Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16674 del 04/08/2020
Cassazione civile sez. lav., 04/08/2020, (ud. 27/02/2020, dep. 04/08/2020), n.16674
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18286-2017 proposto da:
G.T., elettivamente domiciliato in ROMA, CIRCONVALLAZIONE
CLODIA 29, presso lo studio dell’avvocato BARBARA PICCINI, che lo
rappresenta e difende unitamente all’avvocato LARA CUCCI;
– ricorrente –
contro
FALLIMENTO SISTEMA TURISTICO LOCALE SARDEGNA S.R.L. – IN
LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PINEROLO, 22, presso lo
studio dell’avvocato MARCO ROSSI, che la rappresenta e difende
unitamente all’avvocato ANTONIO DE GIUDICI;
– controricorrente –
avverso la sentenza del TRIBUNALE di CAGLIARI, depositata il
08/06/2017 r.g.n. 10885/2015.
Fatto
RILEVATO
CHE:
1. con decreto 8 (comunicato il 13) giugno 2017, il Tribunale di Cagliari rigettava l’opposizione proposta, ai sensi della L. Fall., art. 98, da G.T. avverso lo stato passivo del Fallimento (OMISSIS) s.r.l., al quale il predetto era stato ammesso in via chirografaria per il solo importo di Euro 85.068,49, a titolo di compenso per l’attività di amministratore delegato, senza tuttavia il richiesto privilegio ai sensi dell’art. 2751bis c.c., n. 2, in quanto ritenuto non spettargli per la qualità della prestazione, così come i residui crediti, appunto esclusi, insinuati per il complessivo importo di Euro 814.311,51, di cui:
a) Euro 712.774,00, di cui Euro 16.346,00 per T.f.r., Euro 118.164,00 per retribuzioni, delle quali Euro 25.320,86 a titolo di ultime tre mensilità, Euro 305.960,00 per indennità risarcitoria a norma dell’art. 4, p.to 4 del contratto individuale di lavoro, Euro 272.303,80 a norma dell’art. 4, p.to 7 dello stesso contratto, in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751bis c.c., n. 1;
b) Euro 85.068,49, a titolo di compenso di amministratore delegato, appunto in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751bis c.c., n. 2;
c) Euro 16.469,22, a titolo di rimborso spese legali sostenute nel giudizio davanti alla Corte dei Conti) in via chirografaria;
2. esso negava l’esistenza del credito relativo al rapporto di lavoro subordinato (asseritamente dal 29 giugno 2004 al 1 febbraio 2008, in qualità di direttore generale e cessato per intimazione di licenziamento per giusta causa con lettera ricevuta il 1 febbraio 2008, impugnato di inesistenza e violazione dell’art. 4 del contratto individuale di lavoro e L. n. 300 del 1970, art. 7) in quanto escluso, alla luce delle scrutinate risultanze istruttorie, per insussistenza o comunque per mancato svolgimento della prestazione, non essendo stata dimostrata la diversità delle mansioni (genericamente riferite a studio, individuazione, attribuzione del “valore turistico” di ogni singolo “contesto turistico omogeneo” individuato da (OMISSIS) s.r.l. e altre enumerate ai punti da 2. a 11. di pgg. 4 e 5 del decreto) da quelle della carica sociale ricoperta; e neppure l’effettivo svolgimento di attività lavorativa soggetta al potere direttivo, di controllo e disciplinare della società, senza neppure altri dipendenti (unico lavoratore essendo il creditore, quale direttore generale, oltre che amministratore per carica sociale, delegato dal Presidente del C.d.A.), nè alcuna organizzazione aziendale (in mancanza di beni, immobilizzazioni o uffici e persino di una propria sede), posta in liquidazione con assemblea straordinaria del 18 dicembre 2006, in esito alla richiesta di scioglimento dalla Regione Sardegna (socio unico di (OMISSIS)) con la comunicazione del 9 settembre 2004;
3. il Tribunale escludeva anche il credito in via chirografaria di Euro 16.469,22, in difetto dei presupposti stabiliti dal D.L. n. 203 del 2005, art. 10bis, comma 10 (in ordine al parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato sulle richieste di rimborso delle spese legali nel giudizio davanti alla Corte dei Conti per la difesa del prosciolto nel merito), esclusi dalla stessa decisione della Corte dei Conti;
4. esso ravvisava infine sussistere i presupposti (di totale soccombenza, quanto meno di colpa grave nella proposizione del giudizio e di danno risarcibile per disagio comportato dalla resistenza) di temerarietà della lite, per la condanna risarcitoria dell’opponente, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., (rectius: 1) comma 3;
5. avverso tale decreto G.T., con atto notificato il 13 luglio 2017, ricorreva per cassazione con nove motivi, cui il Fallimento resisteva con controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 380bis 1 c.p.c..
