Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16610 del 15/07/2010

Cassazione civile sez. I, 15/07/2010, (ud. 15/06/2010, dep. 15/07/2010), n.16610

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. RORDORF Renato – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 694/2005 proposto da:

AZIENDA SANITARIA LOCALE N. (OMISSIS) – CHIERI (C.F. (OMISSIS)),

in

persona del Direttore Generale pro tempore, elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA PANAMA 12, presso l’avvocato COLARIZI Massimo, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati VECCHIONE MARIO,

GAIDANO FABRIZIO, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

IMPRESA GEOM. CARNIELLO RUGGERO & C. S.R.L. (C.F. (OMISSIS)), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, P.LE PORTA PIA, 121, presso l’avvocato

VACCARELLA Lucrezia, che la rappresenta e difende, giusta procura a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1342/2004 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 09/09/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

15/06/2010 dal Consigliere Dott. ALDO CECCHERINI;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato MARIO CONTALDI, con delega, che

ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato VITA LUCREZIA VACCARELLA

che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per l’inammissibilità del primo

motivo; assorbimento del quinto motivo; rigetto degli altri motivi.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atti di citazione notificati nel 1999 l’ASL n. (OMISSIS) di Chieri propose davanti alla corte d’appello di Torino impugnazione per nullità del lodo sottoscritto nel luglio dello stesso anno, con il quale era stata risolta la controversia relativa all’appalto per la ristrutturazione e l’ampliamento dell’ospedale (OMISSIS), aggiudicato con contratto del (OMISSIS) all’Impresa Ruggiero Carniello & C. s.r.l..

La corte d’appello dichiarò la nullità del lodo per non avere gli arbitri statuito, nella parte dispositiva, in ordine alla domanda di risoluzione per inadempimento dell’impresa avanzata dal Comune, e perchè la decisione sul punto non poteva desumersi dalle affermazioni contenute in motivazione.

Contro la sentenza entrambe le parti proposero ricorso per cassazione. Il ricorso principale dell’impresa, per la parte che ancora interessa, censurava le affermazioni della corte territoriale secondo cui il lodo sarebbe nullo, non contenendo pronuncia sulla domanda di risoluzione in dispositivo e perchè le affermazioni contenute in motivazioni sarebbero irrilevanti. Con la sentenza 25 luglio 2002 n. 10924 la corte accolse questi motivi, affermando il principio che la sentenza costituisce un tutto uno inscindibile, con la conseguenza che il dispositivo va coordinato con la motivazione, e che anaLogo principio va affermato rispetto al lodo, anche perchè nessuna disposizione normativa prescrive che il dispositivo sia formalmente distinto dalla motivazione e che debba, a pena di nullità, costituire la parte finale del lodo.

Riassunta la causa, la corte torinese, con sentenza 9 settembre 2004, respinse l’impugnazione del lodo arbitrale. La corte considerò che, nel lodo, il rigetto della domanda di rescissione era motivato con il richiamo al R.D. 25 maggio 1895, n. 350, art. 23, che disciplina le contestazioni dell’appaltatore alle prescrizioni impartitegli circa lavori non previsti in contratto, e prevede un particolare procedimento, culminante nelle decisioni definitive comunicate dal committente con ordini di servizio all’appaltatore, il quale è tenuto ad uniformarvisi; procedimento non rispettato dall’azienda la quale, solo in caso di rifiuto di rispettare l’ordine di servizio, avrebbe potuto adottare il provvedimento rescissorio. Nell’atto d’impugnazione la committente non aveva trattato la questione della violazione della norma applicata dal collegio arbitrale, vale a dire l’art. 23 del citato decreto, pur formalmente richiamato in rubrica, limitandosi ad argomentare in relazione alla non essenzialità del procedimento di cui all’art. 27 R.D. cit. (rescissione dei contratti), norma alla quale gli arbitri non avevano fatto alcun riferimento; solo nell’atto di riassunzione, per rimediare all’inammissibilità del motivo, l’azienda aveva dedotto che il cit.

R.D. n. 350 del 1895, artt. 21 e 23, non erano applicabili alla fattispecie, perchè l’art. 23 riguarda le contestazioni fra il direttore dei lavori e l’appaltatore, o il rifiuto dell’appaltatore basato sulla contrarietà delle prescrizioni ai patti, contrattuali.

