Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16600 del 05/08/2016

Cassazione civile sez. un., 05/08/2016, (ud. 21/06/2016, dep. 05/08/2016), n.16600

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente aggiunto –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di sez. –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. BIELLI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

R.A.M., residente a (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in Roma, viale di Porta Tiburtina n. 30, presso lo studio

dell’avvocato Vincenzo Rosanò, e rappresentato e difeso, giusta

procura speciale in calce al ricorso, dall’avvocato Renato Chiesa

del foro di Cagliari;

– ricorrente –

contro

Ministero della giustizia, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato ope legis in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per

legge;

– controricorrente –

e

Procuratore generale presso la Corte di cassazione;

– intimato –

avverso l’ordinanza n. 6 del 2016 della sezione disciplinare del

Consiglio Superiore della Magistratura, depositata il 19 gennaio

2016, notificata il 29 gennaio 2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21

giugno 2016 dal consigliere relatore dottor Stefano Bielli;

udito, per il ricorrente, l’avvocato Renato Chiesa, che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l’avvocato dello Stato Giammario

Rocchitta, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;

udito il P.M., nella persona del sostituto Procuratore generale

dottor PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

FATTI DEL PROCESSO

1.- Con ordinanza n. 6/2016, deliberata il 15 dicembre 2015, depositata il 19 gennaio 2016 e notificata il 29 gennaio 2016, la sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura dichiarava inammissibile l’istanza in data 30 settembre 2015 con la quale il magistrato ordinario dottor R.A.M. aveva chiesto, in via principale, la declaratoria di estinzione del procedimento disciplinare o, in subordine, la revisione della sentenza n. 1/2007, emessa dalla medesima sezione e depositata il 17 febbraio 2007, che aveva inflitto nei suoi confronti la sanzione disciplinare della perdita di anzianità di un anno e che era divenuta definitiva il 13 novembre successivo (a seguito della dichiarazione di inammissibilità del proposto ricorso per cassazione avverso detta sentenza).

L’ordinanza premetteva che: a) dopo la sentenza del 17 febbraio 2007, il Consiglio Superiore della Magistratura hinc: “CSM” con Delib. 25 giugno 2008, recepita nel decreto del Ministro della giustizia del 30 luglio 2008, aveva dichiarato il magistrato decaduto dall’impiego (ai sensi del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 127, comma 1, lett. c, seconda parte, e del R.D. n. 12 del 1941, art. 11) a decorrere dal 1 marzo 2007, per assenza ingiustificata superiore a 15 giorni; b) nella suddetta istanza del 30 settembre 2015, il R. aveva rilevato che la disposta decadenza dall’impiego, in quanto operante ex tunc sin dal 1 marzo 2007, aveva efficacia da una data anteriore rispetto a quella in cui era divenuta definitiva la sentenza che gli aveva inflitto la perdita di anzianità (13 novembre 2007), con la conseguenza che si sarebbe determinata l’estinzione del procedimento disciplinare sin dal 1 marzo 2007; c) il R., pertanto, aveva chiesto alla sezione disciplinare (quale giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 676 c.p.c.), in via principale, di dichiarare estinta la sanzione della perdita di anzianità di servizio (per effetto dell’estinzione del procedimento disciplinare) o, in via subordinata, di procedere alla revisione della sentenza (ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25, comma 1, lett. b,) in base alla sopravvenuta e decisiva documentazione costituita dal procedimento e dalla dichiarazione di decadenza dall’impiego (tale da determinare l’estinzione del procedimento disciplinare di cui alla sentenza del 2007) ovvero, in via ulteriormente subordinata, di procedere alla revisione della suddetta sentenza ai sensi degli artt. 630 e 631 c.p.p..

