Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16608 del 28/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 28/07/2011, (ud. 26/05/2011, dep. 28/07/2011), n.16608

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – rel. Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30039-2007 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro in carica,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

M.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA

GIULIANA 101 INT34, presso lo studio dell’avvocato D’ANDREA ROBERTO,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIOVAN CESARE,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 700/2007 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 24/07/2007 r.g.n. 2103/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/05/2011 dal Consigliere Dott. MAURA LA TERZA;

udito l’Avvocato GERARDIS CRISTINA;

udito l’Avvocato D’ANDREA ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso in quanto

inammissibile.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso alla Corte d’appello di Milano il Ministero della Giustizia impugnava la sentenza emessa dal Tribunale di Como con cui era stato condannato a pagare a M.N. le differenze retributive tra quanto spettante per l’espletamento delle mansioni corrispondenti all’inquadramento in CI presso l’ufficio Nep di Menaggio e quanto percepito, per il periodo dal 1999 al 2004, nonchè gli emolumenti percentuali previsti dal D.P.R. n. 1229 del 1959 e dagli artt. 2 e 6 del CCNL del 2002 per il periodo dal 24.4.2002 al 19.12.2004. Il M., che era in forza presso l’Unep di Como ed era inquadrato in B3, era stato applicato all’ufficio Nep di Menaggio per quattro giorni a settimana dal 22.3.99 al 31.12.99 e nel periodo successivo per tre giorni. La Corte adita osservava che l’art. 25 del contratto collettivo integrativo prevede l’inquadramento in C1 di chi, oltre a compiere gli atti demandati dalla legge all’ufficiale giudiziario, dirige unità organiche nell’ambito dell’ ufficio Nep, ovvero quest’ultimo nel suo complesso, quando, per le sue dimensioni, non sia necessaria l’ulteriore articolazione. Il M., oltre a lavorare nella sede di Como, aveva anche ricoperto, nell’ufficio di Menaggio, la posizione C1 che prevede appunto lo svolgimento promiscuo di mansioni di ufficiale a giudiziario e mansioni direttive di piccole unità; egli aveva dunque diritto, oltre alla indennità di missione, anche al trattamento economico complessivo corrispondente allo svolgimento di mansioni C1, che comprende anche i diritti di notificazione ed esecuzione effettuati. Il CCNL del 24.4.2002, art. 2 richiama del D.P.R. n. 1229 del 1959, l’art. 140 che prevede il cumulo della percentuale di cui all’art. 22 quando l’ufficiale giudiziario è addetto a più uffici. L’errore del Ministero nell’applicare la norma, osservava la Corte adita, poteva eventualmente essere fatto valere nel rapporto con gli altri ufficiali giudiziali, ma non poteva giustificare il mancato pagamento degli importi spettanti al lavoratore. Ma i Giudici d’appello affermavano che la superiore retribuzione spettava al M. anche nelle giornate in cui aveva lavorato a Menaggio per soli tre giorni a settimana, perchè si trattava di mansioni direttive, per le quali il medesimo aveva la rappresentanza esterna ed assumeva la responsabilità dell’ufficio, indipendentemente dalla presenza fisica sul luogo di lavoro, presenza che egli stesso programmava in relazione alle effettive esigenze di lavoro.

Avverso detta sentenza il Ministero della Giustizia ricorre con tre motivi.

Resiste il M. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denunzia violazione del D.P.R. n. 1229 del 1959, del D.P.R. n. 44 del 1990, del CCNL del comparto Ministeri e di quello integrativo del Ministero della Giustizia del 5 aprile 2000, nonchè difetto di motivazione e con il quesito si chiede di sapere se le mansioni svolte rientrino nella declaratoria C1 descritta nel contratto di comparto e di quello integrativo.

Questa parte del motivo è improcedibile per mancato deposito del contratto collettivo integrativo del Ministero della Giustizia del 5 aprile 2000, su cui il ricorso si fonda.

E’ stato infatti affermato (tra le tante Cass. n. 8231 del 11/04/2011) che “In tema di giudizio per cassazione, l’esenzione dall’onere di depositare il contratto collettivo del settore pubblico su cui il ricorso si fonda deve intendersi limitata ai contratti nazionali, con esclusione di quelli integrativi, atteso che questi ultimi, attivati dalle amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, se pure parametrati al territorio nazionale in ragione dell’amministrazione interessata, hanno una dimensione di carattere decentrato rispetto al comparto, e per essi non è previsto, a differenza dei contratti collettivi nazionali, il particolare regime di pubblicità di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 5”.

