Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16667 del 29/07/2011

Cassazione civile sez. trib., 29/07/2011, (ud. 08/06/2011, dep. 29/07/2011), n.16667

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.L., elettivamente domiciliata in Roma, via G.

Pisanelli n. 4, presso lo studio dell’avv. GIGLI Giuseppe, che la

rappresenta e difende, unitamente all’avv. Giuseppe Pugi;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Toscana, sez. 26^, n. 12 del 22 marzo 2005;

sul ricorso proposto da:

P.L., “in qualità di socio della cessata società

ELLE.A. S.N.C. DI PAMPANA LORETTA & C”, come sopra

elettivamente

domiciliata e rappresentata;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, come

sopra elettivamente domiciliata e rappresentata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Toscana, sez. 26^, n. 80 del 25 ottobre 2005;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

8.6.2011 dal consigliere relatore dott. Aurelio Cappabianca;

udito, per la ricorrente, l’avv. Giuseppe Pugi;

udito, per l’Agenzia controricorrente, l’avvocato dello Stato Barbara

Tidore;

udito il P.M., in persona del sostituto procuratore generale dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

P.L. e D.L., quali soci della Elle A. s.n.c., e P.L., in proprio, proposero distinti ricorsi avverso, rispettivamente, l’avviso con cui l’Agenzia aveva accertato a carico della società, per l’anno 1994, maggior imponibile d’imposizione diretta, sul presupposto della contabilizzazione di fatture per operazioni inesistenti e dell’indebita deduzione dei costi ivi attestati, e l’avviso con cui l’Agenzia aveva, corrispondentemente (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 5), accertato a carico della socia, per il medesimo anno d’imposta, maggior imponibile irpef da “reddito di partecipazione” alla società suddetta.

Deceduto il D. e proseguito il giudizio sull’accertamento a carico della Elle A. ad iniziativa della P., l’adita commissione tributaria accolse i ricorsi, con decisioni, che, in esito all’appello dell’Agenzia, furono, tuttavia, riformate dalla commissione regionale, con decisioni rese in camera di consiglio.

Nei relativi nuclei essenziali, le decisioni di appello, si basano sul rilievo che l’inesistenza della operazioni certificate dalle fatture contestate risultava affidabilmente attestata in fatto, in particolare, dalla riscontrata natura di “cartiere” dei soggetti emittenti, e sulla considerazione che idonea prova contraria non poteva essere ritenuta la documentazione relativa agli asseriti pagamenti a mezzo assegni bancari.

Avverso le decisioni di appello, P.L. – rispettivamente “in qualità di socio della cessata società Elle A. s.n.c. di Pampana Loretta & C.” e in proprio – ha proposto distinti ricorsi per cassazione, ciascuno articolato in sette motivi.

L’Agenzia ha resistito con controricorsi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Dalle risultanze delle sentenze impugnate emerge che le controversie sopra richiamate (coinvolgenti la società ed il socio superstite), ancorchè incardinati in procedimenti distinti, sono state simultaneamente trattate e decise sia in primo grado (avendo dato rispettivamente luogo alle decisioni, in stretta sequenza, nn. 167/01/2001 e 165/01/2001) sia in secondo grado (essendo state decise, dal medesimo collegio, all’udienza del 25.1.2005), ed hanno dato luogo a decisioni sostanzialmente conformi.

Tanto premesso, occorre disporre la riunione dei procedimenti.

Nel giudizio di cassazione invero, in presenza di cause decise separatamente nei gradi di merito e relative, rispettivamente, alla rettifica del reddito di una società di persone ed alla conseguente automatica imputazione dei redditi stessi al socio (“per trasparenza”, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 5), non va dichiarata la nullità per essere stati i giudizi celebrati in violazione del litisconsorzio (società/soci), ma va disposta la riunione, ove (come nella specie) la complessiva fattispecie sia caratterizzata da identità oggettiva quanto a causa petendi dei ricorsi, simultanea proposizione degli stessi avverso il sostanzialmente unitario avviso di accertamento, simultanea trattazione degli afferenti procedimenti innanzi ad entrambi i giudici del merito, identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici. Ciò, in quanto la ricomposizione dell’unicità della causa attua il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2, e dagli artt. 6 e 13 Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), evitando che, con la declaratoria di nullità ed il conseguente rinvio al giudice di merito, si determini un inutile dispendio di energie processuali per conseguire l’osservanza di formalità superflue, perchè non giustificate dalla necessità di salvaguardare il rispetto effettivo del principio del contraddittorio (cfr. Cass. 3830/10).

