Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16661 del 06/07/2017


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Cassazione civile, sez. III, 06/07/2017, (ud. 06/06/2017, dep.06/07/2017),  n. 16661

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16922/2015 proposto da:

I.S., elettivamente domiciliato in ROMA, V. GIULIA DI

COLLOREDO 46-48, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE DE PAOLA,

rappresentato e difeso dall’avvocato LORENZA DI CERBO giusta procura

speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

I.M., I.D., I.V.,

F.L., domiciliate ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE

DI CASSAZIONE, rappresentate e difese dagli avvocati SAVERIO

MANNINI, CARLO BORGHI giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1138/2014 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 02/07/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/06/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SAVERIO MANNINI;

udito l’Avvocato CARLO BORGHI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Firenze, con sentenza in data 2.7.2014 n. 1138 pronunciata ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., confermava integralmente la decisione del tribunale di Livorno in data 6.3.2013 n. 255, rigettando l’appello proposto da I.S., essendo allo stesso opponibile la preclusione del giudicato penale esterno formatosi sulla pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno resa a favore di I.M., figlia della vittima, che si era costituita parte civile nel procedimento penale che aveva riconosciuto il primo colpevole del reato di omicidio consumato nei confronti del fratello I.V.; mentre, quanto alla pretesa risarcitoria formulata nei confronti di I.S. dagli altri parenti F.L., I.D. e V. – rispettivamente coniuge e figlie della vittima-, il Giudice di appello reputava sfornita di prova la allegazione difensiva intesa a dimostrare la mancanza di imputabilità per incapacità di intendere e volere al momento della commissione del reato, in quanto la documentazione clinica prodotta, attestante la malattia psichica, non inficiava gli accertamenti svolti in sede penale ed in particolare le risultanze della perizia psichiatrica che aveva concluso per l’esistenza di un vizio di mete soltanto parziale.

La sentenza di appello è stata impugnata per cassazione da I.S. con due motivi.

Resistono con controricorso le parti intimate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il primo motivo (violazione degli artt. 539 e 651 c.p.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) è infondato.

Il ricorrente impugna la statuizione della sentenza di appello che ha ritenuto opponibile all’autore dell’illecito la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita I.M., contenuta nella sentenza penale in data 4.3.2009, divenuta irrevocabile, del GUP del Tribunale di Livorno, in quanto la tale pronuncia di condanna ex art. 539 c.p.p. doveva ritenersi insuscettibile di passaggio in giudicato, in quanto il Giudice civile, nel separato processo inerente la liquidazione del danno, era tenuto a procedere ad un nuovo accertamento nell’ “an” e nel “quantum” della pretesa risarcitoria, essendo opponibile il giudicato penale dii condanna ex art. 651 c.p.p. soltanto in relazione all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed alla affermazione che l’imputato lo ha commesso.

Evidente è l’equivoco in cui incorre il ricorrente ritenendo che la pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, ex art. 539 c.p.p., pur se divenuta irrevocabile, non limiterebbe in alcun modo il potere del Giudice civile – adito per la liquidazione del danno – a compiere un nuovo accertamento anche sul “titolo” della responsabilità, (in tale senso sembra doversi intendere il riferimento ai precedenti di questa Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18355 del 16/09/2005 e Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14537 del 10/06/2013), non avvedendosi il ricorrente che l’interpretazione che della norma è stata fornita da questa Corte concerne esclusivamente la inefficacia extrapenale del “dictum” relativo alla esistenza ed alla quantificazione – del danno risarcibile, ma non rimette affatto in gioco anche il “titolo della responsabilità” affermato nella sentenza penale (inconferente è il richiamo ai precedenti di legittimità indicati neri quali l’accertamento del “titolo” era giustificato in quanto, in un caso, l’oggetto della controversia verteva sul titolo “legale” che fondava la solidarietà passiva della società assicurativa per la obbligazione risarcitoria dell’assicurato condannato in sede penale al risarcimento del danno; nell’altro caso, oggetto della controversia era invece la opposizione al “titolo esecutivo” costituito dalla statuizione civile di condanna contenuta nella sentenza penale, in quanto priva di clausola di provvisoria esecuzione. Risulta evidente quindi come in entrambi i precedenti richiamati non venisse in questione il riesame in sede civile dell’accertamento della responsabilità civile dall’autore del reato, compiuto dal Giudice penale): la condanna generica, difatti, presuppone l’accertamento della responsabilità dell’autore dell’illecito, ma non implica alcun vincolo per il Giudice civile in ordine all’accertamento della concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto la potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e la probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di liquidazione del “quantum” la possibilità di esclusione dell’esistenza stessa di un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 329 del 11/01/2001; id. Sez. 3, Sentenza n. 8807 del 27/06/2001; id. Sez. Sentenza n. 7637 del 16/05/2003; id. Sez. 2, Sentenza n. 2947 del 14/02/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 27723 del 16/12/2005; id. Sez. Sentenza n. 9295 del 19/04/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 7695 del 21/03/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 23429 del 04/11/2014).

