Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16651 del 06/07/2017


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile, sez. III, 06/07/2017, (ud. 03/05/2017, dep.06/07/2017),  n. 16651

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLEGRINO Andrea – Consigliere –

Dott. SPAZIANI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4857-2015 proposto da:

MINISTERO DIFESA (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è rappresentato e difeso

per legge;

– ricorrente –

contro

N.A.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENO

30, presso lo studio dell’avvocato MAURO CIANI, che lo rappresenta e

difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 138/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

03/05/2017 dal Consigliere Dott. SPAZIANI PAOLO;

Fatto

FATTI DI CAUSA

A.R.N. – premesso che era proprietario di una azienda agricola adibita in parte a seminativo e in parte a bosco per allevamento dei cinghiali e interamente recintata; che nella notte tra il (OMISSIS) militari di fanteria, durante un’esercitazione, erano entrati senza permesso nella sua proprietà recidendo la rete di recinzione nella parte adibita ad allevamento e cagionando la fuoriuscita di numerosi cinghiali; e che da tale illecito comportamento aveva riportato un pregiudizio patrimoniale stimabile in Euro 200.000 – convenne il Ministero della difesa dinanzi al Tribunale di Roma chiedendone la condanna al risarcimento del danno.

La domanda, rigettata dal Tribunale, è stata invece parzialmente accolta dalla Corte di Appello (che ha peraltro liquidato il danno nella limitata misura di Euro 31.135, oltre accessori), sui rilievi: che era stato provato, per un verso (alla luce della deposizione testimoniale resa da un ufficiale), che alcuni militari durante l’esercitazione effettivamente si erano introdotti nella proprietà dell’attore; per altro verso (alla luce delle fotografie prodotte dal danneggiato), che la rete di recinzione era stata recisa dall’alto fino a pochi centimetri di altezza da terra; che, pertanto, la predetta recisione (non ascrivibile, per le modalità del taglio, all’opera di animali selvatici) doveva ragionevolmente imputarsi, con un giudizio di carattere presuntivo, alla condotta dei militari; che era stato altresì provato (alla luce di altre deposizioni testimoniali) che numerosi cinghiali erano usciti dall’allevamento nell’immediatezza dell’episodio e molti di essi erano risultati mancanti all’esito della conta successivamente effettuata; e che, alla stregua del criterio del “più probabile che non”, sussisteva il nesso causale tra la rottura della recinzione e la fuoriuscita degli animali, non potendo ascriversi tale evento ad altri fattori causali, quali ad es. l’utilizzo dei varchi funzionali al transito di piccoli animali, le cui ridotte dimensioni non consentivano il passaggio dei cinghiali.

Avverso la sentenza della Corte di appello di Roma il Ministero della difesa propone ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Risponde con controricorso A.R.N.. Il ricorrente ha depositato memoria per l’adunanza camerale.

Il collegio ha disposto che la motivazione sia redatta in forma semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo (violazione dell’art. 2729 c.c.) il Ministero della difesa evidenzia che la circostanza che la rottura della recinzione fosse stata posta in essere dai militari, è stata ritenuta provata dalla Corte di merito sulla base di un unico indizio, costituito dalla mera presenza dei militari stessi nei pressi dell’allevamento dei cinghiali. Sostiene che tale indizio non aveva i caratteri della gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge, in funzione della possibilità per il giudice di accedere al ragionamento presuntivo. Deduce che nella fattispecie sarebbe stato violato il procedimento cui è tenuto a conformarsi il giudice del merito in tema di prova per presunzioni, costituito da due momenti valutativi, il primo relativo all’apprezzamento analitico di ognuno degli elementi indiziari (funzionale all’individuazione di quelli che rivestono i caratteri della precisione e della gravità), il secondo attinente alla valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi precedentemente isolati, funzionale a verificarne la concordanza.

1.1. Il motivo è inammissibile.

In primo luogo esso è intrinsecamente contraddittorio sul piano logico giacchè, anche se la Corte di merito avesse effettivamente tratto l’accertamento del fatto ignoto da un unico indizio, tale circostanza non solo non avrebbe necessariamente viziato il ragionamento presuntivo ma avrebbe, anzi, senz’altro escluso la necessità che lo stesso fosse articolato nei due momenti valutativi ritenuti invece indispensabili dal ricorrente.

Questa Corte ha infatti ribadito che, in tema di presunzioni semplici, gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente più d’uno, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria, dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi (Cass. 29/07/2009, n. 17574; Cass. 15/01/2014, n. 656).

In secondo luogo, e principalmente, il motivo in esame, sebbene formalmente volto a denunciare un vizio di violazione di legge, propone in realtà una diversa lettura delle risultanze istruttorie rispetto a quella operata dalla Corte territoriale, la quale, alla luce delle dichiarazioni dei testimoni e delle fotografie prodotte in giudizio, ha ritenuto che fossero state adeguatamente accertate due precise circostanze (l’avvenuta introduzione non autorizzata dei militari nella proprietà recintata del controricorrente; e l’avvenuto taglio, nel medesimo contesto temporale, della rete di recinzione con modalità tali da escluderne la riferibilità all’opera di animali) dalle quali è poi risalita al fatto ignoto consistente nell’attribuzione del predetto taglio alla condotta dei militari.

Nel contrapporre a tale lettura la diversa valutazione secondo cui l’unica circostanza accertata sarebbe stata la presenza dei soldati nei pressi (e non all’interno) dell’area destinata all’allevamento dei cinghiali (per poi trarne l’implicazione che si sarebbe trattato di indizio non grave, dunque inidoneo a sorreggere il ragionamento presuntivo), il Ministero ricorrente omette di considerare che l’apprezzamento delle prove è attività riservata al giudice del merito cui compete non solo la valutazione delle stesse ma anche la scelta, insindacabile in sede di legittimità, di quelle ritenute più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass. 13/06/2014, n. 13485; Cass. 15/07/2009, n. 16499).

2. Parimenti inammissibile è il secondo motivo (omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti), con il quale il Ministero della difesa deduce l’erronea valutazione di talune deposizioni testimoniali dalle quali, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Appello, sarebbe emerso che i militari non si erano affatto introdotti nell’area destinata all’allevamento dei cinghiali e che non erano dotati di cesoie durante l’esercitazione.

Al riguardo va ribadito che il vizio denunciato con il motivo in esame – previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, – attiene all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.

Pertanto, nel denunciare il predetto vizio, il ricorrente, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, ha l’onere di indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”.

L’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U 07/04/2014, nn. 8053 e 8054).

Il Ministero ricorrente, nel denunciare l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti, non si adegua al modello legale introdotto dal “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto propone la rivalutazione di taluni elementi istruttori (le deposizioni di alcuni testimoni) per giungere ad un accertamento dei fatti diverso da quello motivatamente fatto proprio dal giudice del merito.

Una simile rivalutazione era inammissibile già nella vigenza del vecchio testo dell’art. 360 c.p..c, n. 5, e lo è a maggior ragione alla luce della nuova formulazione della norma, specie se si consideri, tra l’altro, con riguardo alla fattispecie in esame, che la Corte di merito non ha omesso l’esame delle predette prove testimoniali ma le ha debitamente tenute in considerazione, peraltro traendone, nel motivato collegamento con le altre risultanze (in particolare quelle, di carattere documentale, derivanti dalle fotografie allegate), implicazioni di merito diverse da quelle inammissibilmente prospettate dal ricorrente in questa sede di legittimità.

3. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

4. Le spese del giudizio legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

5. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1 – bis.

PQM

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Motivazione Semplificata.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile, il 3 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2017

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA