Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16673 del 11/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 11/06/2021, (ud. 03/03/2021, dep. 11/06/2021), n.16673

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. MELE Maria Elena – Consigliere –

Dott. VECCHIO Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4740-2016 proposto da:

FREEHOUSE SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GAVINANA 4,

presso lo studio dell’avvocato DOMENICO ANGELINI, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato MICHELE TUMMINELLI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3305/2015 della COMM. TRIB. REG. LOMBARDIA,

depositata il 15/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

03/03/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La società Freehouse impugnava la rettifica delle rendite indicate nella dichiarazione Docfa con riferimento all’unità immobiliare, sita in (OMISSIS), presentata a seguito di una diversa distribuzione degli spazi interni, sul presupposto che era stato applicato il medesimo valore unitario al mq sulla superficie complessiva deducendo in percentuale il valore dell’area di posa, violando il disposto del D.P.R. n. 1142 del 1949, artt. 8,38 e 30, che individuano i criteri per le unità a destinazione speciale, eccependo l’illegittima applicazione del saggio di fruttuosità del 3% anzichè quello del 2% obbligatorio per gli opifici censiti in categoria D come disposto dal cit. art. 29.

La CTP di Como respingeva il ricorso.

Proposto appello dalla contribuente, la CTR della Lombardia, nel confermare la sentenza di primo grado, rigettava il gravame evidenziando che il cambio di destinazione da produttiva ad attività commerciale aveva comportato la modifica delle caratteristiche dell’immobile che presentando rifiniture superiori alle precedenti avevano anche un superiore valore commerciale.

Avverso tale pronuncia, la società propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, illustrati nelle memorie depositate in prossimità dell’udienza di trattazione.

L’amministrazione finanziaria replica con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2. Con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, nonchè la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., per avere i giudici regionali affermato che “la variazione della destinazione era stata operata dall’ufficio” e “qualificato” i capannoni come uffici commerciali negandone la destinazione speciale, così concependo una motivazione “perplessa” e incomprensibile, sussistendo incompatibilità logica tra le premesse e la conclusione, nella parte in cui si afferma la legittimità dell’accertamento operato dall’Agenzia perchè il valore unitario attribuito alle due unità immobiliari sarebbe conforme ad altre rendite attribuite ad immobili posti nello stesso complesso immobiliare, senza considerare che il valore unitario del capitale fondiario relativo alle rendite delle unità, come proposta con la Docfa, era già conforme alle rendite attribuite ad immobili simili posti nello stesso complesso immobiliare.

3. Il secondo motivo che prospetta la violazione del D.P.R. n. 1142 del 1949, artt. 8,28,30,53 e 56, con riferimento al D.M. n. 701 del 1994, art. 1, ed al D.P.R. n. 1142 del 1949, art. 31, ex art. 360 c.p.c., n. 3, lamenta la ritenuta legittimità dell’accertamento emesso dall’Ufficio ancorchè la disciplina normativa preveda che per gli immobili aventi destinazione speciale la rendita catastale si accerta con stima diretta per ogni singola unità, includendo tra detti immobili gli opifici costruiti per le esigenze di attività industriale o commerciale (categorie D)).

Al contrario, la CTR avrebbe confermato la legittimità della maggiore rendita attribuita sul presupposto della destinazione dell’opificio “ad uffici commerciali”, in contrasto con quanto emerge dal medesimo avviso di accertamento opposto, laddove alle pagine 3 e 4 i due fabbricati sono classati in cat. D/8 (immobili a destinazione speciale) corrispondente a fabbricati costruiti o adattati per le speciali esigenze di un’attività commerciale e non suscettibili di destinazione senza radicali trasformazioni. Il riferimento agli uffici commerciali non trova riscontro normativo nella categoria D, essendo i suddetti immobili a destinazione ordinaria con una tale destinazione inclusi nella cat. C), equiparando erroneamente ai fini della determinazione della rendita, gli immobili a destinazione speciale a quelli a destinazione ordinaria.

4.La prima censura è destituita di fondamento.