Diritto
CONSIDERATO
CHE:
1. il ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2094,2095,2697 c.c., per erronea attribuzione al ricorrente dell’onere della prova in concreto della subordinazione, nonostante la sua carica di amministratore della società nominato direttore generale nell’atto costitutivo e assunto con un contratto a tempo indeterminato e pieno dalla società come proprio dipendente con posizione funzionale di direttore generale (primo motivo); violazione o falsa applicazione degli artt. 2094,2095,1173,1372,1324,2103,1382 c.c., per mancata considerazione della natura del contratto di lavoro di fonte di obbligazioni vincolanti per le parti, comportante l’eventuale obbligo della parte datrice di pagamento delle retribuzioni, e non già l’inesistenza del rapporto, qualora inadempiente nell’assegnazione al lavoratore delle mansioni per le quali lo abbia assunto (secondo motivo); violazione o falsa applicazione degli artt. 1206,2126 c.c., per il richiamo da parte del Tribunale di arresti giurisprudenziali, in tema di corrispettività tra prestazione e retribuzione, non pertinenti qualora il rapporto di lavoro non sia mai stato sospeso, come nel caso di specie (terzo motivo); violazione o falsa applicazione degli artt. 2094 e 2095 c.c., per la mancanza di comparazione delle proprie deleghe di amministratore con le mansioni attribuitegli come direttore generale, con valutazione della (solo parziale e limitata) loro sovrapponibilità, ritenuta erroneamente ostativa alla configurazione di un rapporto di subordinazione (quarto motivo); violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., anche in riferimento all’art. 1324 c.c., per ritenuta sovrapposizione delle mansioni subordinate di “assistenza e supporto dei sub sistemi turistici locali territoriali “, per effetto di un’erronea interpretazione delle funzioni delegate sub lett. c) del verbale del C.d.A. 11 giugno 2004, consistenti in “cura di rapporti e rappresentanza della società con i sub sistemi turistici locali territoriali”, in quanto espressione di un atto negoziale da interpretare (quinto motivo);
2. tutti i suindicati motivi sono congiuntamente esaminabili, per ragioni di stretta connessione individuabili nella convergenza delle censure, sotto i diversi profili variamente declinati, sulla contestazione dei criteri adottati per l’individuazione corretta della natura della prestazione concretamente resa dal ricorrente;
3. essi sono infondati;
4. occorre preliminarmente distinguere il contratto, fonte di obbligazioni reciproche tra le parti dal rapporto di lavoro, che deve effettivamente realizzare nei suoi elementi costitutivi, per essere tale, le previsioni negoziali: ed è insegnamento giurisprudenziale assolutamente consolidato della prevalenza, rispetto alla formale qualificazione operata dalle parti in sede di conclusione del contratto individuale, del comportamento in concreto tenuto dalle stesse nell’attuazione del rapporto: essendo la qualificazione, seppure rilevante, tuttavia non determinante e pertanto non esimendo il giudice dal puntuale accertamento del comportamento delle parti nell’esecuzione; e ciò perchè idoneo, nei rapporti di durata, ad esprimere sia una diversa effettiva volontà contrattuale, sia una nuova diversa volontà (Cass. 23 luglio 2004, n. 13872; Cass. 25 ottobre 2004, n. 20669); sicchè, occorre fare riferimento ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione, piuttosto che alla volontà espressa dalle parti al momento della stipula del contratto di lavoro (Cass. 15 giugno 2009, n. 13858; Cass. 9 agosto 2013, n. 19114);
4.1. è poi risaputo che la valutazione degli elementi probatori, ai fini della qualificazione del rapporto di collaborazione personale in termini di subordinazione, sia attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo di congruità della motivazione del relativo apprezzamento: a tal fine, essendo sufficiente che da questa risulti la formazione del convincimento attraverso la valutazione degli elementi acquisiti considerati nel loro complesso, senza necessità di una specifica analisi, nè confutazione degli elementi ritenuti recessivi rispetto a quelli valutati di valore prevalente (Cass. 29 maggio 2008, n. 14371);