Su queste premesse, l’adita sezione disciplinare, nel dichiarare inammissibili le istanza di declaratoria di estinzione della sanzione e di revisione, osservava che: a) la richiesta pronuncia di estinzione del procedimento disciplinare e la conseguente dichiarazione di estinzione della sanzione disciplinare della perdita di anzianità le erano precluse, in quanto estranee alla fase esecutiva, dato che il procedimento si era ormai definito con una sentenza passata in giudicato; b) non sussistevano neppure i presupposti per accogliere la richiesta (proposta in via subordinata) di procedere alla revisione della sentenza disciplinare, perchè la pronuncia di decadenza dall’impiego non atteneva al merito dei presupposti per l’applicazione della sanzione e, quindi, non costituiva un “nuovo elemento di prova” idoneo a dimostrare l’insussistenza dell’illecito (come invece previsto dagli artt. 630 e 631 c.p.p. per procedere alla revisione); c) inoltre, la retroattività del provvedimento di decadenza dall’impiego incontra il limite dei rapporti esauriti, tra i quali va annoverato il giudicato formatosi sulla sanzione della perdita di anzianità (come sarebbe argomentabile a fortiori dall’operatività di tale limite perfino alla retroattività delle pronunce di illegittimità costituzionale); d) infine, la persistenza in capo al R., fino all’effettiva adozione del provvedimento di decadenza, degli obblighi e dei doveri derivanti dal rapporto di impiego comportava la sua soggezione al potere disciplinare.

2.- Avverso tale ordinanza, il R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi e notificato il 5 febbraio 2016, tramite ufficiale giudiziario, al Ministero della giustizia ed alla Procura generale della Repubblica presso la Suprema Corte di cassazione. Il ricorrente chiede: a) in via principale, con decisione nel merito emessa ai sensi dell’art. 384 c.p.c., la revisione della sentenza disciplinare, con pronuncia di accertamento dell’estinzione del procedimento disciplinare e della correlativa sanzione, per la fuoriuscita dell’incolpato dall’ordine giudiziario prima che la sentenza disciplinare fosse divenuta irrevocabile; b) in via subordinata, la cassazione dell’ordinanza impugnata, disponendo per il giudizio di rinvio ai sensi di legge.

3.- Con unico atto di controricorso – redatto e sottoscritto soltanto dall’Avvocatura generale dello Stato, nonchè notificato il 22 marzo 2013 – resistono entrambi gli intimati, i quali, tra l’altro, eccepiscono preliminarmente l’inammissibilità del ricorso, sia perchè questo non risulta essere stato depositato presso il competente ufficio del CSM ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24 (il quale è poi tenuto ad inoltrare il fascicolo e gli atti del procedimento alla cancelleria della Corte), sia per carenza di interesse, in quanto il ricorrente non è magistrato ordinario da circa nove anni.

4.- Il ricorrente deposita alcuni documenti, tra cui l’attestazione del deposito, in data 9 febbraio 2016, presso la sezione disciplinare del CSM, del ricorso per cassazione proposto avverso l’ordinanza n. 6/2016. Lo stesso ricorrente replica al controricorso con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., eccependo a sua volta l’improcedibilità del controricorso nella parte in cui risulta proposto dall’Avvocatura generale dello Stato anche a nome della Procura generale della Repubblica presso la Suprema Corte di cassazione. Solleva, in via subordinata, questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25 (in relazione all’art. 582 c.p.p., comma 1, e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c) per contrasto con l’art. 24 Cost., comma 1.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Nel controricorso viene eccepita l’inammissibilità del ricorso sotto due profili diversi: a) in primo luogo, perchè il ricorso non risulta essere stato depositato presso il competente ufficio del CSM ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24 (ufficio che è poi tenuto ad inoltrare il fascicolo e gli atti del procedimento alla cancelleria della Corte di cassazione); b) in secondo luogo, per carenza di interesse, in quanto il ricorrente non è più magistrato ordinario da circa nove anni.

Entrambe le eccezioni non sono fondate.

1.1.- In relazione alla prima eccezione di inammissibilità (mancato deposito del ricorso per cassazione presso la sezione disciplinare del CSM), va rilevato che il ricorrente ha depositato il 13 giugno 2016 l’atto “prot. 370/2016 P” dell’11 febbraio 2016, emesso dalla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura e diretto alla cancelleria di questa Corte, con il quale: a) si comunica che in data 9 febbraio 2016 il R. aveva depositato presso la sezione il ricorso per cassazione di cui al presente giudizio; b) si trasmette il fascicolo contenente gli atti della camera di consiglio del procedimento relativo all’impugnata ordinanza n. 6/2016 della sezione disciplinare (notificata il 29 gennaio 2016, come emerge dalla copia in atti).