Il motivo basato sull’art. 27 r.d. cit., era in ogni caso infondato, non potendosi omettere, in relazione all’esercizio del potere di rescissione del contratto, la procedura prevista da quella disposizione, con la comunicazione della relazione dell’ingegnere capo all’appaltatore e la fissazione di un termine da dieci a venti giorni per la presentazione di discolpe o dichiarazioni; nè v’era stata negligenza grave dell’appaltatore, tale non potendo qualificarsi la contestazione motivata dell’appaltatore, responsabile egli stesso delle soluzioni tecniche adottate nella costruzione.

Nella fattispecie, inoltre, gli arbitri avevano motivato il rigetto della domanda di risoluzione, escludendo che fosse ravvisabile un inadempimento del C. alle sue obbligazioni: giudizio condiviso dalla corte, non potendosi qualificare illegittimo il rifiuto di sottoscrivere l’atto di sottomissione, e ciò per le ragioni già indicate dagli arbitri a proposito della rescissione, sicchè non sussisteva il vizio denunciato di carenza assoluta di motivazione o incomprensibilità della stessa; mentre erano inammissibili le violazioni, non denunciate nell’atto d’impugnazione, delle norme concernenti l’esecuzione delle varianti, contenute nella L. 20 marzo 1865, n. 2248, artt. 343 e 344, all. F.. In ordine al quantum la liquidazione, eseguita in via equitativa, era immune dalla censura di violazione del D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 41, norma dettata per il recesso dell’amministrazione e inapplicabile nella fattispecie, nonchè dell’art. 30 del medesimo decreto, stante l’illegittimità della seconda sospensione dei lavori, imputabile a carenze progettuali.

Per la cassazione della sentenza, non notificata, ricorre l’azienda per sei motivi. Resiste la società appaltatrice con controricorso notificato in data 1 febbraio 2005.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si deducono violazioni di norme di diritto – specificamente, della L. n. 2248 del 1865, art. 340 e del R.D. n. 350 del 1895, artt. 23 e 27, tutte norme invocate già nell’impugnazione del lodo arbitrale – e vizi di motivazione. Si contesta che la denuncia di violazione dell’art. 23 R.D. cit. non fosse seguita, nell’atto d’impugnazione, dall’indicazione della ragione della doglianza, e si riporta a questo proposito un passo dell’atto medesimo, nel quale si addebitava agli arbitri di aver ignorato, laddove sostenevano che l’appaltante non avrebbe assunto un provvedimento contenente le “definitive decisioni” e la comunicazione del servizio, la convocazione dell’appaltatore con formale invito ad eseguire la variante e a sottoscrivere l’atto di sottomissione.

Questo motivo è infondato. Il giudice di rinvio ha rifiutato di esaminare il motivo – giudicato nuovo – d’impugnazione del lodo arbitrale esposto nell’atto di riassunzione, vertente sulla violazione (propriamente: sulla falsa applicazione) del R.D. 25 maggio 1895, n. 350, art. 23, siccome norma concernente le contestazioni tra direttore dei lavori e appaltatore e come tale estranea al thema decidendum (trattandosi nel caso presente di contrasto tra ente appaltante ed appaltatore). A ciò non può opporsi che nell’atto originario d’impugnazione il motivo vertente sul citato R.D. n. 350 del 1895, art. 23, non era soltanto enunciato in rubrica, ma sviluppato sotto il profilo che, diversamente da quanto ritenuto dagli arbitri, la norma in questione era stata sostanzialmente rispettata mediante la convocazione dell’appaltatore con formale invito ad eseguire la variante e a sottoscrivere l’atto di sottomissione. Quest’ultima censura è sostanzialmente diversa – ed anzi tendenzialmente incompatibile, vertendo sulla puntuale applicazione data alla norma, e non già sulla sua inapplicabilità nella definizione del giudizio – da quella sottoposta all’esame del giudice di rinvio, la cui decisione non è invalidata dal mezzo d’impugnazione in esame.

Con il secondo motivo, basato su vizi di motivazione e violazione dell’art. 1453 c.c. e L. n. 2248 del 1865, art. 340, l’azienda censura la statuizione di merito, che la corte territoriale ha fatto seguire all’affermazione preliminare d’inammissibilità del già ricordato motivo d’impugnazione del lodo arbitrale. Questo motivo è assorbito dal rigetto del precedente, e dalla conseguente intangibilità della statuizione di novità ed inammissibilità del motivo vertente sul R.D. n. 350 del 1895, art. 23.

