovviamente, al contribuente la possibilità di fornire la prova contraria. Va verificato, quindi, in sede giudiziale il raggiungimento della prova a carico del contribuente della sussistenza delle ipotesi disapplicative delle presunzioni legali (Cass., 5, 29 ottobre 2020, n. 23990).

Si è affermato, sul punto, che, in materia di società di comodo, l'”impossibilità”, per situazioni oggettive di carattere straordinario (ma la locuzione “di carattere straordinario” non è più presente nella norma dal 1-1-2007, a seguito della L. Finanziaria 2007, art. 1, comma 109, lett. h), di conseguire il reddito presunto secondo il meccanismo di determinazione di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, la cui prova è a carico del contribuente, non va intesa in termini assoluti bensì economici, aventi riguardo alle effettive condizioni del mercato (Cass., sez.5, 20 giugno 2018, n. 16204; Cass., sez. 5, 3 novembre 2020, n. 24314). Si è precisato che, in tema di società di comodo, il meccanismo di determinazione presuntiva del reddito di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, superabile mediante prova contraria, non si pone in contrasto con il principio di “proporzionalità”, rispetto al quale, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza 13 marzo 2007, causa C-524/04) ha affermato che una normativa nazionale che si fondi sull’esame di elementi oggettivi e verificabili per stabilire se un’operazione consista in una costruzione di puro artificio ai soli fini fiscali, e quindi elusiva, va considerata come non eccedente quanto necessario per prevenire pratiche abusive, ove il contribuente sia messo in grado, senza oneri eccessivi, di dimostrare le eventuali ragioni commerciali che giustificano detta operazione (Cass., sez. 5, 20 giugno 2018, n. 16204).

2.5. L’esistenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonchè del reddito, deve essere, dunque, provata dal contribuente, purchè tali situazioni oggettive siano specifiche e, soprattutto, indipendenti dalla sua volontà (Cass., sez. 5, 21 ottobre 2015, n. 21358). In un caso, è stata annullata la decisione di merito, contraria alla contribuente, che aveva omesso ogni considerazione sulla crisi del settore automobilistico quale elemento determinante della scelta aziendale di riconversione della produzione nel settore dei pannelli solari (Cass., sez. 6-5, 12 febbraio 2019, n. 4019).

Tra le oggettive situazioni possono rientrare i casi in cui non sono state concesse le necessarie autorizzazioni amministrative (Cass., sez. 5, 30 dicembre 2019, n. 34642 in motivazione), pur essendo state tempestivamente richieste, oppure nel caso in cui venga svolta esclusivamente un’attività di ricerca propedeutica all’esercizio di un’altra attività produttiva, sempre che la stessa attività di ricerca non consenta, di per sè la produzione di beni e servizi e la conseguente realizzazione di proventi (in tal senso vedi Circolare dell’Agenzia delle entrate del 2 febbraio 2007, n. 5/E).

2.6. Le oggettive situazioni che rendono impossibile il conseguimento della soglia dei ricavi e degli altri elementi positivi di reddito non sussistono in caso di carenze “pianificatorie” aziendali o di scelte ed iniziative imprenditoriali libere, come in ipotesi di cessione dei beni aziendali in comodato d’uso gratuito (Cass., sez. 5, 7 dicembre 2020, n. 27976). E’ necessario, per esempio, in caso di inoperatività dipesa dalla mancata costruzione dell’immobile da utilizzare per lo svolgimento dell’attività, la prova che il ritardo sia stato determinato da ragioni estranee al contribuente e non riconducibili alla sua volontà (Cass., sez. 5, 30 dicembre 2019, n. 34642).

Anche il mero incremento del patrimonio, come l’acquisizione di un capannone, è di per sè irrilevante, in quanto il test di operatività e la presunzione di inoperatività agiscono su un diverso piano del reddito, nei termini della comparazione tra i ricavi effettivi del conto economico e i ricavi figurativi proiettati dagli assets. Pertanto, un’operazione “isolatamente” patrimoniale non esprime redditività societaria e, quindi, non confuta la natura fittizia dell’ente, potendo anzi darne la più limpida dimostrazione (Cass., sez. 5, 10 marzo 2017, n. 6195).

