Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16610 del 11/06/2021

Cassazione civile sez. VI, 11/06/2021, (ud. 30/03/2021, dep. 11/06/2021), n.16610

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilia – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5524-2020 proposto da:

P.M.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

GOLAMETTO 4 (TEL 06.3724212), presso lo studio dell’avvocato LORENZO

GIUA, rappresentato e difeso dall’avvocato GIANGIACOMO ZANELLI;

– ricorrente –

contro

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI QUATTRO

VENTI, 68, presso lo studio dell’avvocato NICOLA SUPINO,

rappresentato e difeso dall’Avvocato PASQUALE SOLDANO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1433/2019 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 24/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 30/03/2021 dal Consigliere Relatore Dott. DELL’UTRI

MARCO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza resa in data 24/6/2019, la Corte d’appello di Bari, in parziale accoglimento dell’appello proposto da P.M.A., e in riforma, per quanto di ragione, della decisione di primo grado, ha confermato (sia pure per un importo inferiore) la condanna pronunciata dal primo giudice a carico di P.M.A. in favore di C.G., per avere il P. irregolarmente tenuto, nell’esercizio della propria attività professionale, le scritture contabili dell’impresa del C., e per aver omesso di restituirle tempestivamente all’avente diritto;

a sostegno della decisione assunta, la corte territoriale, per quel che rileva in questa sede, ha evidenziato l’infondatezza della censura avanzata in appello dal P. con riguardo alla pretesa erroneità della decisione del primo giudice nella parte in cui aveva riconosciuto la risarcibilità dei danni sofferti dal C. per l’irregolare tenuta delle relative scritture contabili (sostenendo, il professionista, che l’originario attore avesse limitato la propria pretesa alle sole conseguenze dannose della mancata restituzione di dette scritture), rilevando come la più estesa interpretazione della domanda risarcitoria avanzata dal Ce-lozzi trovasse piena corrispondenza nel contenuto letterale degli atti di causa;

avverso la sentenza d’appello, P.M.A. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi d’impugnazione; C.G. resiste con controricorso;

a seguito della fissazione della camera di consiglio, il ricorso è stato trattenuto in decisione sulla proposta di definizione del relatore emessa ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 163 c.p.c., nn. 3 e 4, e art. 183 c.p.c., comma 6, (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto che la domanda dell’originario attore ricomprendesse anche la rivendicazione dei danni dallo stesso subiti per l’irregolare tenuta delle scritture contabili, avendo viceversa il Ce-lozzi limitato la propria richiesta risarcitoria ai soli pregiudizi conseguenti alla mancata restituzione di dette scritture;

il motivo è inammissibile;

sul punto, osserva il Collegio come, nel considerare l’estensione della domanda risarcitoria al danno conseguente l’irregolare tenuta delle scritture contabili, la corte territoriale risulti essersi attenuta a canoni interpretativi della domanda non palesemente illogici o incongrui;

al riguardo, varrà richiamare il principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, alla stregua del quale l’interpretazione operata dal giudice di appello, riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale, è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tal riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (Sez. 2, Sentenza n. 4205 del 21/02/2014, Rv. 629624 – 01; Sez. L, Sentenza n. 17947 del 08/08/2006, Rv. 591719 – 01; Sez. L, Sentenza n. 2467 del 06/02/2006, Rv. 586752 – 01);

peraltro, il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto a uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Sez. 3, Sentenza n. 21087 del 19/10/2015, Rv. 637476 – 01);

nella specie, il ricorrente, lungi dallo specificare i modi o le forme dell’eventuale scostamento del giudice a quo dai canoni ermeneutici legali che ne orientano il percorso interpretativo (anche) della domanda giudiziale, risulta essersi limitato ad argomentare unicamente il proprio dissenso dall’interpretazione fornita dal giudice d’appello, così risolvendo le censure proposte ad una questione di fatto non proponibile in sede di legittimità;

con il secondo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per mancanza di adeguatezza, logicità e congruità della motivazione circa l’interpretazione della domanda dell’originario attore (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5), per avere la corte territoriale fatto proprio un’interpretazione della domanda dell’originario attore sulla base di una motivazione del tutto carente sul piano dell’adeguatezza e della congruità logica;

il motivo è inammissibile;

osserva il Collegio come al caso di specie (relativo all’impugnazione di una sentenza pubblicata dopo la data del 11/9/12) trovi applicazione il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (quale risultante dalla formulazione del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv., con modif., con la L. n. 134 del 2012), ai sensi del quale la sentenza è impugnabile con ricorso per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”;

secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, tale norma, se da un lato ha definitivamente limitato il sindacato del giudice di legittimità ai soli casi d’inesistenza della motivazione in sè (ossia alla mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, alla motivazione apparente, al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile), dall’altro chiama la corte di cassazione a verificare l’eventuale omesso esame, da parte del giudice a quo, di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. 19881; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830);

dovendo dunque ritenersi definitivamente confermato il principio, già del tutto consolidato, secondo cui non è consentito richiamare la corte di legittimità al riesame del merito della causa, l’odierna do-glianza del ricorrente deve ritenersi inammissibile, siccome diretta a censurare, non già l’omissione rilevante ai fini dell’art. 360 c.p.c., n. 5 citato, bensì la congruità del complessivo risultato della valutazione operata nella sentenza impugnata con riguardo all’intero materiale probatorio, che, viceversa, il giudice a quo risulta aver elaborato in modo completo ed esauriente, sulla scorta di un discorso giustificativo dotato di adeguata coerenza logica e linearità argomentativa, senza incorrere in alcuno dei gravi vizi d’indole logico-giuridica unicamente rilevanti in questa sede;

sulla base delle argomentazioni indicate, dev’essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso, cui segue la condanna del ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, secondo la liquidazione di cui al dispositivo;

dev’essere, infine, attestata la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.500,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile – 3, della Corte Suprema di Cassazione, il 30 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2021

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