Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16601 del 15/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 15/07/2010, (ud. 16/06/2010, dep. 15/07/2010), n.16601

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1054/2007 proposto da:

M.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI

SCIPIONI 268/A, presso lo studio dell’avvocato PETRETTI Alessio, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SAPONARO MARIO E.

giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario

della Società di Cartolarizzazione dei crediti INPS, S.C.CI. S.p.A,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLA FREZZA N. 17, presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli

avvocati MARITATO Lelio, CORETTI ANTONIETTA, CORRERA FABRIZIO, giusta

delega in calce al controricorso;

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI

INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE N. 144,

presso lo studio degli avvocati ZAMMATARO VITO, PIGNATARO ADRIANA,

che lo rappresentano e difendono giusta mandato in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 315/2006 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 16/09/2006 R.G.N. 446/05;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

16/06/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato CATALANO GIANDOMENICO per delega ZAMMATARO VITO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

Con sentenza n. 222/05 il Tribunale di Bergamo respingeva la domanda, proposta da M.V., personalmente e quale legale rappresentante della Costruzioni Martinengo s.r.l., di accertamento negativo delle pretese Inps ed Inail, di cui al verbale di ispezione in data (OMISSIS), concernenti, tra l’altro, il versamento di contribuzione inferiore a quella dovuta per l’indebito scomputo di permessi accordati ai dipendenti ma non riconosciuti dalla normativa in vigore e la omessa denuncia del rischio per l’attività svolta da alcuni dipendenti anche in cantiere.

Avverso tale sentenza proponeva appello il M. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento delle domande originariamente proposte.

La Corte di Appello di Brescia, con sentenza in data 8.6.2006, rigettava il gravame.

In particolare la Corte territoriale rilevava, per quel che riguarda la posizione assicurativa Inps, che il D.L. 23 giugno 1995, n. 244, art. 29, comma 1, convenuto in L. 8 agosto 1995, n. 341, definiva la retribuzione imponibile ai fini contributivi per il settore edile con riferimento a quella stabilita dai contratti collettivi nazionali o integrativi per un numero di ore settimanali non inferiore a quello previsto dai contratti medesimi, e procedeva poi ad escludere dall’orario così determinato specifiche ipotesi di sospensione tutelata del rapporto (malattia, infortunio, sciopero ed altro), stabilendo altresì che ipotesi ulteriori potevano essere introdotte con apposito decreto ministeriale. La struttura della norma deponeva quindi per la tassatività delle ipotesi di sospensione del rapporto lavorativo che potevano incidere sul minimale contributivo.

Con il D.M. 16 dicembre 1996, erano state introdotte altre ipotesi di sospensione del rapporto lavorativo rilevanti al tal fine, fra cui quella dei “permessi individuali non retribuiti nel limite massimo di quaranta ore annue”. Rilevava la Corte Territoriale che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, in tali ipotesi non potevano essere ricondotte quelle di cui agli artt. 40 e 90 del contratto collettivo di settore relative, rispettivamente, alla aspettativa sino a quattro settimane all’anno per motivi di studio, di famiglia o personale, ed ai permessi facoltativi in aggiunta a quelli obbligatori che potevano essere concessi dal datore di lavoro;

e ciò sia perchè il permesso per una o più ore è istituto contrattuale diverso dalla aspettativa, sia perchè il D.M. si riferiva ai permessi dovuti e non a quelli facoltativi.

Per quel che riguarda la posizione assicurativa Inail rilevava che, per quattro dipendenti denunciati come addetti ai lavori d’ufficio, la prova testimoniale assunta aveva evidenziato che gli stessi si recavano sistematicamente nei cantieri della società appellante, di talchè ben diverso era il rischio fra i due tipi di attività, ai fini dell’applicazione della tariffa prevista dall’Inail.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione M. V. con due motivi di impugnazione.

Resistono con separati controricorsi gli Istituti intimati.

Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Col primo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. 8 agosto 1995, n. 341.