L’indicato equivoco conduce poi il ricorrente all’ulteriore errore in diritto, laddove viene ad equiparare il giudicato penale ex art. 651 c.p.p., alla pronuncia del medesimo Giudice penale – in caso di costituzione di parte civile – sui capi civili relativi alla domanda di condanna al risarcimento dei danni, divenuta irrevocabile, non legittimando il solo fatto della contestualità dei due accertamenti, penale e civile, la estensione dei medesimi limiti oggettivi alla efficacia extrapenale del giudicato penale di condanna ex art. 651 c.p.p., anche alla distinta pronuncia, contenuta nella medesima sentenza, relativa alle domande formulate dalla parte civile. Il Giudice penale, in tal caso, è stato infatti chiamato ad accertare anche i fatti costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c., sia in relazione all’aspetto psicologico della condotta, sia in relazione al collegamento di causalità materiale tra condotta ed evento lesivo -attraverso i più rigorosi criteri probatori richiesti dal processo penale, dovendo accertarsi il nesso causale tra condotta ed evento alla stregua della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, rispetto al criterio del “più probabile che non” ritenuto sufficiente nel giudizio civile – con la conseguenza che la sentenza del giudice penale che, accertando l’esistenza del reato, abbia altresì pronunciato condanna generica irrevocabile dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine all’affermata responsabilità dell’imputato, che non può più contestarne i presupposti (quali, in particolare, l’accertamento della sussistenza del fatto reato), nonchè effetto vincolante quanto alla “declaratoria juris” di generica condanna al risarcimento ed alle restituzioni, che come visto è limitata all’accertamento della sola potenzialità di danno (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18352 del 27/08/2014).

La statuizione della sentenza di appello impugnata va in conseguenza esente dalla censura dedotta.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2043, 2697 c.c. nonchè dell’art. 651 c.p.p., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il ricorrente sostiene che i limiti oggettivi della efficacia extrapenale del giudicato di condanna affermativo della responsabilità penale dell’imputato, chiaramente scolpiti nell’art. 651 c.p.p., comma 1, nei confini dell’accertamento 1-) della sussistenza del fatto, 2-) della illiceità penale dello stesso, 3-) della commissione del fatto da parte dell’imputato, non si estende per “voluntas legis” all’accertamento dell’elemento soggettivo della condotta, che deve pertanto costituire oggetto di prova da parte del soggetto -non costituitosi parte civile nel giudizio penale- che assume essere stato danneggiato dal reato e pretende il risarcimento del danno.

Poichè – secondo la tesi del ricorrente – l’elemento soggettivo si estende anche alla capacità di intendere e volere (art. 2046 c.c.), e poichè nel caso di specie alcuna prova era stata fornita dalla F. e dalle I., la Corte d’appello riconoscendo il diritto al risarcimento dei danni esclusivamente in base alla sentenza penale irrevocabile, ritenendo che gravasse sul convenuto-appellante la prova della infermità mentale, aveva violato la norma sul riparto dell’onus probandi (art. 2697 c.c.) nonchè la norma generale sull’illecito e la norma processuale penale.

Il motivo è infondato.

La Corte territoriale non ha affatto violato i limiti oggettivi di efficacia extrapenale della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata dal GUP del Tribunale di Livorno, ai sensi degli artt. 442, 533 c.p.p. e art. 651 c.p.p., comma 2 (secondo la interpretazione che di essi è stata fornita da questa Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 1768 del 26/01/2011), avendo fatto corretta applicazione, il Giudice di appello, del principio di diritto secondo cui, non avendo partecipato gli altri danneggiati al processo penale, occorreva nella specie procedere “ad un autonomo accertamento” dei fatti, a tal fine potendosi ricorrere anche alla utilizzazione “della sentenza penale e delle prove ivi raccolte, tra cui la consulenza del PM”.

