Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16630 del 03/07/2013


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Civile Ord. Sez. 2 Num. 16630 Anno 2013
Presidente: FELICETTI FRANCESCO
Relatore: CARRATO ALDO

ha pronunciato la seguente

contratto di
rendita
vitalizia

ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso (iscritto al N.R.G. 9099/11) proposto da:

BETTIO ANTONIO (C.F.: BTT NTN 45D19 G224I) e SCHIANO ADRIANA (C.F.: SCH DRN
45S62 F839K), rappresentati e difesi, in forza di procura speciale in calce al ricorso, dagli
Avv.ti Andrea Olivares, Manlio Schiano e Francesco Caffarelli e domiciliati presso lo studio
del terzo, in Roma, alla v. Tigré, n. 37; – ricorrenti principali contro
SANDI FERDINANDO (C.F.: SND FDN 36P12 G224X), rappresentato e difeso, in virtù di
procura speciale a margine del controricorso, dagli Avv.ti Carlo Bonino, Marco De
Cristofaro e Ezio Spaziani Testa ed elettivamente domiciliato presso lo studio del terzo, in
Roma, vial G. Mazzini, n. 146;
– controricorrenti — ricorrenti incidentali —

e
PIATTO PAOLA (C.F.: PTT PLA 38P36 G224E);

– intimata –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia n. 24/2011, adottata in sede di rinvio
e depositata il 13 gennaio 2011 (non notificata);

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Data pubblicazione: 03/07/2013

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 10 aprile 2013 dal

Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;
1))0ux ,A,o
sentiti gli AVv.ti Pasquale Porfilio per i ricorrenti principali e Ezie—Testa—Spaziani e

Marco De Cristofaro per i controricorrenti-ricorrenti incidentali;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

del ricorso incidentale.
FATTO E DIRITTO
1. Con atto di citazione del febbraio 1992, il sig. Sandi Ferdinando, quale procuratore
generale di Miron Giovanna, conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Padova, la
signora Piatto Paola e i coniugi Bettio Antonio ed Adriana Schiano, chiedendo – al fine
dell’ottenimento del rilascio del bene — che venisse dichiarata, in via principale, la nullità e,
in via subordinata, l’annullamento sia del contratto di rendita vitalizia (sul presupposto che
fossero frutto di macchinazione in danno della cedente), concluso con la Piatto il 5
dicembre 1984, a rogito del notaio Todeschini, con cui la Miron aveva ceduto alla Piatto la
nuda proprietà di un locale ad uso negozio (sito in Padova, piazza Cavour), in cambio di un
vitalizio di £ 7.000.000 all’anno, sia del successivo contratto, concluso dalla Miron, nella
qualità di procuratrice speciale della Piatto, con i predetti coniugi Bettio-Schiano il 20
novembre 1985, a rogito per notar Fassanelli, con il quale la Piatto aveva ceduto agli stessi
coniugi la nuda proprietà del medesimo locale al prezzo di £ 135.000.000, da pagarsi in
rate semestrali nei sette anni successivi.
Si costituivano in giudizio gli anzidetti coniugi Bettio-Schiano e la Piatto, che resistevano
alla domanda e formulavano, a loro volta, domanda risarcitoria in relazione all’art. 96 c.p.c.
Essendo sopravvenuto nelle more del giudizio il decesso della Miron Giovanni, la causa
veniva proseguita dal suo successore universale, Sandi Ferdinando, che l’aveva
rappresentata dapprima nella specificata qualità. Il Tribunale adito, con sentenza n. 550 del
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Costantino Fucci, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’accoglimento

2003, accoglieva la domanda principale e rigettava quella riconvenzionale, così
pervenendo alla dichiarazione di nullità del contratto di costituzione di rendita vitalizia (per
difetto del requisito essenziale dell’alea) e, conseguentemente, a quella di nullità del
contratto di cessione della nuda proprietà del 20 novembre 1985, non potendosi ritenere la
cedente quale titolare del diritto trasferito ai cessionari.

l’appellata avanzava, a sua volta, gravame incidentale allo scopo dell’ottenimento della
richiesta restituzione del bene oggetto della controversia, che non era stata disposta dal
giudice di prime cure.
La Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 878 del 2006, dichiarava l’estinzione del
giudizio limitatamente all’appello proposto nell’interesse della Piatto Paola, rigettava il
gravame principale formulato dai coniugi Bettio-Schiano ed accoglieva l’appello incidentale
formulato dal Sandi, onde, in parziale riforma della decisione impugnata, condannava i
menzionati coniugi a restituire, in favore del Sandi, il bene conteso, con conseguente
condanna degli appellanti principali soccombenti alla rifusione delle spese del grado.
I coniugi Bettio Antonio e Schiano Adriana proponevano ricorso per cassazione nei
confronti della richiamata sentenza della Corte veneta e, allo stesso modo, il Sandi
formulava ricorso incidentale. Questa Corte, con sentenza n. 10049 del 2008, riuniti i
ricorsi, rigettava il primo motivo del ricorso principale e il ricorso incidentale, mentre
accoglieva il secondo motivo dell’impugnazione principale, dichiarando l’assorbimento degli
altri motivi, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata in ordine al motivo
ritenuto fondato ed il rinvio della causa alla Corte di appello di Brescia.
Con l’indicata sentenza, questa Corte di legittimità ravvisava, innanzitutto, l’inammissibilità
del primo motivo svolto con il ricorso principale in ordine alla dedotta illegittimità della
dichiarazione di estinzione del giudizio limitatamente al gravame proposto nell’interesse
della Piatto, alla quale si correlava l’infondatezza del gravame incidentale (poiché la
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I tre convenuti in primo grado formulavano appello avverso la suddetta sentenza e

rinuncia all’appello era intervenuta, ad istanza della Piatto, con riferimento alla dichiarata
nullità del contratto di rendita vitalizia, concluso tra la stessa Piatto e la Miron); indi,
accoglieva il secondo motivo attinente all’omessa pronuncia sul motivo di appello, con il
quale i predetti coniugi avevano censurato la sentenza del primo giudice nella parte in cui
aveva dichiarato la nullità del contratto di rendita vitalizia tra la Miron e la Piatto, per difetto

