Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16632 del 16/07/2010

Cassazione civile sez. III, 16/07/2010, (ud. 16/06/2010, dep. 16/07/2010), n.16632

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15115/2006 proposto da:

M.C. (OMISSIS), T.C.

(OMISSIS), M.G.E. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ANASTASIO II 80, presso lo

studio dell’avvocato BARBATO Adriano, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato OSTINELLI RENATO giusta delega in calce al

ricorso;

– ricorrenti –

contro

GE.FIN LEASING DI FARELLO ROBERTO (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 19, presso lo studio

dell’avvocato LANIA Aldo Lucio, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GIUGGIOLI PAOLO giusta delega a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2272/2005 della CORTE; D’APPELLO di MILANO,

Sezione Seconda Civile, 29/6/2005, depositata il 29/09/2005, R.G.N.

19/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

16/06/2010 dal Consigliere Dott. ANNAMARIA AMBROSIO;

udito l’Avvocato ADRIANO BARBATO;

udito l’Avvocato ENRICO GABRIELLI per delega dell’Avvocato ALDO LUCIO

LANIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.1. Con sentenza in data 18-9-2002 il Tribunale di Como rigettava la domanda proposta dalla GE.FIN LEASING di FARELLO Roberto (di seguito brevemente GE.FIN) nei confronti di M.G.E., di C. T. e di M.C., avente ad oggetto il pagamento della somma di L. 61.250.000 quale corrispettivo dell’incarico affidato alla GE.FIN dai convenuti in data 13-10-1992, “volto alla promozione e alla organizzazione di un contratto di locazione finanziaria” e destinato alla sistemazione delle esposizioni della s.r.l. INTRAS (di cui i convenuti erano soci finanziatori), ricerca che la GE.FIN assumeva portata a buon fine, ancorchè rimasta senza esito per il comportamento inconcludente dei convenuti.

1.2. La decisione, gravata da impugnazione della GE.FIN, era riformata dalla Corte di appello di Milano, la quale con sentenza in data 29-9-2005 condannava gli appellati M.G.E., T.C. e M.C., in solido tra loro, al pagamento in favore dell’appellante della somma di Euro 31.632,98, da rivalutarsi secondo indici ISTAT sino alla data della sentenza e da maggiorarsi da questa data degli interessi legali sino al saldo, nonchè al pagamento delle spese del doppio grado.

1.3. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione M.G.E., T.C. e M.C., svolgendo quattro motivi.

Ha resistito F.R., quale titolare della GE.FIN, depositando controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La Corte di appello – diversamente dal Tribunale, che aveva inquadrato l’incarico affidato alla GE.FIN nell’ambito della mediazione, rimasta senza esito e come tale inidonea a fondare il diritto al compenso pattuito quale provvigione – ha qualificato il rapporto inter partes come mandato, pervenendo a conclusioni opposte in punto di riconoscimento del diritto al corrispettivo, atteso il rilevato espletamento dell’attività affidata. In particolare i giudici a quibus hanno evidenziato i contenuti dell’incarico conferito alla GE.FIN, testualmente “volto alla promozione e all’organizzazione di un contratto di locazione finanziaria”, negozio rispetto al quale GE.FIN veniva indicata come “manager dell’operazione” e di cui erano preventivamente individuati sia futuri contraenti (gli odierni ricorrenti, in veste di debitori o di garanti), sia l’importo da erogarsi (pari a L. 1.750.000.000), sia ancora il costo dell’operazione, da effettuarsi “alle condizioni migliori esprimibili dall’attuale mercato”, previa valutazione “nel corso dell’istruttoria” delle garanzie da rilasciarsi al finanziatore. Muovendo da tali premesse la Corte di appello è pervenuta al convincimento che l’incarico avesse ad oggetto non solo il reperimento di un possibile finanziatore, ma anche lo svolgimento, nell’interesse dei suoi conferenti e in diretta collaborazione/assistenza con gli stessi, di tutta l’attività preparatoria alla conclusione del negozio di finanziamento, risultando il ruolo della GE.FIN “di per sè del tutto estraneo all’autonomia operativa tipica del mediatore” e, per altro verso, ben riconducibile alla figura del mandatario, la cui obbligazione, secondo un condivisibile orientamento, non deve necessariamente comprendere la conclusione di negozi giuridici in senso stretto, ma può concretarsi anche nello svolgimento delle sole trattative in vista della conclusione di un contratto. Nel contempo la determinazione del compenso, definito “commissione totale”, in termini percentuali rispetto al valore (negozialmente a sua volta predeterminato) dell’operazione oggetto dell’incarico (nel “3,5% sull’importo globale: L. 61.250.000”) è stata ritenuta non inconciliabile con la qualificazione adottata, “ben potendo essere letta anche quale specifica clausola di individuazione del compenso al mandatario per la sua complessiva attività”.