Il rilievo comporta, d’altro canto, l’assorbimento delle questioni sottese al terzo ed al quarto motivo del ricorso rubricato sub n. 14513/06, con i quali – rispettivamente deducendo “violazione di norme del procedimento, conseguente nullità della sentenza e omessa e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, in relazione al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1, comma 2, artt. 29, 39 e art. 295 c.p.c.” e “violazione di norme del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 115 c.p.c. e al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1, commi 2 e 1, e art. 7)” – la contribuente ha censurato la decisione impugnata, per non aver accolto le istanze di sospensione del giudizio in attesa della definizione di quello sull’accertamento a carico della Elle A. s.n.c. o di riunione dei due giudizi e per aver fatto riferimento a atti e fatti mutuati dal separato procedimento relativo alla suddetta società.

Approfondendo l’analisi delle ulteriori doglianze di parte ricorrente, occorre rilevare che, con il primo motivo di ciascun ricorso – deducendo “violazione di norme del procedimento e nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 61 e art. 33, comma 1)” – L. P. censura le decisioni impugnate, per aver discusso gli appelli in camera di consiglio, non dando seguito alle richieste di discussione in pubblica udienza avanzate dall’Agenzia, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 33 negli atti di appelli notificati.

Posto che la stessa contribuente, qui ricorrente, riferisce che le istanze disattese erano state proposte dall’appellante Agenzia e non da essa appellata e che la discussione degli appelli avvenne in assenza dei difensori di entrambe le parti, la doglianza si rivela del tutto infondata.

Deve, invero, osservarsi che la trattazione del ricorso in camera di consiglio invece che in pubblica udienza, pur in presenza d’istanza in tal senso di una delle parti, comporta la nullità della sentenza che ne consegue soltanto ove si traduca in violazione del diritto di difesa o del contraddittorio (cfr. Cass. 10678/09 20852/05), cosa che certamente non può configurarsi nei confronti della parte che detta istanza non ha proposto se (come nel caso di specie) nemmeno l’altra è stata ammessa alla discussione.

Con il secondo motivo di ciascun ricorso deducendo “nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36…)” – P.L. deduce il difetto assoluto di motivazione.

La doglianza è infondata, giacchè la motivazione delle decisioni impugnate esprime comunque, nei suoi tratti essenziali ed a prescindere dalle imprecisioni pur rilevabili (ed evidentemente indotte dalla trattazione contestuale di una pluralità di procedimenti aventi ad oggetto i diversi accertamenti scaturiti dall’unico p.v.c.), un chiaro, coerente e pertinente percorso argomentativo.

Con il terzo motivo del ricorso rubricato sub n. 14516/06 – deducendo violazione di norme del procedimento e omessa motivazione su punto decisivo della controversia – parte contribuente lamenta che l’appello è stato deciso in assenza di una parte sostanziale del fascicolo di primo grado dell’appellata, acquisita solo successivamente.

La doglianza va disattesa. In assenza di, seppur sintetica, indicazione e descrizione dei documenti che si assumono non allegati al momento della decisione e di evidenziazione della relativa idoneità a sovvertire la decisione del giudice a quo, essa si rivela, invero, del tutto carente sul piano del criterio dell’autosufficienza di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, (v.

Cass. 5660/10, 15808/08); mentre, in diversa prospettiva, sembra piuttosto vagheggiare vizio revocatorio non consentito in questa sede.

Con il quinto motivo del ricorso rubricato sub n. 14513/06 e con il quarto motivo del ricorso rubricato sub n. 14516/06 – deducendo “violazione di norme di diritto e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia in relazione al D.P.R. 26/20/1972 n. 633, art. 19 in punto di detrazione dell’iva pagata e all’art. 2697 c.c., in punto onere della prova” – la contribuente lamenta che solo il malgoverno delle risultanze processuali e del criterio di cui all’art. 2697 c.c. ha indotto i giudici di appello ad escludere l’effettiva ricorrenza delle operazioni relative alle contestate fatture.

La doglianza è infondata.