proprietà) e l’obbligazione del vitalizio di sette milioni, omettendo di esaminare le altre
obbligazioni previste a carico della medesima Piatto, con conseguente necessità della
riconsiderazione della valutazione del rischio e, quindi, della sussistenza o meno dell’alea.
Con atto di citazione notificato il 31 luglio 2008 il Sandi Ferdinando riassumeva il giudizio in
sede di rinvio dinanzi alla designata Corte di appello di Brescia e i convenuti in
riassunzione si costituivano in tale sede.
Con sentenza n. 2 del 2011 (depositata il 13 gennaio 2011), l’adita Corte di appello
bresciana, pronunciando in sede di rinvio, respingeva l’appello proposto da Bettio Antonio e
Schiano Adriana avverso la sentenza n. 550 del 2003 del Tribunale di Padova e, di
conseguenza, condannava i medesimi alla rifusione delle spese, in favore di entrambe le
controparti, del celebrato giudizio di rinvio.
A sostegno della decisione adottata quale giudice di rinvio, la richiamata Corte territoriale,
evidenziate preliminarmente le caratteristiche del giudizio di rinvio (con l’individuazione dei
correlati poteri dello stesso giudice di rinvio) ed enucleata la portata del “decisum” della
suddetta sentenza della Corte di cassazione (considerando, pregiudizialmente, che sulla
pronuncia di estinzione, così precedentemente limitata, era ormai sopravvenuto il
giudicato), incentrava la propria analisi, in relazione agli effetti propriamente involti dalla
statuita cassazione in accoglimento del secondo motivo dell’appello principale, sul riesame
dell’accertamento — nel confrontare le pattuizioni intervenute tra la Miron Giovanna e la
Piatto Paola in uno alla situazione obiettiva configurabile alla data di perfezionamento del
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di alea, sulla base del mero confronto tra il valore dell’immobile ceduto (nei limiti della nuda

contratto di rendita vitalizia — relativo alla sussistenza o meno dell’elemento essenziale
dell’alea. E a tal proposito, in tali sensi delimitato il contenuto della sentenza di
annullamento adottata in sede di legittimità, la Corte di rinvio, dopo aver riesaminato tutti gli
elementi necessari ed individuate ed economicamente determinate, in particolare, le
prestazioni poste a carico della vitaliziante, confermava il giudizio, già espresso dal

Miron, tale da escludere il requisito dell’alea e, in definitiva, da determinare la nullità del
contratto per mancanza di causa”, da cui derivava la conseguenza che la nuda proprietà

dell’immobile oggetto della convenzione non era mai sta trasferita alla Piatto Paola, la
quale, quindi, non avrebbe potuta cederla ai coniugi Bettio-Schiano.
Avverso la suddetta sentenza adottata in sede di rinvio hanno proposto ricorso per
cassazione Bettio Antonio e Schiano Adriana, articolato in sette motivi, al quale ha resistito
con controricorso l’intimato Sandi Ferdinando, formulando contestualmente anche ricorso
incidentale, riferito ad un unico motivo. L’altra intimata Piatto Paola non ha svolto attività
difensiva nella presente sede di legittimità, mentre il ricorrente principale ha, a sua volta,
formulato controricorso nei confronti dell’avanzato ricorso incidentale.
I difensori dei ricorrenti principali e del ricorrente incidentale hanno, altresì, depositato
memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 del codice di rito civile.
2. Con il primo motivo i ricorrenti principali hanno dedotto — ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.
— la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 360,
366, 383. 384, 392, 394 c.p.c. e art. 111 Cost., sull’assunto presupposto che la Corte
bresciana, con la sentenza impugnata, aveva violato il principio di intangibilità della
sentenza della Corte di cassazione n. 10049 del 2008, poiché il giudice di rinvio si sarebbe
dovuto limitare soltanto a procedere alla valutazione del rischio che (invece) sussisteva e
non ad accertare se fosse ravvisabile l’elemento essenziale dell’alea riguardante il
..

contratto di rendita vitalizia dedotto in causa.
5

precedente giudice di appello, di “grave e profondo squilibrio originario in favore della

3. Con il secondo motivo gli stessi ricorrenti principali hanno denunciato — in relazione
all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. — l’assunta nullità della sentenza per violazione e falsa
applicazione degli artt. 1861 e segg., 1872, 1878 c.c. in combinato con gli artt. 1322, 1325,
1326, 1346, 1362 e segg., 1453, 1322, 1467, 1325, 1362 e segg. c.c., nonché degli artt.
112, 115, 116, 214, 215 c.p.c. . Con tale censura la difesa dei coniugi Bettio-Schiano ha

bis in idem”, per effetto della preclusione derivante dal giudicato interno riconducibile alla
predetta sentenza della Corte di cassazione, oltre che dai giudicati delle altre pregresse
sentenze intervenute tra le parti, deducendo, altresì, che la sentenza stessa si sarebbe
dovuta ritenere nulla laddove aveva interpretato le domande, le eccezioni e le deduzioni
delle parti con vizio ricollegabile alla violazione del principio della corrispondenza tra il
chiesto ed il pronunciato di cui al richiamato art. 112 c.p.c. .
4. Con il terzo motivo i coniugi Bettio-Schiano hanno censurato la sentenza impugnata — in
ordine all’art. 360 n. 3 c.p.c. — per nullità della sentenza in conseguenza della violazione
degli artt. 1704 e 1722 c.c., nonché degli artt. 305, 299 e 300 c.p.c., avuto riguardo alla
supposta illegittimità della dichiarazione di intervenuta estinzione del giudizio a causa della
tardiva costituzione dell’erede Sandi Ferdinando, a seguito del decesso della sua dante
causa.
5. Con il quarto motivo i ricorrenti principali hanno prospettato — avuto riguardo all’art. 360
n. 3 c.p.c. — la violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. in combinato con gli artt.
2909 c.c., 36 e 112 e seg., 167 c.p.c., in relazione all’art. 1325 c.c., 1350 n. 10, 2643, 2645,
1872 c.c. e 132 e 366 c.p.c.; nonché — con riferimento all’art. 360 nn.4 e 5 c.p.c. — il vizio di
omessa od insufficiente motivazione su fatti decisivi per il giudizio ex artt. 1325, 1872 in
combinato disposto con l’art. 112 c.p.c. . In particolare, con tale complessa doglianza, i
coniugi ricorrenti hanno denunziato l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui
aveva negato che la sentenza n. 1187 del 1992 del Tribunale di Padova (con la quale era
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inteso prospettare che la sentenza impugnata era incorsa nella violazione del “divieto del

