Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16663 del 06/07/2017


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Cassazione civile, sez. III, 06/07/2017, (ud. 06/06/2017, dep.06/07/2017),  n. 16663

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18870/2014 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. PISANELLI

2, presso lo studio dell’avvocato DANIELE CIUTI, che lo rappresenta

e difende unitamente agli avvocati MARINA BERTELLI, PAOLO SGUOTTI

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

INTESA SAN PAOLO SPA, in persona del Dott. C.D.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo

studio dell’avvocato ENRICO BRUGNATELLI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato MANUELA MARIA GRASSI giusta procura

in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2884/2013 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 28/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/06/2017 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato DANIELE CIUTI;

udito l’Avvocato PAOLO SGUOTTI;

udito l’Avvocato LUCA SZEGO per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.M. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Treviso Banca Intesa B.C.I. s.p.a. chiedendo la condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2049 c.c., in relazione ai fatti illeciti commessi dal dipendente P.B.; ed in particolare i prelievi non autorizzati con firma apocrifa per Lire 38.500.000 e Dollari USA 49.500 e la distrazione della complessiva somma di Lire 3.200.000.000 consegnata in banca e risultata non versata. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda.

2. Il Tribunale adito rigettò la domanda.

3. Avverso detta sentenza propose appello il M.. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello.

4. Con sentenza di data 28 novembre 2013 la Corte d’appello di Venezia rigettò l’appello. Osservò la corte territoriale, condividendo le argomentazioni del giudice di prime cure in considerazione della cospicuità delle somme in questione, che mancava la prova degli asseriti versamenti. Rilevò in particolare, come già osservato dal Tribunale, che i documenti non erano idonei a provare i versamenti per complessive Lire 3.000.000.000, “apparendo i relativi moduli compilati solo parzialmente: mancava, per un verso il timbro della Banca e la firma dell’incaricato, per altro verso l’indicazione del conto corrente sul quale effettuare l’operazione e la precisazione della pezzatura delle banconote, genericamente indicata con l’espressione “diversi tagli”. Altrimenti detto, non risulta che le asserite operazioni di versamento siano passate attraverso la contabilità della banca, dal momento che quelli versati in atti, data la loro incompletezza, altro non sono che moduli e non attestazioni di operazioni effettuate”. Aggiunse il giudice di appello che le dichiarazioni testimoniali erano generiche, che le dichiarazioni scritte del P. potevano avere valenza probatoria circa la consegna del denaro al medesimo in proprio (come ventilato anche nella sentenza penale) e non quale dipendente della banca e che tali dichiarazioni non avevano valore confessorio e non erano opponibili alla banca. Osservò inoltre che non sussisteva prova dell’appropriazione del denaro da parte del M. se non a fini personali o che il denaro non gli fosse stato consegnato a titolo personale senza alcun passaggio attraverso l’istituto di credito. Quanto ai prelievi contestati come indebiti concluse la Corte che, come argomentato dal Tribunale, il M. non aveva indicato il numero dei conti dai quali sarebbero stati fatti i prelievi, nè aveva dato prova della falsità della sua sottoscrizione e che tale onere incombeva su di lui.

5. Ha proposto ricorso per cassazione M.M. sulla base di quattro motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. E’ stata depositata memoria di parte.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia nullità della sentenza per omessa motivazione e violazione dell’art. 118 disp. att. c.p.c.. Osserva il ricorrente che il giudice di appello si è limitato a rinviare alla motivazione del giudice di primo grado senza valutare i molteplici motivi di impugnazione svolti con l’atto di appello.

1.1. Il motivo è inammissibile. Il ricorrente denuncia la carenza di motivazione della sentenza, quale requisito legale della stessa, in relazione ai ” molteplici motivi di impugnazione” svolti con l’atto di appello. La carenza di motivazione, per il rinvio fatto alla motivazione della sentenza di primo grado, è denunciata in relazione ai “molteplici motivi di impugnazione”, ma il ricorrente non illustra il contenuto di tali motivi che, nell’economia della censura, acquistano il carattere di parametro di giudizio in ordine all’esistenza o meno della motivazione. Non risulta in particolare fornita alcuna indicazione in ordine al contenuto dei motivi in questione. Il motivo pecca pertanto di autosufficienza. Il mancato assolvimento dell’onere di autosufficienza non consente a questa Corte di accedere agli atti per l’accertamento del fatto processuale, come pure sarebbe consentito dalla tipologia del vizio. L’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale (fra le tante da ultimo Cass. 30 settembre 2015, n. 19410).