4.2. le qualità di amministratore e di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali ben possono essere cumulate, purchè si accerti l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale; ed è necessario che colui che intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato fornisca la prova del vincolo di subordinazione, e pertanto dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale rivestita, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società (Cass. 6 novembre 2013, n. 24972; Cass. 30 settembre 2016, n. 19596);
4.3. il Tribunale ha esattamente applicato i principi di diritto suenunciati (all’ultimo capoverso di pg. 7 del decreto), in esito ad un accertamento in fatto, congruamente argomentato (dal secondo capoverso di pg. 8 all’ultimo di pg. 10 del decreto); sicchè, ogni altra considerazione svolta dal ricorrente rimane assorbita.
5. il ricorrente deduce quindi violazione o falsa applicazione degli artt. 244 e 115 c.p.c., art. 24 Cost. quale error in procedendo, per la mancata ammissione di prove orali idonee a dimostrare gli elementi costitutivi del rapporto di subordinazione, in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale di legittimità (sesto motivo); violazione o falsa applicazione degli artt. 115,116,210 c.p.c. quale error in procedendo, per addebito al ricorrente, in luogo di una decisione resa in base alle prove offerte non ammesse, dell’assenza di prove documentali, neppure richieste in via di esibizione, in contrasto con il principio di inesistenza di una gerarchia tra le prove (settimo motivo);
6. anch’essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono infondati;
7. non si configurano, infatti, i vizi denunciati, posto che in materia di ricorso per cassazione, mentre l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito (e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare) non è mai sindacabile in sede di legittimità, l’errore di percezione, vertendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che abbia formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 115 medesimo codice, che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte (Cass. 12 aprile 2017, n. 9356; Cass. 24 ottobre 2018, n. 27033);
7.1. l’art. 116 c.p.c., comma 1 consacra poi, come noto, il principio del libero convincimento del giudice, al cui prudente apprezzamento (salvo alcune specifiche ipotesi di prova legale) è pertanto rimessa la valutazione globale delle risultanze processuali; in ciò egli è peraltro tenuto a indicare gli elementi sui quali fondi il proprio convincimento nonchè l’iter seguito per addivenire alle conclusioni raggiunte, ben potendo al riguardo disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata; e tale apprezzamento è insindacabile in cassazione in presenza di congrua motivazione, immune da vizi logici e giuridici (Cass. 13 luglio 2004, n. 12912);
7.2. in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, che è posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera pertanto interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940);
7.3. non può allora porsi in sede di legittimità una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. per erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma rispettivamente solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. 27 dicembre 2016, n. 27000; Cass. 17 gennaio 2019, n. 1229);
7.4. nè infine può essere denunciata per cassazione l’omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova, se non per vizio di motivazione e soltanto nel caso in cui abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che abbiano determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. 17 maggio 2007, n. 11457; Cass. 7 marzo 2011, n. 5377; Cass. 7 marzo 2017, n. 5654; Cass. 17 giugno 2019, n. 16214): il che non si verifica nel caso di specie;
8. il ricorrente deduce ancora violazione o falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014, art. 3 e art. 4, comma 5, lett. c) per eccessività della liquidazione delle spese giudiziali per la fase istruttoria (Euro 10.000,00), di fatto inesistente o estremamente limitata, in quanto sulla base delle tabelle verosimilmente del giudizio ordinario e non del lavoro (ottavo motivo);
9. esso è infondato;