stata respinta la domanda di risoluzione del contratto di rendita vitalizia proposta, in data 9
dicembre 1984, dalla Miron Giovanna nei confronti di Piatto Paola), divenuta
incontrovertibile perché non impugnata, costituisse giudicato sostanziale implicito esterno,
sul presupposto che la costituzione della rendita vitalizia e la cessione della nuda proprietà
dell’immobile per cui era causa erano rimaste incontestabilmente estranee alla anzidetta

caso di specie, era incontestabile che ricorresse l’identità delle domande proposte dalla
Miron Giovanna nel giudizio deciso con la richiamata sentenza n. 1187 del 1992 (passata
in giudicato) e quelle formulate nel giudizio introdotto da Sandi Ferdinando (quale
procuratore generale della Miron) con atto di citazione del 7 febbraio 1992, mediante il
quale era stata invocata la nullità del contratto di rendita vitalizia stipulato tra la Miron e la
Piatto e la conseguente nullità del contratto di cessione della nuda proprietà del 20
novembre 1985 in favore dei coniugi Bettio-Schiano, non potendosi ritenere la cedente
quale titolare del diritto trasferito ai cessionari. Pertanto, si sarebbe dovuto ritenere che si
era venuto legittimamente venuto a formare (per effetto del rigetto, con sentenza passata in
giudicato, della pregressa domanda di risoluzione) il giudicato sostanziale implicito —
rilevabile d’ufficio – sulla validità del contratto di rendita vitalizia, ovvero sulle questioni e
sugli accertamenti che avevano costituito il presupposto logico-giuridico ed indispensabile
della questione o dell’accertamento su cui era intervenuta la precedente sentenza del
Tribunale padovano, divenuta incontrovertibile.
6. Con il quinto motivo i medesimi ricorrenti principali hanno dedotto — ai sensi dell’art. 360
n. 3 c.p.c. — la violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 c.c., in combinato disposto con
gli artt. 100, 215, 1704, 1722, 1723, 1362 c.c., oltre che con gli artt. 221, 99, 115, 116, 214
e 215 c.p.c. e 111 Cost., congiuntamente alla violazione delle norme di ermeneutica di cui
agli artt. 1362 e segg. c.c. . Con la stessa doglianza risulta prospettata anche la nullità per
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia,
7

decisione. In senso contrario, i medesimi ricorrenti hanno inteso invece sostenere che, nel

avuto riguardo alla mancata valutazione della irrevocabilità della procura conferita alla
Miron dalla Piatto con riferimento alla successiva vendita intervenuta in favore degli stessi
coniugi ricorrenti.
7. Con il sesto motivo i predetti coniugi Bettio-Schiano hanno denunciato — ponendo
riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c. — l’omessa e falsa applicazione (ed interpretazione) degli

assorbimento dei temi correlati alla domanda di annullamento del contratto di rendita
vitalizia.
8. Con il settimo ed ultimo motivo i ricorrenti principali hanno dedotto — ai sensi dell’art. 360
nn. 3.e 5 c.p.c. – la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e segg. c.p.c., in combinato
disposto con gli artt. 10 c.p.c. e 6 D.M. n. 127 del 2004, in uno al vizio di omessa
motivazione, in ordine alla misura ed ai parametri applicati in funzione della liquidazione
delle spese processuali.
9. Con l’unico motivo di ricorso incidentale il Sandi Ferdinando ha denunciato il vizio di
nullità della sentenza e del procedimento, in relazione agli artt. 112 e 360, n. 4, c.p.c., per
essere la sentenza di rinvio incorsa in omissione di pronuncia relativamente al “petitum”
restitutorio, con riguardo all’immobile dedotto in controversia, formulato dalla parte attrice in
via consequenziale all’accoglimento delle proprie domande.
10. Ritiene il Collegio che appare preliminare esaminare il quarto motivo del ricorso
principale, il quale attiene alla questione della supposta operatività degli effetti del
prospettato giudicato esterno implicito sulla controversia in questione attinente all’azione di
nullità del contratto di rendita vitalizia concluso tra la Miron Giovanna e la Piatto Paola (e, di
conseguenza, del successivo contratto di cessione della nuda proprietà dell’immobile
intervenuto in favore dei coniugi Bettio-Schiano da parte della Piatto, per difetto di titolarità
del relativo diritto in capo a quest’ultima), che — ove dovesse ritenersi fondata — sarebbe

8

artt. 112, 115, 116 e 99 c.p.c., nonché 111 Cost. e 2697 c.c., con riferimento al ritenuto

decisiva ed assorbente delle altre questioni dedotte dai ricorrenti Bettio Antonio e Schiano
Adriana.
Orbene, per come desumibile dalla precedente narrativa del giudizio, la Corte di appello di
Brescia, con la sentenza qui impugnata, ha respinto la censura concernente la dedotta
preclusione derivante dal giudicato, costituitosi tra la Miron e la Piatto, in virtù della

incontrovertibile), che aveva rigettato la domanda di risoluzione del contratto di rendita
vitalizia tra le stesse intercorso il 9 dicembre 1984, poi posto a fondamento della
successiva azione di nullità e di annullamento del medesimo contratto introdotta da Sandi
Ferdinando (quale procuratore generale della predetta Miron Giovanna) con atto di
citazione del 7 febbraio 1992, a cui è riferita la sentenza della Corte bresciana adottata in
sede di giudizio di rinvio. Secondo lo stesso giudice di rinvio la suddetta sentenza n.
1187/1992 non si sarebbe potuta considerare idonea a spiegare gli effetti dell’eccepito
giudicato poiché, con essa, il Tribunale padovano si era limitato a scrutinare
(respingendola) la domanda di risoluzione, senza prendere alcuna posizione, neppure in
via meramente incidentale, in ordine al tema della validità originaria del contratto, mai
sottoposto al suo vaglio. Pertanto, alla stregua di tale situazione processuale, avrebbe
dovuto trovare applicazione, nella fattispecie, il principio in base al quale l’autorità del
giudicato sostanziale opera soltanto entro i limiti rigorosi degli elementi costitutivi
dell’azione e presuppone che tra la precedente causa e quella in atto sussista identità di
“petitum” e di “causa petendi”. Nella sentenza oggetto dell’attuale ricorso viene, in
proposito, posto riferimento al precedente giurisprudenziale di questa Corte riconducibile
alla sentenza n. 11356 del 2006, secondo il quale la rilevabilità officiosa della nullità del
contratto — ammissibile ai sensi dell’art. 1421 c.c. anche nell’ipotesi di domanda di
risoluzione dello stesso — non importa la necessaria declaratoria della detta invalidità con
efficacia irretrattabile di cosa giudicata, posto che, invero, il giudicato deve intendersi
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pregressa sentenza n. 1187 del 1992 del Tribunale di Padova (pacificamente divenuta