2.7. La ratio dell’istituto è quella di disincentivare il fenomeno dell’uso improprio dello strumento societario, utilizzato come involucro per raggiungere scopi, anche di risparmio fiscale, diversi – quale l’amministrazione dei patrimoni personali dei soci- da quelli previsti dal legislatore per tale istituto (Cass., sez. 5, 21 ottobre 2015, n. 21358). Per tale ragione, si fa riferimento a società “senza impresa”, o di mero godimento, e dunque “di comodo” (cfr. Circolare della Agenzia delle entrate, n. 5/E – premessa – “La disciplina fiscale delle società non operative è stata introdotta nel nostro ordinamento della L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30, allo scopo di contrastare le c.d. società di comodo e, in particolare, di disincentivare il ricorso all’utilizzo dello strumento societario come schermo per nascondere l’effettivo proprietario di beni, avvalendosi delle più favorevoli norme dettate per le società”).

Per la dottrina si ritiene che tale disciplina speciale sia sorta allo scopo esclusivo di gestire patrimoni, usufruendo del regime di deduzione analitica delle spese. Pertanto, si è fatto leva su un evidente intento antielusivo del legislatore, teso a penalizzare coloro che intendevano realizzare un risparmio di imposta utilizzando un’interposizione soggettiva nei patrimoni.

Per altra parte della dottrina, invece, le disposizioni hanno una giustificazione di tipo “antievasivo”, imperniata su una concezione normativa della società quale modulo organizzativo volto esclusivamente all’effettivo esercizio di un’impresa. Per altri ancora si tratta di una disciplina di contrasto e di svantaggio fiscale, in quanto finalizzata a combattere l’abnorme impiego dello strumento societario. Altra parte della dottrina fa riferimento ad un “polimorfismo normativo”, rispondendo la normativa a più funzioni. Non manca chi evidenzia che la disciplina in esame introduce elementi di tassazione patrimoniale nell’ambito delle imposte sul reddito, in casi in cui le società non producono redditi adeguati e beni posseduti.

Infine, si ritiene che le disposizioni speciali per le società di comodo siano finalizzate ad esigenze di cassa, assicurando un concorso alle spese pubbliche pure in assenza di realizzazione del presupposto.

2.8. La L. n. 724 del 1994, art. 30, ha, dunque, la finalità di fungere da antidoto al dilagare di società anomale, utilizzate quale involucro per il perseguimento di finalità estranee alla causa contrattuale, spesso prive di un vero e proprio scopo lucrativo e talvolta strutturalmente in perdita, al fine di eludere la disciplina tributaria. Si intende evitare l’utilizzo dello schema societario, quindi, per il conseguimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciale (Cass., sez. 5,3 novembre 2020, n. 24314).

Si è chiarito che la “potenzialità imprenditoriale”, comprovata dallo svolgimento o, quantomeno, dalla programmazione di un’attività commerciale finalizzata alla realizzazione di ricchezza, rappresenta l’elemento che condiziona la disciplina fiscale delle singole componenti reddituali e patrimoniale dell’impresa; sicchè la produttività, sia pure soltanto programmata ovvero in atto, ma con risultati reddituali inferiori agli standards legali detenuti dalla società costituisce condizione necessaria, ancorchè non sufficiente, per ottenere la disapplicazione della disciplina antielusiva sulle società di comodo (Cass., sez. 5, n. 31626 del 2019; Cass., sez. 5, 3 novembre 2020, n. 24314).

2.9. Nella specie, il giudice d’appello ha ritenuto sussistente la situazione oggettiva di impossibilità a raggiungere le soglie del test di operatività, di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis, in quanto la mancata concessione degli incentivi pubblici previsti per la produzione di energia da fonti rinnovabili avrebbe reso antieconomica la costruzione degli impianti, rendendo di fatto impossibile lo svolgimento dell’attività imprenditoriale e la realizzazione dei conseguenti ricavi.