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2049, 2697, 2702 e 2729 c.c. e artt. 115, 116, 214 e 215 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente che, non avendo l’istituto di credito disconosciuto ai sensi degli artt. 214 e 215 c.p.c., le ricevute attestanti il versamento, il giudice di appello doveva riconoscere l’efficacia di piena prova delle scritture private in ordine alla provenienza della dichiarazione ai sensi dell’art. 2702 c.c. e che sulla base delle testimonianze, della dichiarazione anche confessoria del P. e della sentenza penale di condanna di quest’ultimo per essersi appropriato di somme nella sua qualità di funzionario della banca, si doveva pervenire, in conformità alle disposizioni enunciate in rubrica, a ritenere sussistenti i fatti dannosi denunciati. Aggiunge che la banca era responsabile ai sensi dell’art. 2049, in virtù del rapporto di preposizione fra l’istituto di credito ed il funzionario e dell’esistenza di un nesso di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e lo svolgimento dell’incarico da parte del dipendente e che il danneggiato aveva provato sia la sussistenza del rapporto di preposizione che l’essersi relazionato con il funzionario (infedele) nei locali della banca.

2.1. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile. La censura si articola in tre sub-motivi. Con il primo sub-motivo si denuncia un errore di sussunzione. La denuncia di falsa applicazione dell’art. 2702 c.c., muove da un presupposto di fatto che non corrisponde all’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito. Questi ha accertato, con giudizio di fatto impugnabile solo sotto il profilo del vizio motivazionale, che i documenti relativi ai versamenti per complessive Lire 3.000.000.000 non avevano natura di attestazione di operazione effettuata riferibile alla banca, ma solo di semplici moduli. Avendo il giudice di merito escluso la ricorrenza fattuale della scrittura privata riferibile alla banca non poteva collegarvi l’effetto di piena prova previsto dall’art. 2702 c.c..

2.2. Con il secondo sub-motivo si denuncia, in modo inammissibile, la cattiva valutazione della prova. Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892). Peraltro il giudice di merito ha escluso l’efficacia confessorìa della dichiarazione resa dal P., evidentemente sul presupposto della natura non di parte processuale di costui.

2.3. Il terzo sub-motivo inerisce alla questione dell’applicabilità dell’art. 2049 c.c.. Secondo il costante indirizzo di questa Corte, la responsabilità indiretta di cui all’art. 2049 c.c., per il fatto dannoso commesso da un dipendente postula l’esistenza di un nesso di occasionalità necessaria tra l’illecito e il rapporto di lavoro che vincola i due soggetti, nel senso che le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo (fra le tante da ultimo Cass. 15 ottobre 2015, n. 20924; 25 marzo 2013, n. 7402). L’occasionalità necessaria è da intendere nel senso che l’incombenza svolta abbia determinato una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso, e ciò anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, o persino trasgredendo gli ordini ricevuti, purchè sempre entro l’ambito delle proprie mansioni (Cass. 7 gennaio 2002, n. 89; 20 marzo 1999, n. 2574). Come reso evidente dalla giurisprudenza in materia di dipendenti della pubblica amministrazione, il nesso di occasionalità necessaria tra la condotta causativa del danno e le funzioni esercitate dal dipendente ricorre quando il dipendente non abbia agito quale privato per fini esclusivamente personali ed estranei all’amministrazione di appartenenza, ponendo in essere una condotta ricollegabile, anche solo indirettamente, alle attribuzioni proprie dell’agente (Cass. 10 ottobre 2014, n. 21408; 29 dicembre 2011, n. 29727). Se dunque il dipendente ha agito per un fine strettamente personale ed egoistico, sulla base di un comportamento non riconducibile all’esercizio delle mansioni, mancando ogni connessione causale fra mansione ed evento dannoso il nesso causale è da reputare interrotto. Il relativo accertamento compete al giudice di merito ed è sindacabile in sede di legittimità solo nei limiti del vizio motivazionale (Cass. 10 novembre 2015, n. 22956).

Il giudice di merito ha accertato che il dipendente della banca ha agito a titolo personale e che il denaro gli era stato consegnato per private finalità. In presenza di un siffatto giudizio di fatto, censurabile solo per vizio motivazionale (il ricorrente si è limitato a rappresentare l’assolvimento del proprio onere probatorio, che è valutazione spettante al giudice di merito), non può essere riconosciuta la responsabilità ai sensi dell’art. 2049 a carico della banca.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. degli artt. 2049 e 2697 c.c. e artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente che, essendo stata raggiunta la prova del fatto storico dei prelievi dai conti correnti sulla base dei fogli di estratto conto prodotti dalla banca, una volta che il cliente aveva denunciato che il prelievo non era avvenuto su suo ordine era onere della banca provare che gli ordini recavano una sottoscrizione conforme a quella dell’intestatario del conto e che la banca non aveva prodotto in giudizio gli ordini di prelievo e/o bonifico. Aggiunge il ricorrente che vi è ulteriore prova della sussistenza degli indebiti prelievi ed in particolare: la dichiarazione di costituzione di parte civile della banca nel processo penale nella quale si dà atto della contestazione di reato al P. quale funzionario della banca per appropriazione di somme; gli accertamenti nella sentenza penale in ordine agli indebiti prelievi; il riconoscimento ulteriore da parte della banca dei prelievi indebiti nella lettera di contestazione disciplinare indirizzata al P..