Con il suddetto (tempestivo) deposito dell’impugnazione presso la sezione disciplinare del CSM appare, dunque, rispettato il combinato disposto del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24, comma 1, primo periodo, (secondo cui, le decisioni della sezione disciplinare del CSM sono impugnabili con “ricorso per cassazione, nei termini e con le forme previsti dal codice di procedura penale”), 591 c.p.p., comma 1, lett. c), art. 583 c.p.p., comma 1, e art. 582 c.p.p., comma 1, (secondo i quali, a pena di inammissibilità, l’atto di impugnazione è presentato nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato). Ne deriva l’infondatezza, in punto di fatto, dell’eccezione in esame.

1.2.- In relazione alla seconda eccezione di inammissibilità (carenza di interesse al ricorso per cassazione), va osservato che la intervenuta decadenza dall’impiego del R. non comporta la carenza di interesse all’impugnazione, perchè la parte ha comunque interesse sia alla corretta determinazione dell’anzianità maturata fino alla decadenza, sia (almeno in astratto e salvo contrarie valutazioni in concreto) ad eliminare gli aspetti morali negativi connessi alla impugnata pronuncia. Ne deriva l’infondatezza anche di questa eccezione.

2.- Il ricorrente eccepisce l'”improcedibilità” del controricorso nella parte in cui è proposto dall’Avvocatura generale dello Stato anche a nome della Procura generale della Repubblica presso la Suprema Corte di cassazione.

L’eccezione è sostanzialmente fondata, perchè nè il Ministero della giustizia nè l’Avvocatura generale dello Stato hanno il potere di rappresentare la Procura generale della Repubblica nel giudizio. Di qui l’inammissibilità del controricorso in parte qua. Va precisato che l’eccezione, benchè faccia riferimento, inesattamente, all'”improcedibilità”, denuncia, in realtà, un difetto del controricorso (asseritamente) proposto per la Procura generale e, dunque, un vizio genetico della costituzione in giudizio mediante controricorso, cioè un vizio integrante, tipicamente, un’ipotesi di inammissibilità. L’erroneità del riferimento alla improcedibilità non inficia la correttezza e la fondatezza dell’eccezione (come sopra interpretata).

Occorre comunque rilevare che la Procura generale, anche se non costituita mediante controricorso, ha tuttavia partecipato all’udienza di discussione svolgendo le sue argomentazioni e precisando le conclusioni riportate in epigrafe.

3.- Nel merito il ricorso non è fondato e va rigettato.

3.1.- Con il primo motivo di ricorso viene denunciata l’inosservanza o erronea applicazione degli arti. 531 e 631 cod. proc. pen. in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25. 11 ricorrente assume che l’ordinanza impugnata, nel dichiarare inammissibile la richiesta subordinata di revisione della sentenza disciplinare, muove dall’erroneo assunto, incongruamente restrittivo, che, in base al tenore letterale del citato D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25 la revisione è possibile solo nel caso di nuovi elementi di prova di proscioglimento nel merito. Ad avviso della parte privata l’espressione “insussistenza dell’illecito” contenuta nell’art. 25 (ai fini della revisione) va interpretata, invece, in senso comprensivo di ogni pronuncia ostativa della condanna e corrisponderebbe all’espressione “esclusa la sussistenza dell’addebito” contenuta nello stesso D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 19 che si riferirebbe (sempre secondo il ricorrente) a tutte le pronunce che escludono l’applicazione della sanzione disciplinare, anche se per ragioni processuali (morte del reo; prescrizione e simili), come, in genere, le pronunce di proscioglimento nel merito o nel rito diverse dalla “non sussistenza del fatto”, previste dagli artt. 530 e 531 c.p.p., richiamati dall’art. 631 medesimo codice. Ne deriverebbe che la decadenza dall’impiego, in quanto operativa dal 1 marzo 2007 – e, dunque, da una data anteriore alla formazione del giudicato sulla inflizione della sanzione di perdita di anzianità di servizio -, dovrebbe comportare l’estinzione (previa revisione della sentenza) del procedimento disciplinare riferito a tale sanzione.