Tale affermazione contrasta con la finalità della norma, che è stata dunque falsamente applicata. Infatti, lo svolgimento di attività economica non può dipendere in via esclusiva dall’ottenimento di incentivi economici pubblici, dovendo l’imprenditore pianificare la sua attività, predisponendo i mezzi di produzione nella prospettiva del raggiungimento del lucro oggettivo, inteso almeno come copertura dei costi con i ricavi, e con l’eventuale conseguimento di un utile di impresa. Al contrario, l’imprenditore che scommette tutto sulla presenza di incentivi economici pubblici per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili si colloca al di fuori di quella che è la nozione classica di imprenditore di cui all’art. 2082 c.c., ispirata alle categorie della professionalità e dell’organizzazione indirizzate allo svolgimento di “un’attività economica” al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Lo svolgimento di attività economica non può prescindere da quello che viene definito lucro oggettivo, che diverge da lucro soggettivo, che è il mero interesse soggettivo dell’imprenditore, ma che si sostanzia nella copertura dei costi con i ricavi dell’attività svolta. Imperniare, invece, l’attività dell’imprenditore esclusivamente sull’ausilio e sul supporto di incentivi economici pubblici denota una carenza di pianificazione di programmazione dell’attività economica. Il mancato ottenimento di quei benefici economici non può, dunque, costituire una situazione oggettiva in grado di disinnescare la presunzione legale di società di comodo, emersa a seguito del teste di operatività.

I medesimi principi trovano applicazione naturalmente anche nel contratto di società, di cui all’art. 2247 c.c., che dispone che con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di “un’attività economica” allo scopo di dividerne gli utili. La nozione di attività economica costituisce elemento comune a quella dell’imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 c.c..

In dottrina, si evidenzia che l’attività produttiva di cui all’art. 2247 c.c., presenta gli stessi caratteri dell’attività di impresa, di cui all’art. 2082 c.c., sicchè la società di regola esercita un’impresa. Tuttavia, possono esserci società senza impresa, non essendo richiesta per la prima la professionalità ed essendo possibile l’esercizio di professioni intellettuali (società tra professionisti).

Si è, comunque, chiarito che la presunzione legale relativa di operatività si fonda sull’id quod plerumque accidit in quanto, secondo una massima di esperienza, non vi è, di norma, effettività di impresa senza una continuità minima dei ricavi (Cass., sez. 5, 10 marzo 2017, n. 6195, in motivazione), con la precisazione che vi è un disfavore dell’ordinamento per l’incoerente impiego del modulo societario, ricavabile, oltre che dalla disciplina fiscale antielusiva, dal più generale divieto, desumibile dall’art. 2248 c.c. (comunione a scopo di godimento), di regolare la comunione dei diritti reali con le norme in materia di società. Ciò trova una spiegazione nella distonia tra l’interesse che la società di mero godimento diretto a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto di società è preordinato (Cass., sez. 5, 3 novembre 2020, n. 24314).

La subordinazione dello svolgimento dell’attività alla concessione di erogazioni pubbliche rappresenta una libera scelta dell’imprenditore e, quindi, nel caso di società, dell’amministratore o del consiglio di amministrazione, o di altri organi gestori della società (nei modelli monistici o dualistici), ma le conseguenze negative di tale opzione di attività di impresa sono direttamente collegate alla incapacità degli organi gestori, e non a situazioni oggettive di impossibilità di raggiungimento delle soglie determinate dal test di operatività. Peraltro, gli amministratori dovrebbero, comunque, poter fronteggiare situazioni prevedibili, come la mancata concessione di contributi pubblici, con un piano strategico alternativo.

Ciò trova una conferma anche nel D.Lgs. n. 14 del 2019, art. 4 c.c.i. (che entrerà in vigore il 1-9-2021), che prevede, al comma 2, che l’imprenditore collettivo deve adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’art. 2086 c.c., ai fini della tempestiva rilevazione della crisi e dell’assunzione di idonee iniziative.