Quanto poi alla doglianza secondo cui qualificando l’accertamento della incapacità di intendere e volere ex art. 2046 c.c., come oggetto di eccezione di merito in senso stretto, il Giudice di appello avrebbe illegittimamente disposto una inversione dell’onere della prova in quanto la “imputabilità” sarebbe elemento integrato alla colpa o dolo, cioè all’elemento soggettivo della condotta e dunque fatto costitutivo della fattispecie dell’illecito ex art. 2043 c.c., la prova del quale doveva farsi gravare sui danneggiati, osserva il Collegio che la “imputabilità” non appartiene alla fattispecie costituiva ex art. 2043 c.c., e dunque in quanto si pone fatto esterno “impeditivo” della responsabilità civile, intesa quale effetto giuridico che consegue all’accertamento della fattispecie illecita ex art. 2043 c.c., è oggetto di eccezione in senso stretto. L’art. 2046 c.c. configura la incapacità di intendere e volere come “esimente” della responsabilità civile, e si pone quindi al di fuori della struttura dell’illecito nel senso che non integra alcuno dei fatti costitutivi della fattispecie ex art. 2043 c.c. e tanto meno coincide con l’elemento soggettivo della condotta (il cui accertamento concerne la verifica della disformità della condotta tenuta in concreto rispetto a parametri oggettivi di comportamenti normativamente prescritti o comunque richiesti in base al principio “alterum non laedere”, in situazioni analoghe, verifica che esula pertanto dalla indagine sulla personale attitudine psichica del soggetto), ma riverbera, invece, come causa esterna alla fattispecie ex art. 2043 c.c., in quanto impediente l’ingresso allo stesso giudizio di responsabilità; del pari non vi è coincidenza tra capacità di intendere e volere ed antigiuridicità del fatto, in quanto quest’ultima si qualifica esclusivamente per il disvalore attribuito dall’ordinamento al risultato della condotta in quanto contrario all’interesse-valore tutelato e non anche all’elemento psichico della persona fisica.

Inconferente è il richiamo operato dal ricorrente alla massima giurisprudenziale tratta dal precedente Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 390 del 11/01/2008 secondo cui grava sul danneggiato dall’illecito ex art. 2043 c.c., l’onere della prova degli elementi costitutivi di tale fatto, del nesso di causalità, del danno ingiusto e della imputabilità soggettiva, laddove la imputabilità soggettiva presa in considerazione nella sentenza è individuata nell’elemento soggettivo della condotta (fatto doloso o colposo) che suppone la “suitas” del soggetto, in quanto precondizione minima esterna alla fattispecie normativa astratta dell’illecito aquiliano, richiesta dall’ordinamento per poter dare luogo all’ingresso ad un giudizio di responsabilità (id est di attribuzione ad un soggetto delle conseguenze della sua azione), in quanto giudizio che può essere fondato esclusivamente su di un agire umano posto in essere da un soggetto dotato di coscienza ed attitudine psichica alla autodeterminazione.

Pertanto l’assunto difensivo secondo cui la imputabilità costituisce oggetto dell’onere probatorio di colui che agisce per il risarcimento del danno, oltre che impreciso, in quanto la “imputabilità” è oggetto di un giudizio e non costituisce un fatto la cui esistenza è oggetto di verifica nella fase istruttoria del processo, non appare fondato. In contrario non valgono quelle particolari ipotesi in cui l’ordinamento pone a fondamento della pretesa proprio l’accertamento della capacità di intendere e volere del soggetto. Ed infatti, se la “non imputabilità”, o più correttamente, lo stato di incapacità di agire determinato da infermità psichica, viene riconosciuto come elemento costitutivo della pretesa risarcitoria, nei casi in cui il danneggiato agisca in giudizio, ai sensi dell’art. 2047 c.c., comma 1, per fare valere la responsabilità civile del soggetto tenuto alla sorveglianza dell’incapace che ha cagionato il danno (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5485 del 19/06/1997), diversamente, nel caso in cui il danneggiato agisce allegando la imputabilità dell’evento lesivo alla condotta dell’autore dell’illecito, qualificata da dolo o colpa, fornendo gli elementi circostanziali attestanti la intenzionalità della condotta o la violazione di norme giuridiche prescrittive di obblighi a tutela dell’interesso leso o ancora la mancanza, nel caso di specie, dell’adempimento dei doveri generici di condotta (prudenza, attenzione, e perizia del soggetto) richiesti per evitare di arrecare nocumento a terzi, la questione della mancanza di coscienza e volontà del danneggiante nel momento in cui è stato commesso l’illecito ex art. 2046 c.c., deve essere eccepita e dimostrata dall’interessato, in quanto condizione soggettiva intesa a paralizzare la pretesa risarcitoria, non essendo sufficiente pertanto la mera allegazione da parte del convenuto in risarcimento danno, della propria situazione di incapacità al momento del fatto, ma occorre che tale peculiare condizione sia esplicitamente individuata nella sua causa (patologia psichica di natura permanente o transeunte; stato di alterazione cagionato da terzi o da caso fortuito, ecc.) ed oggetto di verifica istruttoria attraverso gli ordinari mezzi di prova.