3.1. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile. Costante è l’enunciazione del principio di diritto da parte di questa Corte secondo cui ai sensi dell’art. 1832 c.c., la mancata contestazione dell’estratto conto e la connessa implicita approvazione delle operazioni in esso annotate riguardano gli accrediti e gli addebiti considerati nella loro realtà effettuale, nonchè la verità contabile, storica e di fatto delle operazioni annotate, ma non impediscono la formulazione di censure concernenti la validità ed efficacia dei rapporti obbligatori sottostanti e cioè quelle fondate su ragioni sostanziali attinenti alla legittimità, in relazione al titolo giuridico, dell’inclusione o dell’eliminazione di partite del conto corrente (Cass. 26 maggio 2011, n. 11626; 14 febbraio 2011, n. 3574; 19 marzo 2007, n. 6514; 18 maggio 2006, n. 11749). Le ragioni di illegittimità delle operazioni annotate concernono non solo il debito fondato su negozio nullo, annullabile o inefficace ma anche situazioni di illecito (Cass. 13 aprile 2005, n. 7662; 26 luglio 2001, n. 10186). Poichè gli estratti non contestati si presumono conformi alle disposizioni impartite dal correntista, su questi grava l’onere di provare l’esistenza di fatti, non necessariamente negativi ma anche positivi, diversi e contrari rispetto al contenuto delle annotazioni (Cass. 14 febbraio 2011, n. 3574). Intervenuta l’approvazione del conto, quale effetto della mancata contestazione nel termine previsto, l’onere della prova in ordine all’effettività delle operazioni annotate si sposta dalla banca al correntista nel senso che compete a quest’ultimo, una volta che abbia riconosciuto l’effettività dell’operazione approvando la relativa annotazione, impugnarla sotto il profilo della mancanza di legittimità, allegando e provando il relativo fatto costitutivo. A tale principio di diritto è conforme la statuizione del giudice di merito secondo cui era onere del correntista dare la prova della falsità della sottoscrizione dei documenti relativi a prelievi.

3.2. Per il resto con il motivo si richiamano circostanze relative alla prova dei denunciati indebiti prelievi, che è profilo non scrutinabile nella presente sede di legittimità.

4. Con il quarto motivo si denuncia omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva il ricorrente di avere allegato nell’atto di citazione che il M. aveva consegnato il 24 marzo 1997 al P., come da ricevuta certificante l’apertura di un mandato fiduciario presso Comit Suisse di (OMISSIS), la somma di Lire 200.000.000, distratta dal predetto funzionario, e che il giudice di primo grado aveva statuito che di tale consegna non era stata fornita la prova. Aggiunge che nelle conclusioni dell’atto di appello era stata chiesta anche la condanna della banca al pagamento della somma di Lire 200.000.000 e che il giudice di appello aveva ignorato tale fatto ed omesso quindi la motivazione.

4.1 I motivo è inammissibile. Il ricorrente lamenta sub specie di vizio motivazionale l’omessa pronuncia su un capo della domanda dell’atto di appello. Come affermato da questa Corte, il rapporto tra le istanze delle parti e la pronuncia del giudice, agli effetti dell’art. 112 c.p.c., può dare luogo a due diversi tipi di vizi: se il giudice omette del tutto di pronunciarsi su una domanda od un’eccezione, ricorrerà un vizio di nullità della sentenza per error in procedendo, censurabile in Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4; se, invece, il giudice si pronuncia sulla domanda o sull’eccezione, ma senza prendere in esame una o più delle questioni giuridiche (rectius, sulla base della nuova disposizione relativa al vizio motivazionale, senza prendere in esame un fatto, controverso e decisivo) sottoposte al suo esame nell’ambito di quella domanda o di quell’eccezione, ricorrerà un vizio di motivazione, censurabile in Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5; l’erronea sussunzione nell’uno piuttosto che nell’altro motivo di ricorso del vizio che il ricorrente intende far valere in sede di legittimità, comporta l’inammissibilità del ricorso (Cass. 11 maggio 2012, n. 7268). Il ricorrente ha erroneamente denunciato l’esistenza di un vizio motivazionale, laddove la censura andava proposta in termini di omessa pronuncia.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 20.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2017

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