1.1. Con i primi due motivi i ricorrenti impugnano la decisione in parte qua deducendo, in via principale, l’illegittimità della sentenza gravata per avere qualificato il rapporto inter partes in termini di mandato.

1.1.1. In particolare con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione delle norme di cui all’art. 1703 c.c., e segg.

nonchè dell’art. 1754 c.c., e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. A tal riguardo parte ricorrente – premessa l’individuazione dei tratti qualificanti, rispettivamente, del mandato e della mediazione – osserva che eventuali espressioni dubbie nel conferimento dell’incarico vanno risolte nel senso che si tratti di un incarico di mediazione tutte le volte in cui colui che svolge l’attività si limiti esclusivamente a metter in relazione chi gli ha conferito l’incarico con la controparte ricercata sul mercato, senza compiere alcun atto giuridico per conto del conferente. In particolare, sotto il profilo della violazione di legge, i ricorrenti lamentano la non corretta individuazione degli elementi indicatori del rapporto o, comunque, l’indicazione di elementi non rilevanti, assumendo che: la) non è vero che il mediatore non possa essere incaricato di uno specifico incarico; 2a) non è vero che il mediatore non godrebbe di autonomia operativa, contrariamente al mandatario; 3a) il mediatore è proprio colui che coadiuva chi gli conferisce l’incarico, collaborando con lui nello svolgimento delle trattative; 4a) non è vero che sia irrilevante che ai fini della distinzione tra mandato e mediazione, il fatto che chi svolge l’incarico curi solo le trattative o ponga in essere anche negozi giuridici in favore di chi gli conferisce l’incarico; mentre, sotto il profilo della omessa o insufficiente motivazione, lamentano che la Corte territoriale non abbia preso in considerazione altri elementi determinanti per la qualificazione del contratto, quali: 1b) l’obbligo del mandatario e non del mediatore di attenersi alle istruzioni ricevute e di rendere il conto; 2b) la revocabilità dell’incarico; 3b) la tipologia del compenso pattuito, in quanto sintomatica del tipo di rapporto entro il quale si inserisce; 4b) la qualifica delle parti e, in particolare, quella di broker, che sarebbe rivestita dalla GE.FIN..

1.1.2. Con il secondo motivo – sempre in via principale – si deduce violazione e falsa applicazione delle norme sostanziali di interpretazione di cui all’art. 1362 c.c., e segg., in tema di interpretazione e qualificazione dei contratto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; erroneo procedimento logico-giuridico seguito per pervenire alla decisione e posto alla base della medesima con tutti i riflessi di tale vizio in termini di contraddittorietà tra le argomentazioni complessivamente adottate sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5; omesso e/o insufficiente esame degli elementi probatori del primo grado del giudizio e posti alla base della decisione, riflettendosi detto vizio anche in un vizio di motivazione (in termini di incongruità e/o illogicità della medesima), risultando la decisione stessa complessivamente affetta da evidente contrasto con le risultanze testuali ricavabili dalle prove documentali sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Sotto questa articolata rubrica parte ricorrente deduce che il tenore letterale dell’incarico affidato a GE.FIN, di cui riporta il testo integrale e, segnatamente, i termini “incarico” e “commissione” depongono per la qualificazione del rapporto come di mediazione e che, per converso, le espressioni evidenziate dalla Corte di appello hanno significato neutro, vuoi perchè nella prassi corrente l’incarico mediatorio può essere conferito con terminologia che sembra rimandare ad un’attività gestoria, senza che quest’ultima venga a costituire il contenuto obbligatorio di un rapporto qualificabile come mandato, vuoi perchè i giudici a quibus non avrebbero motivato sul concreto atteggiarsi dei rapporti delle parti;