riferito alle ragioni concretamente poste a fondamento della domanda e divenute oggetto di
discussione e non esteso sempre e comunque all’intero rapporto dedotto in giudizio.
Senonché, la difesa dei ricorrenti principali ha inteso confutare questa parte della sentenza
impugnata sostenendo che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato,
anche nel caso di pronuncia di rigetto della domanda (come quella di risoluzione del

della vita chiesto dall’attore, ma anche a tutte quelle statuizioni inerenti all’esistenza ed alla
validità del rapporto dedotto in giudizio necessarie ed indispensabili per pervenire a quella
pronuncia (c.d. giudicato implicito) in quanto emergente da atti comunque prodotti nel corso
del giudizio di merito. In altri termini, secondo l’impostazione adottata dalla suddetta difesa,
il c.d. principio del “dedotto e deducibile” – in virtù del quale l’efficacia del giudicato si
estenderebbe, oltre a quanto dedotto dalle parti (giudicato esplicito), anche a quanto esse
avrebbero potuto dedurre (giudicato implicito) — concernerebbe le ragioni non dedotte che
si presentino come un antecedente logico-necessario rispetto alla pronuncia, nel senso che
dovrebbe ritenersi precluso alle parti stesse la proposizione, in altro giudizio, di qualsivoglia
domanda avente ad oggetto situazioni soggettive incompatibili con il diritto accertato.
In sostanza, con la censura cristallizzata nel quarto motivo del ricorso principale, i ricorrenti
Bettio-Schiano hanno posto essenzialmente a questa Corte la seguente questione
(naturalmente da attagliare al caso di specie): – dica la S.C. se e come, tra la questione
decisa in modo espresso (domanda di risoluzione rigettata) ed altra (validità del contratto a
cui era riferita la domanda di risoluzione) che (presupposta) ne costituisca antecedente
logico-giuridico per rapporto di indissolubile dipendenza, il giudicato esterno esplicito si
estenda anche alla questione ed agli accertamenti presupposti, senza i quali la prima
decisione emessa non avrebbe potuto essere resa (con la formazione sul punto del c. d.
giudicato implicito), con la conseguente inammissibilità di una successiva decisione sui
secondi in un diverso giudizio che investa direttamente gli stessi accertamenti, rilevabile
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contratto, nel caso di specie), estende i suoi effetti non solo alla decisione relativa al bene

d’ufficio — ove la questione sia stata dedotta nei gradi di merito e risulti documentalmente
acquisita o, comunque, verificabile “ex actis” – anche in sede di legittimità (cfr. Cass., S. U.,
n. 24664 del 2007).

Com’è risaputo, sulla questione prospettata (o, in ogni caso, su aspetti che la
presuppongono), è intervenuta recentemente la sentenza delle Sezioni unite n. 14828 del 4

ruolo che l’ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore
dell’assetto negoziale e atteso che la risoluzione contrattuale è coerente solo con
l’esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di
risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o
comunque emergenti “ex actis”, una volta provocato il contraddittorio sulla
questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purché non soggetta a regime
speciale (escluse, quindi, le nullità di protezione, il cui rilievo è espressamente
rimesso alla volontà della parte protetta); il giudice di merito, peraltro, accerta la
nullità “incidenter tantum” senza effetto di giudicato, a meno che sia stata proposta
la relativa domanda, anche a seguito di rimessione in termini, disponendo in ogni
caso le pertinenti restituzioni, se richieste”.
In tal modo, le Sezioni Unite hanno composto il contrasto emerso nella giurisprudenza della
di questa Corte intorno alla questione della rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto da
parte del giudice investito della domanda di risoluzione del contratto medesimo.
Come è noto, un orientamento (da ritenere verosimilmente prevalente) sosteneva che il
potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità del contratto ex art. 1421 c.c. dovesse
essere coordinato col principio della domanda, sancito dagli artt. 99 e 112 c.p.c., sicché il
giudice della risoluzione, dichiarando la nullità del contratto, sarebbe incorso in
ultrapetizione (tra le tante, Sez. L, 14 ottobre 2005, n. 19903, Rv. 584615; Sez. 2, 6 ottobre
2006, n. 21632, Rv. 592224; Sez. 2, 17 maggio 2007, n. 11550, Rv. 597799). Opposto
11

settembre 2012, che risulta massimata ufficialmente nei seguenti termini: “alla luce del

indirizzo riteneva che il giudice potesse rilevare d’ufficio la nullità del contratto, a norma
dell’art. 1421 c.c., anche se fosse stata proposta domanda di risoluzione, senza incorrere
nel vizio di ultrapetizione, atteso che la domanda di risoluzione implicitamente postula
l’assenza di ragioni che determinino la nullità del contratto (ex plurímis, Sez. 3, 22 marzo
2005, n. 6170, Rv. 581474; Sez. 3, 15 settembre 2008, n. 23674, Rv. 604877; Sez. 3, 7