Il terzo motivo verte sull’insufficiente motivazione del rigetto della domanda di risoluzione del contratto per violazione dell’art. 1453 c.c., argomentata nel lodo dall’assenza di presupposti per la rescissione. Si sostiene l’erroneità dell’interpretazione del lodo arbitrale, offerta dalla corte territoriale: questa attribuisce agli arbitri l’affermazione che l’appaltatore avrebbe motivatamente espresso le ragioni che non gli consentivano di accettare la variante richiesta dall’ente committente, mentre nel lodo la ragione della ritenuta illegittimità della rescissione sarebbe indicata nella mancanza, dopo il rifiuto di sottoscrizione dell’atto di sottomissione, di un nuovo ordine di servizio.

In proposito la corte territoriale, ricostruendo la vicenda, riferisce che, dopo la consegna, i lavori erano stati sospesi essendo emersi problemi di fondazione; che l’impresa aveva espresso il suo rifiuto all’esecuzione “dei nuovi e diversi lavori della prima perizia alle condizioni ed ai nuovi prezzi determinati autonomamente dai DD.LL.”, e aveva dichiarato che essa “avrebbe comunque eseguito la variante solo come nudus minister, ove venisse riconosciuto tale dalla stazione appaltante”. Tanto premesso, la corte ha ritenuto che nel lodo arbitrale il motivo del rigetto della domanda di risoluzione, per non essere emerso alcun inadempimento dell’appaltatore, fosse da condividere in relazione all’affermazione – contenuta nello stesso lodo a proposito della rescissione, e non fatta oggetto di specifica censura – che la contestazione motivata dell’appaltatore non è di per sè considerata una posizione inadempiente, in ossequio al riconosciuto valore dell’appaltatore imprenditore, quale tecnico dell’arte e come tale responsabile delle soluzioni tecniche adottate nella costruzione.

Non è possibile poi, in questa sede di legittimità, procedere in via autonoma all’interpretazione degli atti oggetto del processo, e in particolare del lodo arbitrale (neppure riportato nel ricorso), che non sono conosciuti dalla corte, trattandosi di questioni che, prospettate in questi termini, sono di puro merito.

Con il quarto motivo si lamenta che la corte di merito abbia dichiarato inammissibile il motivo d’impugnazione del lodo arbitrale basato sulla violazione della L. n. 2248 del 1965, artt. 343 e 344, con l’argomento che tali violazioni non erano state dedotte nell’atto d’impugnazione ma solo nell’atto di riassunzione. Nell’atto d’impugnazione l’azienda aveva invece dedotto come motivo di risoluzione del contratto il rifiuto di eseguire la variante.

Il mezzo è inammissibile, perchè non censura puntualmente la ratio decidendi della corte territoriale.

L’assunto che la risoluzione sarebbe stata richiesta per il rifiuto dell’appaltatore di “eseguire la variante” non significa che fosse stato chiesto l’annullamento del lodo per violazione dell’art. 343 e 344 della legge richiamata, che postulava l’intervenuto accertamento – riservato agli arbitri – degli elementi di fatto indicati nelle citate disposizioni quali presupposti dell’obbligo dell’atto di sottomissione (a sua volta presupposto dell’obbligo di eseguire la variante). La legittimità o illegittimità del rifiuto di eseguire la variante è cosa, infatti, essenzialmente diversa dal rifiuto di sottoscrivere l’atto di sottomissione alla variante. Questo secondo, e non il primo, era il vero tema cruciale della controversia, ma non si può sostenere che esso sia stato sottoposto al giudice, con l’argomento che il motivo d’impugnazione verteva sul rifiuto di eseguire la variante.

Con il quinto motivo si censura la liquidazione del danno da lucro cessante in ragione del 10% del contratto, per violazione del D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 41, e si propongono altre censure sulle voci di liquidazione del danno nel lodo arbitrale.

Il motivo è inammissibile, contenendo delle critiche formulate con diretto riferimento al lodo, e ignorando del tutto la motivazione della corte d’appello, la quale – per la natura stessa del giudizio – ha respinto il motivo d’ impugnazione del lodo, e non ha deciso sul punto la causa nel merito.

Il sesto motivo, vertente sulle domande risarcitorie dell’ASL, è assorbito dal rigetto dei precedenti.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 15.200,00, di cui Euro 15.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte Suprema di Cassazione, il 15 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2010

 

 

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