e ciò sebbene il primo giudice avesse escluso che fosse stata raggiunta la prova da parte della GE.FIN dello svolgimento di “quelle specifiche e qualificate attività, aventi rilevanza giuridica esterna che distinguono, differenziandolo, il mandato dalla mediazione”.

2. I suddetti motivi si esaminano congiuntamente, attesa la stretta connessione delle tematiche proposte e risultano entrambi infondati.

Costituisce ius receptum che il procedimento di qualificazione di un contratto consta di due fasi: la prima è quella della ricerca e della individuazione della comune volontà dei contraenti e si risolve in un tipico accertamento di fatto riservato al giudice del merito, le cui valutazioni soggiacciono, in sede di legittimità, a un sindacato che è limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale e al controllo di una motivazione coerente e logica; mentre la seconda è quella dell’inquadramento della comune volontà, come appurata, nello schema legale corrispondente, che – risolvendosi nell’interpretazione di norme giuridiche – può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo (ex plurimis, Cass. 03/04/2003, n. 5150).

2.1. Ciò premesso, si osserva che la sentenza impugnata ha chiarito in modo preciso i principali elementi di fatto della fattispecie concreta e le ragioni della conseguente qualificazione giuridica, avendo i giudici del merito insindacabilmente accertato le circostanze emergenti dal contratto come stipulato dalle parti e, quindi, proceduto, in base a quanto accertato, all’inquadramento nel negozio nello schema del mandato.

Invero – come emerge dalla sintesi sopra riportata – la Corte di appello ha fatto risaltare, attraverso puntuali richiami al testo dell’incarico, non solo il ruolo di “manager dell’operazione” svolto dalla GE.FIN, cui era affidata l'”organizzazione” dei rapporti con il futuro finanziatore e l'”istruttoria” della locazione finanziaria, ma anche i precisi vincoli operativi posti alla medesima società, nonchè il rapporto di stretta collaborazione/assistenza con i conferenti l’incarico, di modo che, per un verso, risulta esclusa quella peculiare connotazione di neutralità e imparzialità tra i due contraenti che è propria dell’attività del mediatore (da intendersi come assenza di qualsiasi vincolo o rapporto che renda riferibile al dominus l’attività del mandatario) e, per altro verso, risulta evidenziato il carattere vincolante dello stesso incarico, deponente per la qualificazione negli schemi del mandato, atteso che, mentre il mandatario ha l’obbligo di eseguirlo, il mediatore ha la mera facoltà di attivarsi per mettere in relazione le parti (cfr.

Cass. 30/09/2008, n. 24333).

Del resto i ricorrenti non pongono in discussione la premessa di diritto, già assunta dal primo giudice e dichiaratamente condivisa da quello di appello – e cioè che “la mediazione si caratterizza per la libertà del conferente a concludere l’affare e per la mancanza di un vincolo di collaborazione nell’esecuzione di atti giuridici, tipico invece del mandato” (pag. 4 e 5 in ricorso) – lamentando, piuttosto, che la decisione impugnata abbia finito per discostarsi da tale premessa. Senonchè le censure formulate al riguardo, per buona parte, travisano i contenuti della sentenza impugnata, risultando, dunque, prive di specificità per difetto di correlazione con le ragioni della decisione. Tanto vale in particolar modo per gli argomenti svolti con il primo motivo di ricorso, con cui si attribuisce ai giudici a quibus di avere individuato un tratto distintivo tra le due figure della mediazione e del mandato nella specificità dell’incarico affidato ovvero ancora nell’autonomia organizzativa spettante al mandatario e non al mediatore; argomenti, questi, che non esprimono il senso della decisione impugnata, la quale è intesa, piuttosto, a rimarcare il carattere obbligatorio dell’incarico e la diretta riferibilità agli odierni ricorrenti dei compiti organizzativi affidati alla GE.FIN..