impostazione, valutata come conforme al ruolo istituzionale della nullità, quale sanzione per
il disvalore dell’assetto negoziale, asserendo che l’azione di risoluzione è coerente solo con
l’esistenza di un contratto valido, ponendosi la nullità come evento impeditivo logicamente
anteriore alla fattispecie estintiva della risoluzione. La soluzione, peraltro vale — per quanto
emerge dal complessivo impianto motivazionale della sentenza delle Sezioni unite in
discorso – entro determinati limiti, nel senso che il giudice della risoluzione può rilevare
d’ufficio la nullità: – solo se questa emerge dai fatti allegati e provati o, comunque, ex actis;
solo previa attivazione del contraddittorio sulla questione, incorrendo altrimenti nel vizio
della c.d. terza via; – solo se non operi un regime speciale, essendo le nullità di protezione
espressamente rimesse al rilievo del contraente protetto; – senza effetto di giudicato, a
meno che sia stata proposta la relativa domanda, anche a seguito di rimessione in termini.
Più in particolare, nella parte finale della decisione, le Sezioni unite manifestano la
consapevolezza delle ricadute sul giudicato conseguenti alla ricostruzione sistematica
operata e stabiliscono i seguenti principi: – qualora, dopo il rilievo officioso, sia stata
formulata, tempestivamente o previa rimessione in termini, domanda volta all’accertamento
della nullità e ad eventuali effetti restitutori, la statuizione sul punto, se non impugnata, avrà
effetto di giudicato; – nel caso in cui sia omesso il rilievo officioso della nullità, e l’omissione
venga fatta valere in sede di appello, il giudice del gravame dovrà rimettere in termini
l’appellante; – ove non sia formulata tale domanda, il rilievo della nullità fa pervenire al
rigetto della domanda di risoluzione con accertamento “incidenter tantum” della nullità,
12

febbraio 2011, n. 2956, Rv. 616615). Le Sezioni Unite hanno privilegiato quest’ultima

dunque senza effetto di giudicato sul punto. Dopo l’esposizione di queste distinzioni, le
Sezioni unite concludono il percorso argomentativo affermando che “il giudicato implicito
sulla validità del contratto, secondo il paradigma ormai invalso (cfr. Cass. S.U.
24883/08; 407/11; 1764/11), potrà formarsi tutte le volte in cui la causa relativa alla
risoluzione sia stata decisa nel merito, con esclusione delle sole decisioni che non

Nella premessa logica di questa conclusione le Sezioni unite hanno recisamente sostenuto
che l’azione di risoluzione per inadempimento è coerente solo con l’esistenza di un
contratto valido, ragion per cui deve ritenersi che la nullità del contratto è un evento
impeditivo che si pone prioritariamente rispetto alla vicenda estintiva della risoluzione, onde
il giudice chiamato a pronunciarsi sulla risoluzione di un contratto, di cui emerga la nullità
dai fatti allegati e provati “ex actis”, non può sottrarsi all’obbligo del rilievo e ciò non
conduce ad una sostituzione dell’azione proposta con un’altra (con ordinanza interlocutoria
n. 21083 del 27 novembre 2012, questa Sezione ha, peraltro, rimesso al Primo Presidente
— in funzione dell’eventuale assegnazione delle Sezioni unite — la questione di massima di
particolare importanza relativa al punto se la nullità del contratto possa essere rilevata
d’ufficio non solo allorché sia stata proposta domanda di adempimento o di risoluzione del
contratto, ma anche nel caso in cui sia domandato l’annullamento del contratto stesso).
In sostanza, dunque, secondo tale approdo, la regola dell’art. 1421 c.c. non dovrebbe
ritenersi inapplicabile alla luce del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il
pronunciato, tutte le volte in cui la domanda di parte presupponga l’efficacia del contratto in
realtà nullo e tanto anche nell’ipotesi in cui l’azione introduttiva abbia ad oggetto la
domanda di risoluzione (cfr., sul punto, tra le pronunce più recenti prima dell’arresto delle
Sezioni unite del 2012, Cass., sez. I, 28 ottobre 2011, n. 22520; Cass., sez. III, 7 febbraio
2011, n. 2956, e Cass., sez. L., 16 agosto 2012, n. 14535, secondo la quale “il giudicato,
formatosi con la sentenza intervenuta tra le parfi, copre il dedotto e il deducibile in relazione
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contengano statuizioni che implicano l’affermazione della validità del contratto”.

al medesimo oggetto, e cioè non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in
giudizio, ma anche tutte le possibili questioni, proponibili sia in via di azione, sia in via di
eccezione, le quali, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici,
essenziali e necessari, della pronuncia”).
Sembrerebbe, dunque, che la sostanziale portata del principio affermato dalle Sezioni

consonante con la prospettazione della censura in esame di cui al quarto motivo del ricorso
principale.
Tuttavia, ritiene questo collegio che l’impostazione argomentativa di fondo e il risultato
sfociato nel riportato principio di diritto enunciato con la richiamata sentenza delle Sezioni
unite non siano pienamente condivisibili, richiedendosi un approccio più problematico e più
ampio sulla questione relativa alla individuazione delle condizioni per la formazione e
l’estensione dell’efficacia del c.d. giudicato implicito esterno riguardante la sentenza di
rigetto della domanda di risoluzione rispetto alla successiva azione di nullità concernente lo
stesso contratto.
Ritiene, perciò, il collegio di investire il Primo Presidente della riferita questione di massima
di particolare importanza ai fini dell’eventuale assegnazione della trattazione e della
decisione del ricorso alle Sezioni unite, anche — ove se ne ravvisino i presupposti – ai sensi
dell’art. 374, comma 3, c.p.c., per le ragioni che seguono.
In via pregiudiziale, sembra necessario soffermarsi (impregiudicata l’eventuale pronuncia
definitiva delle medesime Sezioni unite — di cui pure si invoca l’intervento sulla inerente
questione), sulla portata del “vincolo” derivante per le sezioni semplici ai sensi del citato art.
374, comma 3, c.p.c., come introdotto — innovativamente – dall’art. 8 del d. Igs. n. 40 del
2006. Si è affermato che, con tale disposizione, il legislatore ha inteso, sul piano
organizzatorio, coordinare, in termini di complementarietà, il ruolo specifico delle sezioni
semplici rispetto a quello delle Sezioni unite in funzione di una maggiore forza e stabilità
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unite, con la sentenza n.14828 del 2012, risulti fondamentalmente compatibile e

della nomofilassi. Peraltro, ad avviso degli orientamenti scientifici maggioritari, deve
discorrersi al riguardo di un vincolo strettamente processuale, nel senso che l’obbligo non è
di conformarsi nel contenuto, ma solo di non emettere una decisione di contenuto difforme,
dovendo il dissenso essere necessariamente sostanziato in una ordinanza con la quale
vengano investite della decisione le Sezioni unite. Peraltro, occorre evidenziare che il