10. occorre premettere l’applicabilità all’opposizione allo stato passivo delle norme del rito ordinario e non già del rito speciale del lavoro, anche se in esso si facciano valere diritti derivanti da un rapporto di lavoro subordinato con l’impresa assoggettata alla procedura concorsuale (Cass. 3 maggio 2005, n. 9163, in specifico riferimento a liquidazione coatta amministrativa di un creditore escluso, ai sensi del combinato disposto della L. Fall., artt. 209 e 98); in particolare, l’art. 421 c.p.c. sui poteri istruttori ufficiosi del giudice, in quanto norma relativa al rito del lavoro, non trova applicazione nel giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento, ai sensi dell’art. 98 che è retto dalle norme che regolano il giudizio ordinario, anche se si facciano valere diritti derivanti da un rapporto di lavoro subordinato con l’impresa assoggettata alla procedura concorsuale (Cass. 19 maggio 2006, n. 11856; Cass. 30 settembre 2016, n. 19596);
10.1. la liquidazione delle spese processuali rientra poi nei poteri discrezionali del giudice del merito, sicchè possono essere denunziate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della soccombenza o liquidazioni che non rispettino le tariffe professionali, con obbligo in tal caso del deducente di indicare le singole voci contestate, in modo da consentire il controllo di legittimità senza necessità di ulteriori indagini (Cass. 4 luglio 2011, n. 14542);
10.2. è allora insindacabile la liquidazione compiuta dal Tribunale, in applicazione dei parametri tariffari stabiliti per il rito ordinario dal decreto ministeriale denunciato (e con gli incrementi percentuali congruenti con il valore della controversia, ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, art. 6) per la fase istruttoria (da intendere comprensiva delle attività difensive puntualmente indicate dall’art. 4, comma 5, lett. c D.M. cit.): che è del tutto equiparabile a quella propria dell’ordinario giudizio di cognizione anche nei procedimenti camerali (Cass. 28 luglio 2004, n. 14200, con specifico riguardo al giudizio per la dichiarazione di paternità e di maternità naturale di minori davanti al tribunale per i minorenni), quale quello di opposizione allo stato passivo, a seguito delle riforme operate dai D.L. n. 5 del 2006 e D.L. n. 169 del 2007, in quanto giudizio a cognizione piena (Cass. 4 giugno 2012, n. 8929; Cass. 31 luglio 2017, n. 19003);
11. il ricorrente deduce infine violazione o falsa applicazione dell’art. 96, comma 3 (rectius: 1), per non avere il Tribunale esplicitato il requisito di consapevolezza propria di proporre domande infondate, nè del proprio difetto di ordinaria diligenza, così sovrapponendo e assorbendo l’uno nell’altro i requisiti soggettivo ed oggettivo (nono motivo);
12. esso è inammissibile;
12.1. in via di premessa, occorre chiarire che il tribunale ha disposto la condanna per lite temeraria su domanda della parte (“non osta infatti all’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da lite temeraria… “: così al primo capoverso di pg. 12 del decreto), avendone valutato i presupposti a norma dell’art. 96 c.p.c., comma 1 (al p.to 6 di pgg. 11 e 12 del decreto). La condanna ai sensi del comma 3 della stessa disposizione è invece volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, a tutela degli interessi della parte vittoriosa e a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della potestas agendi con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sè legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte: con la conseguenza che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede nè la domanda di parte nè la prova del danno (Cass. s.u. 13 settembre 2018, n. 22405);
12.2. la responsabilità aggravata a norma dell’art. 96 c.p.c., ai fini della condanna al risarcimento dei danni, esige piuttosto l’accertamento di requisiti quali l’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ovvero in assenza della normale prudenza, implicando un apprezzamento di fatto (compiuto, come detto, dal Tribunale) non censurabile in sede di legittimità, salvo il controllo di sufficienza della motivazione per i ricorsi proposti avverso sentenze depositate prima dell’11 settembre 2012 (Cass. 29 settembre 2016, n. 19298; Cass. 12 gennaio 2010, n. 327);
13. pertanto il ricorso deve essere rigettato, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna G.T. alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 20.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 27 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2020