Per altro verso le censure all’esame si limitano a prospettare una valutazione alternativa rispetto a quella adottata dai giudici del merito – come ad es. sul punto della qualificazione della “commissione totale”, intesa dai giudici di appello come il compenso del mandatario per la sua complessiva attività e qualificata, invece, dai ricorrenti come provvigione per la mediazione – o, addirittura, propongono nuove questioni di fatto – quale, ad es.

quella della pretesa qualifica di broker della GE.FIN o della mancata previsione del rendiconto inammissibili come tali in questa sede e, comunque, non risolutive ai fini della qualificazione del contratto.

2.2. In definitiva, se si esclude il rilievo concernente il mancato affidamento alla GE.FIN di attività negoziali – rilievo, cui la Corte di appello ha contrapposto la non essenzialità della circostanza, in conformità a principi espressi da questo giudice di legittimità, secondo cui l’attività del mandatario può concretarsi anche nel compimento di atti volontari non negoziali, e, quindi, anche nello svolgimento di trattative (cfr. Cass. 04/03/2002, n. 3103) – i motivi all’esame, pur formalmente denunciando l’errato inquadramento dello schema legale negoziale, non si riferiscono alla qualificazione del rapporto contrattuale sotto l’aspetto della descrizione e della individuazione degli elementi tipici dello schema contrattuale assunto, ma attengono alla ricostruzione della volontà delle parti, la quale importa indagini e valutazioni di fatto che sono riservati al giudice del merito. Sotto questo profilo gli stessi motivi avrebbero richiesto la specifica indicazione delle regole ermeneutiche in concreto non osservate dai giudici di appello e soprattutto del modo in cui costoro si sarebbero discostati da tali regole (non essendo evidentemente sufficiente la mera enunciazione, contenuta nella rubrica del secondo motivo, della violazione dell’art. 1362 c.c., e segg.); mentre la censura del vizio motivazionale avrebbe richiesto la precisazione delle ragioni dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice, non essendo, all’uopo, sufficiente una semplice critica della decisione sfavorevole, formulata attraverso la mera prospettazione di una diversa (e più favorevole) interpretazione rispetto a quella adottata dai giudici a quibus (cfr. ex plurimis, Cass. 09/08/2004 n. 15381; Cass. 17/03/2005 n. 5788; Cass. 28/07/2005 n. 15804).

In conclusione il primo e il secondo motivo vanno rigettati.

3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia, in via subordinata, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione per contrasto con le risultanze documentali in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, sul punto della decisione impugnata con il quale è stato ritenuto che fosse stata acquisita la prova dell’adempimento da parte della mandataria GE.FIN. In particolare i ricorrenti lamentano la genericità del richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, alla “documentazione, prodotta in primo grado”; deducono, inoltre, che le risultanze della prova orale depongono nel senso che i contatti con la FIME LEASING vennero tenuti direttamente da essi ricorrenti e rilevano che anche le vicende relative alla perizia valutativa, per come riferite dall’architetto che ebbe a redigerla, dovrebbero condurre a conclusioni diverse da quelle cui è pervenuta la Corte di appello.

3.1. Si tratta di una tipica quaestio facti riservata al giudice del merito il cui apprezzamento, se informato ad esatti principi giuridici ed esente da vizi logici e motivazionali, si sottrae al sindacato di legittimità.