termine proprio di “vincolo”), stabilisce che il potere-dovere della sezione semplice di
rimessione della decisione alle Sezioni unite va attivato allorquando “non condivida il
principio di diritto” precedentemente affermato da queste ultime in altra pregressa sentenza
od ordinanza, con le quali siano stati risolti contrasti giurisprudenziali tra le sezioni semplici
ovvero questioni di massima di particolare importanza (in relazione alla previsione di cui al
comma 2 dello stesso art. 374 c.p.c.). Sembrerebbe, quindi, che l’obbligo di conformazione
investa apparentemente il solo principio di diritto enunciato; tuttavia — ad avviso di questo
collegio (salva eventuale diversa determinazione delle stesse Sezioni unite) — questa
interpretazione restrittiva della norma, fondata sull’elemento meramente letterale, collide
con la concezione tradizionale del principio di diritto (secondo il disegno originariamente
descritto dal codice di rito nella disciplina dell’art. 384) inquadrato come atto di
“nomopoiesi”, ovvero come atto idoneo a dettare la “lex specialis” per il caso singolo
nell’ambito di un contesto di formazione progressiva della decisione, senza atteggiarsi
unicamente come enunciazione della “regula iuris” della decisione medesima. Del resto,
viene comunemente affermato che la “regula iuris” — come desumibile anche dallo studio
comparato dei sistemi fondati sullo “stare decisis” — può esaurientemente ricavarsi solo
dalla motivazione nella sua integralità e nel confronto con la fattispecie concretamente
esaminata, e non da una specie di “automassimazione” della pronuncia, con enucleazione
della “ratio decidendi”, da parte del collegio decidente.

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novellato comma 3 dell’art. 374 c.p.c. (nel quale non è, oltretutto, presente testualmente il

Ciò posto (e sollecitando l’intervento delle Sezioni unite anche su tale pregiudiziale
aspetto), si può passare alla disamina — in generale – della problematica relativa alla
individuazione dei presupposti per la configurazione e l’operatività del c.d. giudicato
implicito esterno (rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, anche d’ufficio, senza che sia
in ciò riscontrabile alcuna violazione dei principi del giusto processo: cfr., da ultimo, Cass.,

questione prospettata con il quarto motivo del ricorso principale e sulla quale non appaiono
del tutto condivisibili le posizioni assunte dalle Sezioni unite con la citata sentenza n. 14828
del 2012 (soprattutto con particolare riferimento al loro adattamento alla fattispecie
concreta riguardante la controversia dedotta in questo giudizio).
E’ risaputo che la teoria del giudicato implicito si basa sulla ritenuta sussistenza di un
ordine logico-giuridico precostituito di formulazione del giudizio, nel senso che all’interno
del quadro logico della decisione complessiva adottata in esito alle attività cognitive, si
innestano i passaggi di rito e/o di merito (i primi normalmente pregiudiziali rispetto ai
secondi), impliciti od espliciti, che conducono alla decisione finale.
Incentrando l’attenzione sul giudicato attinente alla questioni di merito, è risaputo che,
nell’ambito del processo civile, l’ordine con il quale il giudice ritiene di esaminare e decidere
le singole questioni attinenti al merito della causa in rapporto al “petitum” viene
tendenzialmente stabilito caso per caso, garantendosi la ricerca di un equilibrio fra la
discrezionalità attribuita al giudice nella selezione delle questioni da trattare in dipendenza
della necessità di procedere o meno ad un’istruzione probatoria di tipo costituendo (e,
quindi, in funzione del principio di economia processuale che giustifica il recepimento nel
nostro ordinamento processuale del c.d. “canone della ragione più liquida”) ed il principio
dispositivo che connota (soprattutto nei giudizi che investono diritti disponibili) il processo
civile. Ciò implica che l’unico limite che la valutazione del giudice incontra è costituito dalle
domande delle parti, che possono essere inserite nel giudizio anche ai sensi dell’art. 34
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sez. VI, ord. n. 12159 del 2011) che riveste un ruolo centrale ai fini della decisione sulla

c.p.c. per la cognizione degli eventuali accertamenti incidentali su cui sia necessario
decidere con efficacia di giudicato.
L’istituto del giudicato di merito implicito è, in generale, basato sulla teoria della
pregiudizialità logica (alla quale si sono ispirate anche le Sezioni unite nella sentenza n.
14828 del 2012), da cui si fa scaturire la conseguenza che la sentenza con la quale viene

questioni preliminari di merito che rappresentano le premesse logiche indispensabili della
pronuncia conclusiva di merito. Aderendosi a tale regola ne dovrebbe conseguire che la
sentenza finale di merito sarebbe idonea ad accertare automaticamente il fatto costitutivo
del diritto, oggetto preliminare di verifica giudiziale, anche se non vi sia stata alcuna
contestazione tra le parti del punto pregiudiziale e, dunque, non sia insorta alcuna
questione pregiudiziale nel processo, tecnica o logica che sia; da tale impostazione
dovrebbe derivare che, nei processi di impugnativa negoziale, oggetto del processo
dovrebbe essere, in ogni caso e prima di tutto, la validità (o l’invalidità) del contratto
impugnato, a prescindere da qualsiasi contestazione sul punto tra le parti. In tal senso
viene a risultare piuttosto sminuita, in virtù del ritenuto effetto preclusivo del giudicato
implicito, la portata della rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, ai sensi dell’art. 1421
c.c. (salvo fondare sulla questione uno specifico motivo di appello).
Aderendo a tale impianto argomentativo di fondo ne dovrebbe scaturire che il convenuto in
un causa di risoluzione, ove soccombente, non potrebbe più ottenere una declaratoria di
nullità del contratto risolto per inadempimento, malgrado la imprescrittibilità della relativa
azione, poiché si dovrebbe ritenere che il giudicato sulla risoluzione si sia implicitamente
esteso anche alla validità ed efficacia del contratto stesso, ancorché non abbia costituito
oggetto della dialettica processuale tra le parti.
Si pensi, in chiave problematica, anche all’ipotesi inversa in cui si pervenga all’emissione di
una sentenza di rigetto della domanda di risoluzione per motivi diversi dal rilievo della
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deciso il merito reca in sé necessariamente anche l’accertamento implicito di tutte le

