Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16669 del 29/07/2011

Cassazione civile sez. trib., 29/07/2011, (ud. 08/06/2011, dep. 29/07/2011), n.16669

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.L., “in qualità di socio della cessata società

ELLE.A. S.N.C. DI PAMPANA LORETTA & C.” elettivamente domiciliata

in

Roma, via G. Pisanelli n. 4, presso lo studio dell’avv. GIGLI

Giuseppe, che la rappresenta e difende, unitamente all’avv. Giuseppe

Pugi;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Toscana, sez. 26^, n. 8 del 22 marzo 2005;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

8.6.2011 dal consigliere relatore dott. Aurelio Cappabianca;

udito, per la ricorrente, l’avv. Giuseppe Pugi;

udito, per l’Agenzia controricorrente, l’avvocato dello Stato Barbara

Tidore;

udito il P.M., in persona del sostituto procuratore generale dott.

Zeno Immacolata, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

P.L. e D.L., quali soci della Elle A. s.n.c., proposero ricorso avverso avviso di rettifica iva per l’anno 1994, emesso dall’Agenzia a carico della società sul presupposto della fatturazione di operazioni inesistenti e dell’indebita detrazione dell’iva correlativamente annotata.

Deceduto il D. e proseguita la causa ad iniziativa della P., l’adita commissione tributaria accolse il ricorso, con decisione, che, in esito all’appello dell’Agenzia, fu, tuttavia, riformata dalla commissione regionale.

Con decisione in camera di consiglio, i giudici di appello, respinto il gravame dell’Agenzia quanto ai motivi di carattere processuale, motivarono la propria decisione, in base al rilievo che l’inesistenza della operazioni certificate dalle fatture contestate risultava attestata dalla riscontrata natura di “cartiere” dei soggetti emittenti e dalla considerazione che idonea prova contraria non poteva essere ritenuta la documentazione relativa agli asseriti pagamenti a mezzo assegni bancari.

Avverso la decisione di appello, P.L., nella qualità in epigrafe, ha proposto ricorso per cassazione in tre motivi.

L’Agenzia ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso – deducendo “violazione di norme del procedimento e nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 61 e art. 33, comma 1)” – la contribuente censura la decisione impugnata, per aver discusso l’appello in camera di consiglio, non dando seguito alla richiesta di discussione in pubblica udienza avanzata dall’Agenzia, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 33, comma 1, nell’atto di appello notificato.

Posto che la stessa contribuente, qui ricorrente, riferisce che l’istanza disattesa era stata proposta dall’appellante Agenzia e non da essa appellata e che la discussione dell’appello avvenne in assenza dei difensori di entrambe le parti, la doglianza si rivela del tutto infondata.

Deve, invero, osservarsi che la trattazione del ricorso in camera di consiglio invece che in pubblica udienza, pur in presenza d’istanza in tal senso di una delle parti, comporta la nullità della sentenza che ne consegue soltanto ove si traduca in violazione del diritto di difesa o del contraddittorio (cfr. Cass. 10678/09 20852/05), cosa che certamente non può configurarsi nei confronti della parte che detta istanza non ha proposto se (come nel caso di specie) nemmeno l’altra è stata ammessa alla discussione.

Con il secondo motivo di ricorso – deducendo “nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36 …)” – la contribuente deduce il difetto assoluto di motivazione.

La doglianza è infondata, giacchè la motivazione delle decisione impugnata, seppur sintetica, esprime comunque un chiaro e coerente percorso argomentativo.

Con il terzo motivo di ricorso – deducendo “violazione di norme di diritto e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia in relazione al D.P.R. 26/20/1972, n. 633, art. 19 in punto di detrazione dell’iva pagata e all’art. 2697 c.c., in punto onere della prova” – la contribuente lamenta che solo il malgoverno delle risultanze processuali e del criterio di cui all’art. 2697 c.c. ha indotto i giudici di appello ad escludere l’effettiva ricorrenza delle operazioni relative alle contestate fatture.

Anche tale doglianza è infondata.

A prescindere dai profili risolventesi in inammissibile censura dell’avviso di rettifica opposto piuttosto che della sentenza impugnata, deve, invero, considerarsi che essa si sostanzia essenzialmente: a) nel rilievo che l’affermata inesistenza di effettive operazioni con le società emittenti delle fatture contestate, pur in presenza di registrazione delle fatture medesime e di contabilizzazione dei correlativi mezzi di pagamento (assegni bancari), comporterebbe la violazione dell’ordinario criterio di distribuzione dell’onere della prova sancito dall’art. 2697 c.c., giacchè in base a detto criterio, a fronte dell’avvenuta documentazione del pagamento, sarebbe stato onere dell’Agenzia provare la restituzione degli importi correlativi; b) nel richiamo di giurisprudenza della C.G. (sent. 12.1.2006 in C – 354/03 e 355/03), secondo cui il diritto di dedurre l’iva pagata a monte non è pregiudicato se, nella catena delle cessioni, un’operazione precedente o successiva a quella realizzata sia inficiata da frode all’imposta.

Entrambi i profili della doglianza sono privi di pregio.

Quanto al primo, occorre, invero, osservare, in linea di principio, che la giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato che, qualora l’Amministrazione fornisca validi elementi, anche meramente presuntivi (purchè gravi, precisi e concordanti), atti ad asseverare la contabilizzazione di fatture emesse per operazioni inesistenti, con conseguente indebita deduzione dei costi ivi esposti e detrazione dell’iva correlativamente annotata, si configurano i presupposti per l’accertamento induttivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 1 (cfr. Cass. 10157/10, 22680/08, 1023/08) e diventa, pertanto, onere del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni medesime (cfr. Cass. 15395/08, 2847/08, 21953/07, 1727/07).

Tanto premesso, deve rilevarsi, in concreto, che, dalla decisione dei giudici di appello, risulta oggetto di accertamento in fatto la ricorrenza di elementi affidabilmente asseveranti l’inesistenza delle prestazioni attestate dalla contestate fatture e che tale circostanza – di per sè idonea, in base alla richiamata giurisprudenza, a determinare il ribaltamento dell’onere della prova sul contribuente – non può considerarsi superata in funzione del riscontro della sola apparente regolarità contabile delle operazioni in rassegna (sotto il profilo della registrazione delle fatture e dell’annotazione dei mezzi di pagamento) , che, a fini di dissimulazione, rappresenta una costante nella fatturazione di operazioni inesistenti (cfr. Cass. 15228/01, 28695/05, 951/09).

Quanto al secondo rilievo, va invece, a tacer d’altro, rilevato che la richiamata giurisprudenza della C.G. (secondo cui il diritto di dedurre l’iva pagata a monte non è necessariamente pregiudicato se, nella catena delle cessioni, un’operazione precedente o successiva a quella realizzata sia inficiata da frode all’imposta) risulta non conferente rispetto al caso concreto (in cui, secondo l’accertamento in fatto della decisione impugnata non contraddetto dalla contribuente, l’inesistenza riguarderebbe un’operazione da essa stessa direttamente realizzata).

Alla stregua delle considerazioni che precedono, s’impone il rigetto del ricorso.

Per la soccombenza, la ricorrente va condannata al pagamento delle spese di causa, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

la Corte: respinge il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di causa, liquidate in complessivi Euro 10.000,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2011

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