Nel caso all’esame i giudici di appello hanno ravvisato concordi elementi di conferma in ordine all’adempimento dell’incarico affidatole da parte della mandataria GE.FIN, desumendoli sia dalla documentazione relativa all’istruttoria del finanziamento, sia dalle deposizioni testimoniali, relative ai contatti intervenuti tra F.R. (all’epoca titolare della GE.FIN) e la FIME LEASING, sia ancora dalle vicende relative alla perizia valutativa degli immobili, con prestazione del compenso da parte della FIME LEASING, successivamente rimborsato dagli appellanti (in tal modo dimostrando di ricondurre al proprio interesse l’attività preliminare del finanziamento svolta dalla GE.FIN).

Contrariamente a quanto asserito da parte ricorrente, il richiamo alla documentazione “prodotta dall’appellante fin dal primo grado del giudizio, relativa ai vari aspetti dell’istruttoria in discussione” non è affatto generico; il tessuto motivazionale della sentenza censurata non presenta evidenti aporie di ragionamento che, sole, possono indurre a ritenere sussistente il vizio di assenza, contraddittorietà o illogicità di motivazione; nè è dato ravvisare alcun contrasto disarticolante tra il ragionamento seguito e le emergenze processuali. Peraltro parte ricorrente si limita a riportare brevi stralci o sintesi personali delle contestate risultanze probatorie, di modo che il motivo, sotto questo profilo, risulta carente di autosufficienza.

Va precisato che l’esattezza delle valutazioni espresse al riguardo dalla Corte di appello non può formare oggetto di contestazione in sede di legittimità, essendo notoriamente preclusi alla Corte di cassazione l’esame degli elementi fattuali e l’apprezzamento fattone dal giudice del merito al fine di pervenire al proprio convincimento.

Ciò che rileva in questa sede, dunque, è che i criteri di valutazione utilizzati nello specifico sono conformi alla norma generale espressa dall’art. 116 c.p.c., che – salvo i casi di prova legale – è quella del libero convincimento del Giudice, inteso come libertà di valutare gli elementi probatori, con il limite, qui rispettato di dare conto dei criteri adottati. La valutazione dei singoli e specifici elementi operata nella sentenza impugnata è, infatti, valutazione di merito, come tale non censurabile in sede di legittimità perchè sorretta da una motivazione congrua e logica.

Il motivo va, dunque, rigettato.

4. Con il quarto motivo di ricorso, svolto in via ulteriormente gradata, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1709 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e omessa e/o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, nonchè contraddittorietà della medesima per contrasto con le risultanze documentali in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Al riguardo parte ricorrente si duole che la sentenza impugnata – una volta adottata la qualificazione del rapporto come mandato -abbia ritenuto che il mandato stesso fosse necessariamente oneroso e non condizionato alla conclusione dell’affare. Deduce, dunque, sia la violazione dell’art. 1709 c.c., sia il vizio motivazionale, per non avere il giudice a quo neppure considerato che il corrispettivo era subordinato alla conclusione dell’affare, indipendentemente dal nomen iuris attribuito al contratto tra le parti.

4.1. Il motivo è inammissibile, perchè propone una questione nuova.

Invero – secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice – i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, statuizioni e questioni che abbiano formato oggetto del giudizio di merito, restando escluso, pertanto, che in sede di legittimità possano essere prospettate questioni nuove o nuovi temi di contestazione involgenti accertamenti di fatto non compiuti, perchè non richiesti, in sede di merito (Cass. 6 giugno 2000, nn. 7583 e 7579). In particolare, ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 12 settembre 2000, n. 12025, nonchè da ultimo, Cass. 9 aprile 2001, n. 5255, specie in motivazione).

Peraltro – avuto riguardo alla naturale onerosità del mandato, a prescindere dal buon fine dell’operazione – lo stesso motivo si rivela anche infondato, posto che nella specie sarebbe stato onere degli odierni ricorrenti di dimostrare che il pagamento del corrispettivo fosse subordinato alla conclusione dell’affare.

In definitiva il ricorso va rigettato.

In considerazione della natura delle questioni trattate e del diverso esito della controversia nei due gradi di merito si ravvisano giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 16 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2010

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