Del pari infondata è la censura di violazione dei limiti di efficacia oggettiva del giudicato penale di condanna ex art. 651 c.p.p..

Il Giudice di appello ha, infatti, ritenuto di condividere le risultanze della perizia penale psichiatrica, rilevando come i documenti prodotti nel giudizio civile dall’ I. attestanti una malattia psichica, non fornivano elementi idonei ad inficiare i risultati della indagine peritale penale. Orbene, premesso che il ricorso ad elementi probatori tratti dalle indagini del procedimento penale non incontra limiti nel giudizio civile (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6478 del 25/03/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 10055 del 27/04/2010; id. Sez. 2, Sentenza n. 22200 del 29/10/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 15112 del 17/06/2013; id. Sez. 3, Sentenza n. 11555 del 14/05/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 17392 del 01/09/2015; id. Sez. L, Sentenza n. 287 del 12/01/2016; id. Sez. L -, Sentenza n. 8603 del 03/04/2017), e che i rilievi formulati dal ricorrente in ordine alla asserita inutilizzabilità di una “consulenza tecnica di parte” (tale dovendo considerarsi quella svolta nel corso delle indagini preliminari su incarico del PM) priva delle garanzie di imparzialità della consulenza svolta su disposizione del Giudice, non appaiono conferenti, atteso che l’acquisizione al rilevante probatorio di tale perizia è stato determinato dalla libera adesione dell’imputato al rito alternativo del giudizio abbreviato (la perizia, quale atto di indagine del PM ex artt. 359-360 c.p.p., contenuto nel fascicolo ex art. 416 c.p.p., trasmesso con la richiesta di rinvio a giudizio, rientra tra gli elementi utilizzabili ai fini della decisione del GUP; art. 442 c.p.p., comma 1 bis. In particolare sull’utilizzo da parte del giudice civile delle consulenze disposte nel procedimento penale, cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 5410 del 12/12/1977; id. Sez. 3, Sentenza n. 1696 del 13/03/1980; id. Sez. L, Sentenza n. 28855 del 05/12/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 15714 del 02/07/2010), osserva il Collegio che l’adesione del Giudice di appello alle risultanze della predetta perizia penale – nella quale è stata ritenuta ridotta, ma non esclusa, la capacità dell’imputato di intendere e volere – si risolve in un accertamento di merito non sindacabile in sede di legittimità per insufficienza logica, ma soltanto nei ristretti limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012 – vizio di legittimità che non è stato denunciato dal ricorrente – e cioè ponendo in evidenza i “fatti determinanti omessi ” in quanto non indagati dal CTU od ai quali non è stata data adeguata risposta dal Giudice di appello: come ripetutamente affermato da questa Corte, infatti, in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 6753 del 05/05/2003 Sez. 2, Sentenza n. 13845 del 13/06/2007 Sez. 1, Sentenza n. 16368 del 17/07/2014). E nella specie il ricorrente, non soltanto non ha individuato i passaggi essenziali della perizia penale oggetto di critica, ma neppure ha argomentato in astratto una critica alle risultanze peritali, non avendo censurato l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la documentazione clinica attestante la malattia non contrastava le conclusioni raggiunte dall’ausiliario del PM.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte ricorrente condannata a alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

PQM

 

rigetta il ricorso principale.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2017

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