Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16617 del 11/06/2021

Cassazione civile sez. I, 11/06/2021, (ud. 27/01/2021, dep. 11/06/2021), n.16617

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 35600/2018 R.G. proposto da:

S.L., rappresentato e difeso dall’Avv. Antonio Barone, con

domicilio in Roma, Piazza Cavour, prsso la Cancelleria civile della

Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Napoli depositato l’8 novembre

2018.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 27 gennaio

2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto dell’8 novembre 2018, il Tribunale di Napoli ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da S.L., cittadino del Gambia.

Premesso che a sostegno della domanda il ricorrente aveva riferito si essersi allontanato dal proprio Paese di origine a causa dei cattivi rapporti con gli zii paterni, che a seguito della morte dei genitori lo avevano maltrattato e cacciato di casa, il Tribunale ha rilevato che il racconto risultava estremamente scarno in ordine ai motivi del dissidio, osservando comunque che, in quanto avente carattere familiare, la vicenda non evidenziava alcun fumus persecutionis nè il rischio di subire un danno grave, nel senso previsto dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14. Ha aggiunto che l’affermazione contenuta nel ricorso, secondo cui il contrasto era dovuto all’omosessualità del ricorrente, era rimasta priva di riscontro, non essendo il S. comparso per rendere i necessari chiarimenti, nonostante la fissazione di un’apposita udienza, ed ha ritenuto altresì insussistente uno stato di violenza indiscriminata, dando atto dell’intervenuta modificazione della situazione politico-sociale del Gambia, per effetto dei mutamenti verificatisi a livello politico-istituzionale. Ha concluso pertanto per l’infondatezza delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, ritenendo altresì insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, anche in considerazione della mancata allegazione di una condizione di vulnerabilità personale del ricorrente.

2. Avverso il predetto decreto il S. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. Il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5 e D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e art. 27, comma 1-bis, osservando che il Tribunale ha fondato il proprio convincimento esclusivamente sulla credibilità delle dichiarazioni da lui rese e sull’insussistenza del rischio di persecuzione, senza esercitare i propri poteri officiosi di indagine per acquisire un’adeguata conoscenza della situazione socio-politica ed economica e delle disposizioni legislative e regolamentari del suo Paese di origine.

1.1. Il motivo è infondato.

In tema di protezione internazionale, il dovere, posto a carico del giudice dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, di acquisire informazioni in ordine alla reale ed attuale situazione del Paese di origine dello straniero non sorge per il solo fatto che sia stata proposta una domanda di protezione, postulando invece che il richiedente abbia adempiuto l’onere di allegazione dei fatti costitutivi del diritto azionato, mediante l’esposizione di una vicenda personale non solo intrinsecamente attendibile e plausibile sul piano razionale, ma anche idonea a giustificare il timore, da lui prospettato, di restare esposto, in caso di rimpatrio, ad atti persecutori, da intendersi nel senso di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 8, o ad un danno grave, nel senso di cui all’art. 14 del medesimo decreto. Le dichiarazioni rese dallo straniero, se non suffragate da prove, devono essere infatti sottoposte, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, ad un controllo di credibilità, avente ad oggetto da un lato la coerenza interna ed esterna delle stesse, ovverosia la congruenza intrinseca del racconto e la sua concordanza con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone, dall’altro la plausibilità della vicenda narrata, che deve risultare attendibile e convincente sul piano razionale, non comportando tale verifica un aggravamento della posizione del richiedente, il quale beneficia anzi di un’attenuazione dell’onere della prova, ricollegabile al dovere del giudice di acquisire d’ufficio il necessario materiale probatorio ed al potere di ritenere provate circostanze che non lo sono affatto, ferma restando, per l’appunto, la necessità che i fatti narrati superino il predetto vaglio di logicità (cfr. Cass., Sez. I, 4/11/2020, n. 24575; 7/08/2019, n. 21142). L’esito negativo del predetto controllo consente di escludere la necessità di approfondimenti istruttori ulteriori in ordine alla situazione in atto nel Paese di origine del richiedente, dal momento che il dovere di cooperazione istruttoria officiosa posto a carico del giudice dall’art. 8, comma 3, cit., non opera laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 20/12/2018, n. 33096; 19/02/2019, n. 4892).

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 7, 8 e 11 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, sostenendo che, nel rigettare la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, il decreto impugnato ha omesso di considerare che in caso di rimpatrio egli rischia di subire atti di violenza fisica e psichica, nei confronti dei quali le autorità statali non sono in grado di fornire protezione.