A prescindere dai profili risolventesi in mero inammissibile sindacato di fatto, essa si sostanzia essenzialmente nel rilievo che l’affermata inesistenza di effettive operazioni con le società emittenti delle fatture contestate, pur in presenza di registrazione delle fatture medesime e di contabilizzazione dei correlativi mezzi di pagamento (assegni bancari), comporterebbe la violazione dell’ordinario criterio di distribuzione dell’onere della prova sancito dall’art. 2697 c.c., giacchè in base a detto criterio, a fronte dell’avvenuta documentazione del pagamento, sarebbe stato onere dell’Agenzia provare la restituzione degli importi correlativi.

Il rilievo è privo di pregio.

Occorre, invero, osservare, in linea di principio, che la giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato che, qualora l’Amministrazione fornisca validi elementi, anche meramente presuntivi (purchè gravi, precisi e concordanti), atti ad asseverare la contabilizzazione di fatture emesse per operazioni inesistenti, con conseguenza indebita deduzione dei costi ivi esposti e detrazione dell’iva correlativamente annotata, si configurano i presupposti per l’accertamento induttivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 1, (cfr. Cass. 10157/10, 22680/08, 1023/08) e diventa, pertanto, onere del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni medesime (cfr. Cass. 15395/08, 2847/08, 21953/07, 1727/07).

Tanto premesso, deve rilevarsi, in concreto, che, dalla decisione dei giudici di appello, risulta oggetto di accertamento in fatto la ricorrenza di elementi affidabilmente asseveranti l’inesistenza delle prestazioni attestate dalla contestate fatture e che tale circostanza – di per sè idonea, in base alla richiamata giurisprudenza, a determinare il ribaltamento dell’onere della prova sul contribuente – non può considerarsi superata in funzione del riscontro della sola apparente regolarità contabile delle operazioni in rassegna (sotto il profilo della registrazione delle fatture e dell’annotazione dei mezzi di pagamento) , che, a fini di dissimulazione, rappresenta una costante nella fatturazione di operazioni inesistenti (cfr. Cass. 15228/01, 28695/05, 951/09).

Gli esposti rilievi comportano, peraltro, l’assorbimento delle questioni sottese al sesto motivo di ciascun ricorso (per la parte che non si risolve in inammissibile sindacato in fatto), con il quale la contribuente – deducendo “omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia e violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 4)” contesta l’affermazione dei giudici di appello secondo cui l’indeducibilità dei costi recuperati deriverebbe anche dal fatto che la fittizietà delle operazioni contestate ne escluderebbe il requisito di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75.

Con il quinto motivo del ricorso rubricato sub n. 14516/06 – deducendo violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 2, comma 8, e L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3) – censura la decisione impugnata per aver ritenuto indeducibile costi derivanti da attività illecita, in base alla previsione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, introdotto da norma (L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 2, comma 8) non ancora in vigore.

In disparte il carattere non decisivo della questione nell’economia complessiva della decisione impugnata (essendo quest’ultima idoneamente sorretta dall’autonoma ratio, inutilmente, avversata con la censura precedentemente esaminata), la doglianza risulta infondata, posto che il comma 4 bis introdotto dalla L. n. 289 del 2002, art. 2, comma 8, dopo la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 appare necessariamente condividere, anche per la complementarità della relativa funzione, il carattere interpretativo consolidatamente riconosciuto al comma che lo precede (v. Cass. 13213/07, 24192/06, 13335/03).

Con il settimo motivo di ciascun ricorso deducendo “omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia e violazione di norme di diritto (art. 60 c.p.c., n. 5 in relazione al D.Lgs. 31 gennaio 1992, n. 546, artt. 39 e 41 57)” – la contribuente contesta, infine, la qualificazione dell’accertamento come accertamento induttivo, in quanto tardivamente operata dall’Ufficio.

La doglianza è inammissibile, perchè “nuova” almeno in prospettiva di autosufficienza, introducendo un tema di decisione, di cui non è traccia nella sentenza impugnata e che la ricorrente non precisa come e dove proposto e trattato davanti al giudice del merito (v, Cass. 20518/08, 14590/05, 13979/05, 6656/04 5561/04).

Alla stregua delle considerazioni che precedono, s’impone il rigetto dei ricorsi.

Per la soccombenza, la ricorrente va condannata al pagamento delle spese di causa, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

la Corte: riunisce i ricorsi e li respinge; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di causa, liquidate in complessivi Euro 6.000,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2011

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