nullità, come può accadere, ad esempio, sulla base dell’adesione al principio della ragione
più liquida ai fini della definizione della causa, per effetto della cui scelta la sentenza non
abbia avuto la necessità di occuparsi dell’esistenza, della validità e dell’efficacia del
rapporto contrattuale dedotto in giudizio. In questa ipotesi — secondo gli orientamenti
scientifici assolutamente predominanti — l’attore, consideratane l’imprescrittibilità, dovrebbe

impregiudicata la questione dal diverso oggetto del giudicato di rigetto, ovvero dal suo
motivo portante.
Proprio con riferimento alla fattispecie concreta oggetto della controversia in esame
emerge che, con la sentenza n. 1187 del 1992, il Tribunale di Padova aveva rigettato la
domanda di risoluzione per inadempimento del contratto di rendita vitalizia (in ordine a
quale, peraltro, l’eventuale invalidità per difetto dell’alea non poteva essere ravvisata “ex
se”, occorrendo, evidentemente, un’apposita istruttoria, che presupponeva la formulazione
di una preventiva eccezione o il rilievo d’ufficio, come è stato necessario esperire anche nel
giudizio di rinvio) proposta dalla Miron esclusivamente perché era risultato che non erano
state mai offerte le garanzie di cui si lamentava la diminuzione, così come, con riguardo
alle sentenze nn. 15011’89 e 3041’04 dello stesso Tribunale, con cui erano state respinte le
domande del Bettio intese ad ottenere il rimborso delle somme impiegate per i lavori di
straordinaria manutenzione eseguiti sull’immobile, il giudice adito non aveva operato alcun
accertamento sulla questione della validità (o della non validità) del contratto, mai divenuta
oggetto di contraddittorio tra le parti o di rilievo officioso. Pertanto, in conformità con la
sentenza in questa sede impugnata, sembra sostenibile che, in presenza di una pronunzia
di rigetto della domanda di risoluzione (la quale — come è noto — tende al conseguimento di
una pronuncia di natura costitutiva), il “dictum” giudiziale dovrebbe qualificarsi di per sé
inidoneo alla formazione del giudicato sul rapporto contrattuale quanto al profilo della
validità (o non validità) del medesimo, dovendo circoscriversi — a questi fini – la
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conservare il diritto di poter proporre l’azione di accertamento della nullità, risultando

configurabilità e l’operatività degli effetti del giudicato implicito alla sola ipotesi in cui la
decisione contenga statuizioni che implicano l’affermazione della validità del contratto
(come, del resto, risalta da un apposito passaggio finale — già precedentemente richiamato
– dell’impianto argomentativo della sentenza delle Sezioni unite n. 14828 del 2012, a pag.
13, paragr. 4.2., laddove, oltretutto, si pone riferimento a precedenti giurisprudenziali di

giurisdizione).
Del resto, non mancano pronunce nella giurisprudenza di legittimità con le quali è stato
statuito che “il giudicato implicito su questione preliminare di merito non può ritenersi
formato quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione
abbia assorbito ogni altra valutazione ed abbia indotto il giudice a decidere <>, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione
delle questioni’ (cfr., di recente, Cass., sez. II, 30 marzo 2012, n. 5148, con cui è stato

negato che, in forza di sentenza di rigetto di una domanda di rimozione di manufatti e di
risoluzione per inadempimento di un contratto verbale concernente diritti reali immobiliari,
dovesse intendersi formato un giudicato preclusivo dell’esame della questione relativa
all’esistenza ed alla validità del medesimo contratto). Il giusto equilibrio era, peraltro, già
stato raggiunto dalle enunciazioni della sentenza n. 11356 del 2006 (a cui si è ispirata la
Corte bresciana in sede di rinvio), con la quale era stato statuito che “la pronunzia di rigetto
(nella specie, della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento) non più
soggetta ad impugnazione non costituisce giudicato implicito – con efficacia vincolante nei
futuri giudizi – laddove del rapporto che ne costituisce il presupposto logico-giuridico non
abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice le
questioni concernenti l’esistenza, la validità e la qualificazione. Ne consegue che la
sentenza di rigetto della domanda di risoluzione del contratto adottata sulla base del
principio della c. d. “ragione più liquida” (in base al quale la domanda può essere respinta
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questa Corte che riguardano la formazione del giudicato sulla questione pregiudiziale di

sulla base della soluzione di una questione assorbente senza che sia necessario
esaminare previamente tutte le altre) ovvero emessa in termini meramente apodittici, senza
un accertamento effettivo, specifico e concreto del rapporto da parte del giudice, al punto
da risultare un evidente difetto di connessione logica tra dispositivo e motivazione, non
preclude la successiva proposizione di una domanda di nullità del contratto (che a norma

l’azione di adempimento ma anche se sia stata chiesta la risoluzione o l’annullamento o la
rescissione del contratto), in quanto in tal caso si fanno valere effetti giuridici diversi e
incompatibili rispetto a quelli oggetto del primo accertamento, sicché, trattandosi di diritti
eterodeterminati (per l’individuazione dei quali è cioè necessario fare riferimento ai fatti
costitutivi della pretesa che identificano diverse “causae petendi’), non può ritenersi che,
all’intero rapporto giuridico, ivi comprese le questioni di cui il primo giudice non abbia avuto
bisogno di occuparsi per pervenire alla pronunzia di rigetto, il giudicato si estenda in virtù
del principio secondo cui esso copre il dedotto ed il deducibile” (v., anche, in tal senso,

Cass. n. 21632 del 2006; Cass. n. 21266 del 2007 e Cass. n. 9395 del 2011).
In questo quadro complessivo, le Sezioni unite, con la sentenza n. 14828 del 2012, da un
lato, escludono che, senza un’espressa domanda di parte, la rilevazione officiosa della
nullità importi efficacia di giudicato sulla “non validità” del titolo, mentre, dall’altro lato,
ammettono la formazione di un giudicato implicito sulla validità del titolo allorché, omessa
l’indicazione prevista dall’attuale art. 183, comma 4, c.p.c., il giudice pervenga al rigetto
della domanda di risoluzione per aver escluso che il fatto allegato dall’attore costituisca
inadempimento o per altra ragione riconducibile al mancato assolvimento delle obbligazioni
pattuite. In altri termini, secondo tale impostazione, in quest’ultima eventualità si verrebbe a
formare un giudicato implicito sulla “non nullità” del contratto (ovvero sulla sua validità “ad
ogni effetto”, alla stregua dell’art. 2909 c.c.) con la conseguente preclusione dell’esercizio