Occorre premettere che, dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012 – applicabile alla sentenza impugnata in quanto pubblicata successivamente alla data 11.9.2012 di entrata in vigore della norma modificativa-, non trova più accesso al sindacato di legittimità della Corte il vizio di mera insufficienza od incompletezza logica dell’impianto motivazionale per inesatta valutazione delle risultanze probatorie, qualora dalla sentenza sia evincibile una “regula juris” che non risulti totalmente avulsa dalla relazione logica tra “premessa (in fatto )- conseguenza (in diritto)” che deve giustificare il “decisum”. Rimane quindi estranea al vizio di legittimità “riformato”, tanto la censura di “contraddittorietà” della motivazione (peraltro attinente ad una incompatibilità logica intrinseca al testo motivazionale, in quanto determinata dalla reciproca elisione di affermazioni oggettivamente contrastanti, non altrimenti risolvibile, che impedisce di discernere quale sia il diritto applicato nel caso concreto: cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 25984 del 22/12/2010), quanto la censura che, anteriormente alla modifica della norma processuale, veicolava il vizio di “insufficienza” dello svolgimento argomentativo, con il quale veniva imputato al Giudice di merito di avere tratto, dal materiale probatorio esaminato, soltanto alcune delle conseguenze logiche che il complesso circostanziale avrebbe consentito di desumere, pervenendo ad un accertamento meramente parziale della “res litigiosa”, ovvero di non avere considerato elementi costituenti “fatti secondari” che -se pur non decisivi, da soli, a fornire la prova contraria favorevole al ricorrente tuttavia- erano idonei ad inficiare o quanto meno a revocare in dubbio la efficacia dimostrativa (dei fatti costitutivi della pretesa) attribuita ai diversi elementi indiziari utilizzati dal Giudice a fondamento della decisione, ovvero ancora erano idonei ad evidenziare eventuali lacune o salti logici dello stesso ragionamento rispetto alla corretta applicazione dei criteri induttivo-deduttivo della logica formale.

La nuova formulazione del vizio di legittimità, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012), ha infatti limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità(cfr. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016; n. 23940/2017; n. 22598/2018). Consegue che, se per un verso deve ritenersi oramai esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, è pur vero che, per altro verso, il provvedimento il cui apparato argomentativo si colloca al di sotto della predetta soglia “minima costituzionale” è censurabile per omessa osservanza dell’obbligo di motivazione affermato dall’art. 111 Cost., comma 6, e dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, concretando tale omissione una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (v. Sez. 3, Sentenza n. 7402 del 23/03/2017, Rv. 643692).

Nel caso in esame la motivazione risulta idonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione mancando il vizio della contraddittorietà rappresentata dal contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili ravvisabili all’interno della decisione e non tra affermazioni motivazionali ed atti del giudizio.

5. La seconda censura risulta meritevole di accoglimento.

La ricorrente aveva denunciato sin dal ricorso originario la determinazione della rendita catastale secondo la metodologia indicata dalla normativa per le unità immobiliari a destinazione ordinaria, indicando valori al metro quadro superiori ai prezzi di compravendita riferiti ai capannoni, siti in (OMISSIS), nel periodo 1989, denunciando anche l’erronea applicazione del saggio di fruttuosità del 3% anzichè quello pari al 2%, obbligatorio per gli opifici censiti in cat. D) come disposto dal D.P.R. n. 1142 del 1949, art. 29, e del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, comma 4, nonchè dal D.M. 14 dicembre 1991, con la conseguenza che lo scostamento delle stime calcolate dall’Erario trovava fondamento in una erronea applicazione del procedimento estimativo.

Secondo quanto prescritto dal R.D.L. n. 652 del 1939, art. 10, conv. in L. n. 1249 del 1939: “la rendita catastale delle unità immobiliari costituite da opifici ed in genere dai fabbricati di cui alla L. 8 giugno 1936, n. 1231, art. 28, costruiti per le speciali esigenze di una attività industriale o commerciale e non suscettibili di una destinazione estranea alle esigenze suddette senza radicali trasformazioni, è determinata con stima diretta per ogni singola unità. Egualmente si procede per la determinazione della rendita catastale delle unità immobiliari che non sono raggruppabili in categorie e classi, per la singolarità delle loro caratteristiche”. In base al D.P.R. n. 1142 del 49, art. 30 (Regolamento per la formazione del nuovo catasto edilizio urbano): “Le tariffe non si determinano per le unità immobiliari indicate nell’art. 8. Tuttavia la rendita catastale delle unità immobiliari appartenenti a tali categorie si accerta ugualmente, con stima diretta per ogni singola unita”.. Ai fini della determinazione del reddito dei fabbricati, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 37, stabilisce che: “Il reddito medio ordinario delle unità immobiliari è determinato mediante l’applicazione delle tariffe d’estimo, stabilite secondo le norme della legge catastale per ciascuna categoria e classe, ovvero, per i fabbricati a destinazione speciale o particolare, mediante stima diretta”.