2.1. Il motivo è infondato.

Le liti tra privati non possono essere infatti addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di vicende estranee al sistema della protezione internazionale, in quanto non riconducibili nè alla lett. e), nè alla lett. g) dell’art. 2, dal momento che, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, la violenza o la minaccia proveniente da soggetti non statuali è configurabile come persecuzione o danno grave soltanto se lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano il territorio o una parte consistente dello stesso, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro di essa (cfr. Cass., Sez. VI, 23/10/2020, n. 23281; 1/04/2019, n. 9043). Correttamente, pertanto, il decreto impugnato ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, evidenziando il carattere meramente familiare della vicenda narrata, riflettente un contrasto tra il ricorrente e gli zii paterni del quale non erano stati neppure chiariti i motivi, nonchè l’età ormai adulta del S., perfettamente in grado di costruirsi un’esistenza autonoma, e la precisazione da lui compiuta nel corso del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, secondo cui egli era espatriato unicamente per cambiare vita. Nel censurare tale apprezzamento, il ricorrente lamenta la mancata valutazione delle violenze cui rimarrebbe esposto in caso di rimpatrio e dell’impossibilità di ottenere adeguata tutela nei confronti delle stesse, a causa della situazione d’insicurezza esistente in Gambia, omettendo tuttavia d’indicare la fase e l’atto in cui ne ha fatto menzione, ed incorrendo comunque in contraddizione con la dichiarazione, da lui stesso resa dinanzi alla Commissione territoriale e puntualmente riportata nel decreto impugnato, di non avere timori in caso di rimpatrio.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), rilevando che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, il decreto impugnato non ha tenuto conto dell’attuale situazione politico-sociale del Gambia, caratterizzata da violenza diffusa e non controllata dalle autorità statali, nè delle gravi violazioni dei diritti umani risultanti dalle principali fonti d’informazione.

3.1. Il motivo è inammissibile.

Ai fini dell’esclusione della configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), il Tribunale ha correttamente adempiuto il dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, avendo richiamato informazioni tratte da un rapporto dell’EASO relativo all’anno 2017, dalle quali ha desunto che, anche alla luce dei più recenti sviluppi della situazione socio-economica e politico-istituzionale del Gambia, derivanti dal superamento del regime dittatoriale verificatosi a seguito delle ultime elezioni presidenziali, non è riscontrabile in tale Paese uno stato di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato. Nel censurare il predetto apprezzamento, il ricorrente non è in grado d’indicare fonti d’informazione più aggiornate o pertinenti di quella richiamata nel decreto impugnato, ma si limita a segnalarne genericamente la reperibilità sui siti intemet del Ministero degli esteri o di Amnesty International, omettendo inoltre di riportarne il contenuto, con la conseguenza che il motivo risulta privo di specificità (cfr. Cass., Sez. I, 20/10/2020, n. 22769; 9/10/2020, n. 21932).

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, censurando il decreto impugnato per aver rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, senza tener conto della condizione di vulnerabilità da lui rappresentata, del rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti e della situazione d’instabilità politica e sociale del Gambia, caratterizzata da gravi violazioni dei diritti umani.

4.1. Il motivo è inammissibile.

Nel rigettare la domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, il decreto impugnato si è correttamente attenuto all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’applicazione di tale misura richiede una valutazione individuale, da condursi caso per caso, del livello di integrazione sociale e lavorativa raggiunto dal richiedente in Italia, comparato alla situazione personale in cui versava prima dell’abbandono del Paese di origine ed alla quale si troverebbe nuovamente esposto in conseguenza del rimpatrio, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare una privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, in misura tale da comprimerne il contenuto oltre il limite rappresentato dal nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. Cass., Sez. Un. 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. I, 30/03/2020, n. 7599; 23/02/2018, n. 4455). Il Tribunale ha infatti richiamato, per un verso, le informazioni acquisite in ordine alla situazione generale del Gambia, dalle quali ha desunto che in tale Paese non sussiste uno stato d’instabilità politico-sociale tale da pregiudicare l’esercizio dei diritti fondamentali, rilevando, per altro verso, che il ricorrente non rientrava in alcuna delle categorie di soggetti ritenute vulnerabili ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 20. Nel censurare tale apprezzamento, il ricorrente si limita ad insistere sulla sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione umanitaria, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel decreto impugnato, nonchè la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione, a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054; Cass., Sez. VI, 8/10/2014, n. 21257).

5. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2021

 

 

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