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dell’art. 1421 c.c. il giudice deve rilevare anche d’ufficio non solo se sia stata proposta

di successive azioni dirette alla declaratoria della nullità del titolo tutte le volte in cui la
causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito.
Questa costruzione non sembra pienamente condivisibile e del tutto coerente perché
consente di ritenere, ad un tempo, che nel caso di rilevazione e trattazione della questione
preliminare di nullità del contratto su di essa non si formi mai un giudicato “a tutti gli effetti”

accertamento incidentale ai sensi dell’art. 34 c.p.c.) e, allo stesso tempo, di considerare
che, nell’ipotesi di rigetto della domanda di risoluzione causata dall’accertamento
dell’insussistenza dell’inadempimento e o della sua gravità, ciò sia idoneo a precludere
irrimediabilmente successive azioni volte a far dichiarare la nullità di quel medesimo
contratto. Come è stato osservato da acuti orientamenti dottrinali, sulla base di tale
approccio, si dovrebbe pervenire a sostenere che la questione della “non nullità” (e, quindi,
della sua validità) costituisca sempre e comunque (ossia in ogni caso in cui venga proposta
una domanda fondata sul contratto stesso) una questione pregiudiziale in senso
meramente logico, come tale sottratta al meccanismo previsto dall’art. 34 c.p.c., ovvero che
questa medesima questione pregiudiziale si inserisca nell’ambito di quelle da decidersi con
efficacia di giudicato ex art. 34 c.p.c. “per volontà di legge” (ma tale prospettiva è ripudiata
dalla stessa sentenza delle Sezioni unite n. 14828 del 2012 nel momento in cui si sostiene
la necessità di un’espressa domanda di parte).

In sostanza, deve ritenersi che l’affermazione — trasparente dalla sentenza n. 14828 del
2012 delle Sezioni unite – secondo la quale, nel caso in cui sia rilevata d’ufficio la questione
di nullità del contratto, la decisione su di essa non dà luogo a giudicato se non su esplicita
richiesta delle parti, non pare conciliabile con l’asserzione in virtù della quale, ove la
questione di nullità non sia sollevata, la decisione sulla risoluzione è idonea a determinare
la formazione di un giudicato implicito sulla “non nullità” del contratto stesso. Infatti, la
prima affermazione implica che si tratti di questione pregiudiziale non in senso logico, ma in
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se non quando sia stata, in proposito, formulata espressa domanda di parte (di

senso tecnico (alla quale si rivolge l’art. 34 c.p.c.), suscettibile di accertamento solo
“incidenter tantum” in mancanza di domanda di parte, cosicché sarebbe inidonea a
comportare la formazione di un giudicato implicito, il quale presuppone una pregiudizialità
in senso logico. Al riguardo costituisce principio pacifico (cfr. Cass., S.U., n. 2619 del
1975; Cass. n. 3248 del 2001; Cass. n. 14578 del 2005, ord.) che, in tema di questioni

investono circostanze che rientrano nel fatto costitutivo del diritto dedotto in causa e
devono essere necessariamente decise “incidenter tantum”, e questioni pregiudiziali in
senso tecnico, che concernono circostanze distinte ed indipendenti dal detto fatto
costitutivo, del quale, tuttavia, rappresentano un presupposto giuridico, e che possono dar
luogo ad un giudizio autonomo, con la conseguenza che la formazione della cosa giudicata
sulla pregiudiziale in senso tecnico può aversi, unitamente a quella sul diritto dedotto in lite,
solo in presenza di espressa domanda di parte di soluzione della questione stessa.
11. In definitiva, ritiene il collegio che, alla stregua dell’esposta disamina (ed, in
particolare, delle argomentazioni da ultimo svolte), di non poter pienamente
condividere il principio di diritto (e le relative motivazioni a sostegno) della sentenza
delle Sezioni unite n. 14828 del 4 settembre 2012, nella parte in cui, per un verso, si
afferma che, poiché la risoluzione contrattuale è coerente solo con l’esistenza di un
contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del
contratto, ha il potere-dovere, previa provocazione del contraddittorio sulla
questione, di rilevare ogni forma di nullità del contratto stesso (salvo che non sia
soggetta a regime speciale) e, per altro verso, si asserisce che il medesimo giudice
di merito accerta la nullità “incidenter tantum” senza effetto di giudicato, a meno
che non sia proposta la relativa domanda, pervenendosi, tuttavia, alla conclusione
che il giudicato implicito sulla validità del contratto si forma tutte le volte in cui la
causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito (e ciò deve ritenersi si

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pregiudiziali, occorre distinguere quelle che sono tali soltanto in senso logico, in quanto

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verrebbe a verificare – anche nell’ipotesi come quella specificamente ricorrente nella
controversia oggetto del ricorso in esame – di suo rigetto per effetto della ritenuta
“ragione più liquida”, ovvero in virtù dell’esclusivo esame di una questione
assorbente idonea, da sola, a sorreggere la decisione del giudice adito, che non
abbia richiesto alcuna valutazione — nemmeno meramente incidentale — sulle

La questione in discorso deve, perciò, essere rimessa al Sig. Primo Presidente di questa
Corte affinché — ritenuti sussistenti i presupposti indicati dall’art. 374, comma 3°, c.p.c. —
voglia sottoporla alla decisione delle Sezioni unite o, qualora ritenga che non ricorrano i
suddetti presupposti, voglia valutare l’emergenza delle condizioni per la rimessione della
medesima questione di diritto — da qualificarsi come di massima di particolare importanza
(ai sensi del citato art. 374, comma 2, c.p.c.) — alle stesse Sezioni unite.

P.Q.M.

Il collegio rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle
Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, comma terzo (o, in subordine, comma secondo), c.p.c.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio (appositamente riconvocata) della
Seconda Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, in data 11 aprile 2013.

questioni concernenti l’esistenza e la validità del contratto stesso).

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