Quanto alla metodologia utilizzata dall’Agenzia, occorre premettere che la unità immobiliare di cui è causa, costituisce un impianto a destinazione commerciale, censito in categoria D/8 non suscettibile di diversa destinazione senza radicali trasformazioni (rientrante quindi nella ipotesi di cui al R.D.L. n. 652 del 1939, art. 10), e pertanto non valutabile tramite la classificazione tariffaria, bensì con stima diretta; che, a tal fine, la stima, secondo il D.P.R. n. 1142 del 1949, deve essere effettuata con riferimento ai “prezzi correnti per la vendita di unità immobiliari analoghe” ovvero, in subordine, secondo le regole dell’estimo catastale, ovvero con i parametri del capitale fondiario (D.P.R. cit., art. 28), e del saggio di interesse (art. 29). Per tale tipo di categoria il D.M. Finanze 14 dicembre 1991 (recante determinazioni dei moltiplicatori da applicare a partire dal 1992 alle rendite catastali dei fabbricati e dei terreni per stabilire il valore minimo da dichiarare ai fini della imposta di registro, della imposta sulle successioni e donazioni, e delle connesse imposte ipotecarie e catastali, e dell’imposta comunale 5 sull’incremento di valore degli immobili) prevede, all’art. unico, comma 2, che il moltiplicatore di cento volte di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, comma 4, al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 34, comma 5, e al D.L. n. 70 del 1988, art. 12, comma 1, conv. in L. n. 154 del 1988, per le unità immobiliari classificate nei gruppi D ed E, si applica all’ammontare della nuova rendita attribuita per stima diretta, nella misura pari, rispettivamente, a 50 ed a 34. Detti coefficienti trovano impiego tutte le volte in cui la liquidazione della imposta richieda di determinare il valore degli immobili mediante utilizzo della rendila catastale (a tal fine il moltiplicatore si applica, nella misura prevista dal decreto, all’ammontare della rendita catastale, periodicamente rivalutata), e di conseguenza dalla entità di tali moltiplicatori si ricava, in senso inverso, che il saggio di capitalizzazione delle rendite catastali, quale fa riferimento il D.P.R. 1 dicembre 1949, n. 1142, art. 2, per la determinazione del capitale fondiario, è rappresentato per le categorie sopra indicate rispettivamente dal 2% e dal 3%.

La variazione della rendita presuppone dunque la “stima diretta” degli immobili effettuata sulla base dei valori di mercato capitalizzati con il relativo saggio, ai sensi del D.P.R. n. 1142 del 1949, artt. 29 e 30, applicando la formula estimale per la determinazione della rendita catastale secondo la formula R=r x V dove “r” rappresenta il saggio di fruttuosità, V il valore dei cespiti riferiti al biennio indicato ed il saggio di fruttuosità è indicato nella misura del 2%, con riferimento specifico ai singoli componenti dei cespiti (Cass. n. 5362/2020, in motiv.; Cass. n. 12743 del 23/05/2018Cass. n. 6633/2019; Cass. n. 8529/2019).

La giurisprudenza di questa Corte è univoca nel riconoscere che il saggio di capitalizzazione della rendita, in quanto uniformemente ed autoritativamente determinato per ciascun gruppo di categorie catastali, non è suscettibile di essere modificato dall’amministrazione nell’esercizio del suo potere discrezionale.

Va quindi ribadito il principio di diritto secondo cui “in tema di determinazione della rendita catastale dei fabbricati a fini fiscali, l’Agenzia del Territorio non dispone di alcun potere discrezionale nella individuazione del saggio di interesse da applicare al capitale fondiario, al quale fa riferimento il D.P.R. 1 dicembre 1949, n. 1142, art. 29, in quanto lo stesso deve essere determinato, anche per gli immobili classificati nei Gruppi D ed E, in misura fissa ed inversa rispetto ai moltiplicatori previsti dal D.M. 14 dicembre 1991, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che, per detti immobili, la rendita deve essere determinata per stima diretta, ai sensi del D.P.R. n. 142 del 1949, art. 30, in quanto ai fini fiscali il valore degli immobili si determina, in generale, applicando all’ammontare delle rendite risultanti in catasto, periodicamente rivalutate, i moltiplicatori previsti dal D.M. 14 dicembre 1991, richiamato dal D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 52, di quali appunto si ricava in senso inverso il saggio di capitalizzazione” (Cass. n. 6554/2020; Cass. n. 14399/2017; n. 25555/2014; n. 27980/2011; n. 5843/2011; n. 133/2006; n. 10361/2006; n. 9056/2005; n. 12446/2004; n. 10037/2002).

Nella fattispecie il giudicante si è limitato ad affermare la legittimità dell’avviso di accertamento sulla base della variazione della destinazione d’uso da attività industriale a commerciale e delle “migliorie” apportate, dimenticando che il criterio di stima della rendita è identico per gli immobili a destinazione speciale sia in quanto destinati ad attività industriale che ad attività commerciale. E, soprattutto, ha errato la CTR a qualificare gli immobili come uffici commerciali, senza considerare invece la classificazione catastale in Cat. D). I dati catastali del singolo fabbricato, quali risultanti dal catasto, costituiscono un fatto oggettivo, ai fini dell’attribuzione della rendita. Conclusivamente, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti, la causa va decisa nel merito con l’accoglimento dell’originario ricorso della società contribuente.

P.Q.M.

La Corte:

Accoglie il ricorso; Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso della contribuente;

condanna l’Agenzia delle Entrate alla refusione delle spese sostenute dalla ricorrente che liquida in Euro 3.000,00, oltre rimborso forfettario ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale della quinta sezione civile della Corte di cassazione tenuta da remoto, il 3 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2021

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