In particolare rileva il ricorrente che le ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, della aspettativa non retribuita sino a quattro settimane all’anno per motivi di studio, di famiglia o personale, e dei brevi permessi facoltativi concessi dall’azienda con facoltà di non corrispondere la retribuzione per il relativo tempo di assenza dal lavoro, esulano dalla elencazione dei casi di esclusione dal prospettato orario normale di lavoro contrattuale previsti dalla predetta L. n. 341 del 1995, in quanto incidono non sulla durata del normale orario di lavoro, ma solo sull’importo del minimale contributivo atteso che, essendo sospesa consensualmente sia l’obbligazione di prestare l’attività lavorativa che l’obbligazione di corrispondere la retribuzione, il detto minimale subisce una consequenziale riduzione.

Col secondo motivo di gravame il ricorrente lamenta insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla mancata denuncia dell’effettivo rischio a carico dei quattro dipendenti indicati.

Rileva in particolare che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, l’istruttoria esperita aveva evidenziato che i detti dipendenti svolgevano mansioni corrispondenti alle voci di rischio assicurate, effettuando la loro attività lavorativa prevalentemente in ufficio.

Il primo motivo di gravame non è fondato.

L’assunto di parte ricorrente muove in buona sostanza dal rilievo della non tassatività delle ipotesi previste dalla L. n. 341 del 1995, di riduzione del minimale contributivo, siccome confermato dalla possibilità di introdurre ulteriori ipotesi con apposito decreto ministeriale, alla stregua del principio di carattere generale per cui il minimale contributivo previsto dalla legge predetta non si applica nelle ipotesi nelle quali, in pendenza di rapporto di lavoro, non sia dovuta alcuna prestazione lavorativa, nè alcuna retribuzione quale corrispettivo di tale prestazione.

Il Collegio non ignora che tale assunto ha trovato in passato l’avallo di questa Corte laddove è stato evidenziato come per le imprese edili, nelle ipotesi in cui, sia pure temporaneamente, non sorgeva, in dipendenza della consensuale sospensione del rapporto di lavoro, nè l’obbligazione di prestare lavoro nè l’obbligo di corrispondere la retribuzione, non poteva trovare applicazione il minimale contributivo di cui alla L. n. 341 del 1995, art. 29 (Cass. sez. lav., 24.1.2006 n. 1301; Cass. sez. lav. 7.3.2007 n. 5233; Cass. sez. lav., 9.2.2009 n. 3176).

A tale orientamento peraltro questa Corte ha ritenuto di non dovere dare seguito evidenziando, nella recente sentenza di questa Sezione n. 21700 del 13.10.2009, la diversità della ratio che sorregge tutti i casi normativamente previsti di riduzione del minimale contributivo, accomunati dal fatto che si tratta di situazioni in cui la legge impone al datore di lavoro di sospendere il rapporto lavorativo, rispetto alla ratio sottesa alle ipotesi in cui la detta sospensione derivi da una libera scelta del datore e sia frutto di un accordo intervenuto tra le parti.

Ed invero, ove non sia ravvisabile il presupposto previsto dalla legge, non può modificarsi l’interpretazione della legge fondata sul chiaro tenore letterale della stessa, e basata altresì sulla esistenza del presupposto in parola, avendo la norma una chiara finalità antielusiva.

A ciò deve aggiungersi che la lettura della norma proposta da parte ricorrente verrebbe a tradursi in una vera e propria interpretazione analogica, in quanto comporterebbe l’applicazione ad un caso non regolato dalle legge di una regola dettata per un caso previsto;

orbene, anche a prescindere – per come detto – dalla mancanza di una ratio comune che non consentirebbe la interpretazione proposta, deve evidenziarsi che l’interpretazione analogica non è consentita quando ha per oggetto norme che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi.