Inoltre, l’art. 2086 c.c., è stato modificato dall’art. 375 c.c.i., già in vigore ai sensi dell’art. 389 c.c.i., comma 2, prevede che “l’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonchè di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.

Una pianificazione aziendale non può, dunque, prescindere dalla previsione di un piano strategico alternativo a quello principale. L’assenza di pianificazione aziendale va ascritta a responsabilità dell’organo gestorio, quindi alla governance della società, sicchè non può costituire una situazione oggettiva, non imputabile al contribuente, che determina l’impossibilità di raggiungere le soglie di redditività di cui al test di operatività.

Del resto, nella Circolare dell’Agenzia delle entrate, 9 luglio 2007, n. 44/E, al paragrafo 6.4., si evidenzia che “la normativa delle società non operative ha, tra l’altro, l’obiettivo di scoraggiare la permanenza in vita di società che, pur costituite senza finalità elusive, siano prive di obiettivi imprenditoriali concreti ed immediati, cioè di società che, in assenza di oggettive circostanze ostative, non svolgono alcuna attività”.

Non sono tollerati, dunque, errori gestionali ascrivibili alla negligenza o alla imperizia dell’amministratore della società.

Nel caso in esame, poi, ci si trova dinanzi ad una società di capitali a socio unico, costituita nel 2009, con richiesta di interpello antielusivo presentata in data 274-2012, con riferimento all’anno 2011.

La sterilizzazione di condotte antielusive, dunque, non costituisce l’unica ratio L. n. 724 del 1994, art. 30, avendo di mira tale disposizione, con finalità polifunzionale, come detto, anche ad impedire il proliferare di società anomale, che non svolgono “attività economica” e che sviano la causa contrattuale.

Si riconosce, invece, la sussistenza delle situazioni oggettive idonee a scardinare la presunzione legale derivante dal test operatività, nel caso in cui i finanziamenti siano stati tempestivamente richiesti ma gli stessi, già riconosciuti e imputati al bilancio della società che presenta istanza di disapplicazione, non siano stati erogati per causa non imputabile alla società medesima (in tal senso vedi Circolare della Agenzia delle entrate, 9 luglio 2007, n. 44/E, paragrafo 6.4.). Tuttavia, la soluzione adottata dalla Agenzia delle entrate in detta circolare, va adeguatamente perimetrata, nel senso che possono essere valorizzate anche circostanze di fatto relative alla sussistenza o meno dei requisiti di legge per ottenere il contributo pubblico, a prescindere poi dalla conclusione dell’iter procedimentale; insomma, non ci si può completamente disinteressare dell’iter amministrativo seguito e, soprattutto, delle ragioni del mancato riconoscimento delle agevolazioni. Va, dunque, precisato che va esaminata dal giudice di merito anche la condotta specifica tenuta dal contribuente, in ordine alla richiesta di incentivi pubblici, con riferimento anche alle ragioni della mancata concessione ed alla sussistenza dei requisiti richiesti dalla normativa agevolativa. Nessun automatismo è consentito tra il mancato riconoscimento degli incentivi pubblici e la natura di società di comodo, per mancato superamento del test di operatività.

2.10. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità e si atterrà al seguente principio di diritto:

“La richiesta di finanziamenti o contributi pubblici, poi non accordati, non costituisce una oggettiva situazione che sia in grado di disinnescare la presunzione legale di sussistenza della società di comodo desunta dal test di operatività, dovendosi comunque scrutinare anche le ragioni della mancata concessione e l’eventuale sussistenza dei requisiti in capo al contribuente. Tale situazione oggettiva di impossibilità a raggiungere le soglie di redditività scaturite dal test di produttività, può, quindi, essere integrata non solo nel caso in cui i contributi pubblici siano stati tempestivamente richiesti e riconosciuti, senza che siano stati erogati per causa non imputabile alla società stessa, ma anche se la mancata fruizione del contributo pubblico non sia imputabile all’imprenditore”.

P.Q.M.

accoglie il secondo motivo; rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2021

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