In mancanza della pubblicità legale, il contratto integrativo invocato doveva essere allegato al ricorso. Al riguardo è stato ritenuto (Cass. n. 3689 del 15/02/2011) che, “A norma dell’art. 369 c.p.c., commi 1 e 2, n. 4), la parte che propone ricorso per cassazione è tenuta, a pena di improcedibilità, a depositare gli atti e i documenti sui quali il medesimo si fonda; ne consegue che, qualora venga invocato, a sostegno del ricorso, un determinato atto del processo, il ricorso deve essere dichiarato improcedibile ove la parte non abbia provveduto al deposito di tale atto, e ciò anche se il ricorrente abbia depositato l’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio del giudizio “a quo”, a norma del medesimo art. 369, comma 3″.

Con l’ordinanza n. 7161 del 25/03/2010, le Sezioni unite di questa Corte hanno precisato che “In tema di ricorso per cassazione, l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre a richiedere 1′ indicazione degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento risulti prodotto;

tale prescrizione va correlata all’ulteriore requisito di procedibilità di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, per cui deve ritenersi, in particolare, soddisfatta: a) qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purchè nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile”.

Nella specie non si è neppure indicato che il contratto integrativo era stato prodotto nel fascicolo di merito, onde il primo motivo è improcedibile.

2. Quanto al difetto di motivazione, di cui al secondo mezzo, si contesta che le maggiori retribuzioni spettino anche per i giorni non lavorati nell’ufficio Unep di Menaggio.

La censura va rigettata dal momento che i Giudici di merito hanno affermato che le mansioni dirigenziali presso quell’ufficio erano prevalenti rispetto a quelle di B3 svolte a Como, anche nei giorni non cui non si recava a Menaggio; si tratta di un giudizio di merito, motivato dal fatto che anche in quei giorni il M. si assumeva la responsabilità dell’ufficio, indipendentemente dalla presenza sul luogo di lavoro, anche perchè era lo stesso M. a programmarla a seconda delle effettive esigenze di lavoro. Si tratta di apprezzamento di merito, privo di vizi logici, nè è stata lamentata la mancata valutazione di circostanze decisive di segno contrario, onde la censura va rigettata.

Con il terzo mezzo si denunzia violazione del CCNL del 1999, del D.P.R. n. 1229 del 1959, artt. 2 e 6, del D.Lgs. n. 237 del 1997, artt. 122, 139, 140, 147 e 167 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 45 e 64. Il motivo è inammissibile, perchè, nonostante sia dedotta la violazione di legge, manca completamente il quesito di diritto.

In relazione al quesito di diritto, l’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, (applicabile, ai sensi dell’art. 27, comma 2, di detto decreto, ai ricorsi per cassazione proposti avverso sentenze rese pubbliche in data successiva all’entrata in vigore del decreto stesso, come nella specie) stabilisce che l’illustrazione di ciascun motivo di ricorso proposto ai sensi del precedente art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3, e 4, debba concludersi, a pena d’inammissibilità del motivo, con la formulazione di un quesito di diritto. Attraverso questa specifica norma, in particolare, il legislatore si propone l’obiettivo di garantire meglio l’aderenza dei motivi di ricorso (per violazione di legge o per vizi del procedimento) allo schema legale cui essi debbono corrispondere. La formulazione del quesito funge da prova necessaria della corrispondenza delle ragioni del ricorso ai canoni indefettibili del giudizio di legittimità, inteso come giudizio d’impugnazione a motivi limitati. Ne consegue non solo che la formulazione del quesito di diritto previsto da detta norma deve necessariamente essere esplicita, in riferimento a ciascun motivo di ricorso (cfr., in tal senso, Sez. un, n. 7258 del 2007, e Cass. n. 27130 del 2006), ma anche che essa non deve essere generica ed avulsa dalla fattispecie di cui si discute (cfr. Sez. un. n. 36 del 2007), risolvendosi altrimenti in un’astratta petizione di principio, perciò inidonea tanto ad evidenziare il nesso occorrente tra la singola fattispecie ed il principio di diritto che il ricorrente auspica sia enunciato, quanto ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio, ad opera della Corte, in funzione nomofilattica. Inoltre la Corte, con la sentenza 26 marzo 2007 n. 7258 delle sezioni unite, ha affermato che la disposizione non può essere interpretata nel senso che il quesito di diritto si possa desumere implicitamente dalla formulazione del motivi di ricorso, perchè una tale interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma.

Il motivo va quindi dichiarato inammissibile.

In definitiva il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro per esborsi e in duemila Euro per onorari, oltre spese generali, Iva e CPA. Così deciso in Roma, il 26 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2011

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