Ed infine occorre osservare, per come già rilevato nella predetta sentenza 13.10.2009 n. 21700, che il legislatore, con la L. n. 341 del 1995, all’art. 29, dopo aver dettato le eccezioni alla regola prevista dalla prima parte, si è posto il problema della possibile estensione ad altri casi, risolvendolo mediante il conferimento di tale potere ad un decreto ministeriale, implicitamente escludendo quindi che la medesima operazione potesse essere effettuata mediante altri atti (atti di autonomia privata, collettiva o individuale;

circolari, anche se provenienti dallo stesso Inps).

Il suddetto motivo di gravame non può pertanto trovare accoglimento.

Del pari infondato si appalesa il secondo motivo di gravame.

Sul punto osserva innanzi tutto il Collegio che il ricorrente per cassazione, ove deduca l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata in relazione alla erronea valutazione delle risultanze probatorie, ha l’onere di indicare in maniera adeguata e specifica le risultanze medesime, riportando nel ricorso, qualora si tratti di rilevata erronea valutazione delle deposizioni testimoniali assunte, il contenuto delle deposizioni predette, onde consentire a questa Corte, per il principio dell’autosufficienza del ricorso, di valutare l’esistenza del vizio denunciato senza dover procedere ad un (non dovuto) esame dei fascicoli – d’ufficio o di parte – che a tali atti facciano riferimento (Cass. sez. 1^, 17.7.2007 n. 15952; Cass. sez. 1^, 13.12.2006 n. 26693; Cass. sez. 3^, 24.5.2006 n. 12362).

In proposito ritiene altresì il Collegio di dover ribadire il consolidato indirizzo giurisprudenziale in base al quale “la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, …. come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive” (Cass. sez. lav., 20.3.2008 n. 7600; Cass. sez. lav., 8.3.2007 n. 5286; Cass. sez. lav., 15.4.2004 n. 7201; Cass. sez. lav., 7.8.2003 n. 11933;

Cass. sez. lav., 9.4.2001 n. 5231).

Nè può diversamente opinarsi argomentando dal fatto che l’art. 360 c.p.c., prevede, al n. 5, la valutazione della omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, avendo questa Corte rilevato che “il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. sez. lav., 19.3.2009 n. 6694; Cass. sez. lav., 2.2.2007 n. 2272; Cass. sez. lav., 7.6.2005 n. 11789).

Posto ciò osserva il Collegio che nel caso in esame la Corte territoriale ha rilevato che la prova testimoniale assunta aveva evidenziato che i quattro lavoratori in questione si recavano sistematicamente, con permanenze più o meno prolungate e per mansioni diverse, nei cantieri della società al fine di procedere ai tracciamenti, alle rilevazioni e stime per gli stati di avanzamento lavori ed alle operazioni proprie della qualifica (deposizioni B., G. e Me.); ribadendo la differenza di rischio fra il lavoro in ufficio e l’attività svolta in un cantiere edile, indipendentemente dal fatto che le permanenze sul cantiere potessero essere di durata limitata o saltuarie.

E pertanto, dal momento che il giudice di merito ha illustrato le ragioni che rendevano pienamente contezza del proprio convincimento e dell’iter motivazionale attraverso cui lo stesso era pervenuto alla valutazione delle risultanze probatorie poste a fondamento della propria decisione, resta escluso il controllo sollecitato in questa sede di legittimità. Il vizio non può invero consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove rispetto a quello dato dal giudice di merito, cui spetta in via esclusiva individuare le fonti del suo convincimento e a tal fine valutare le prove e controllarne la concludenza.

In conclusione, il motivo si risolve in parte qua in un’inammissibile istanza di riesame della valutazione del giudice d’appello, fondata su tesi contrapposta al convincimento da esso espresso, e pertanto non può trovare ingresso (Cass. sez. lav., 28.1.2008 n. 1759).

Il ricorso non può pertanto trovare accoglimento.

Ricorrono giusti motivi, in considerazione della peculiarità delle questioni affrontate che hanno dato esito a differenti decisioni da parte di questa Corte, per compensare interamente tra le parti le spese relative al presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 16 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2010

 

 

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