3.2.- Con il secondo motivo di ricorso vengono denunciate, in via subordinata al primo motivo, sia l’inosservanza o erronea applicazione del R.D. n. 12 del 1941, art. 11 in relazione al D.P.R. n. 3 del 1957, art. 112, comma 1, lett. c), parte seconda; sia l’insufficienza e illogicità della motivazione. A parere del ricorrente, l’ordinanza impugnata – nel far riferimento all'”irrefragabilità” o all'”intangibilità” del giudicato disciplinare sulla sanzione della perdita di anzianità; nel richiamare, per analogia, il limite dei rapporti esauriti per gli effetti temporali delle decisioni di illegittimità emesse dalla Corte costituzionale; e nell’affermare la persistenza in capo al R., fino all’effettiva adozione del provvedimento di decadenza, degli obblighi e dei doveri derivanti dal rapporto di impiego – ha trascurato di considerare che: a) il procedimento di revisione è diretto proprio “a demolire un giudicato immeritevole di sopravvivere”; b) la fattispecie presenta analogie non con le sentenze di illegittimità costituzionale, ma con il caso di D.L. non convertito (i cui effetti sono travolti ex tunc); c) la pronuncia di decadenza dal rapporto d’impiego ha effetto dichiarativo e retroattivo, operando sin dal momento in cui è efficace la decadenza (nella specie, sin dal 1 marzo 2007, anteriore alla formazione del giudicato sulla sanzione della perdita di anzianità).

3.3.- I due motivi vanno esaminati congiuntamente, in considerazione della loro stretta connessione logica, tale da podi in rapporto di mutua implicazione: infatti, da un lato, l’assunto in iure del primo motivo (per il quale eventuali elementi di prova sopravvenuti ed idonei a condurre all’estinzione del procedimento disciplinare costituiscono ragione di revisione del giudicato disciplinare) presuppone logicamente la fondatezza dell’assunto del secondo motivo (per il quale tale estinzione è configurabile nella specie e può operare nel procedimento disciplinare per l’efficacia ex tunc della decadenza dall’impiego); dall’altro, questo secondo motivo, a sua volta, presuppone la fondatezza del primo.

3.3.1.-Va preliminarmente osservato che le disposizioni invocate dal ricorrente in relazione alla revisione della sentenza irrevocabile con la quale è stata applicata una sanzione disciplinare sono quelle di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25, comma 1, alinea e, lett. b), e comma 2 (“1. E’ ammessa, in ogni tempo, la revisione delle sentenze divenute irrevocabili, con le quali è stata applicata una sanzione disciplinare, quando; b) sono sopravvenuti o si scoprono, dopo la decisione, nuovi elementi di prova, che, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento disciplinare, dimostrano l’insussistenza dell’illecito”; “2. Gli elementi in base ai quali si chiede la revisione debbono, a pena di inammissibilità della domanda, essere tali da dimostrare che, se accertati, debba essere escluso l’addebito o debba essere applicata una sanzione diversa da quella inflitta se trattasi della rimozione, ovvero se dalla sanzione applicata è conseguito il trasferimento d’ufficio”).

Tali disposizioni individuano le ipotesi ed i limiti in cui il legislatore consente di proporre un mezzo straordinario di impugnazione (la revisione, appunto) diretto a rimuovere gli effetti del giudicato disciplinare ed a soddisfare esigenze di giustizia sostanziale ritenute prioritarie rispetto al principio generale di certezza dei rapporti giuridici. L’eccezionalità della previsione implica che resta riservata alla insindacabile scelta discrezionale del legislatore (ove non palesemente arbitraria ed irrazionale) l’individuazione dei casi – da reputarsi tassativi – di revisione della sentenza disciplinare, restando esclusa ogni interpretazione analogica (art. 14 preleggi) e in particolare, l’applicazione analogica (auspicata dal ricorrente) ad ipotesi di sopravvenienza di prove che avrebbero condotto ad una pronuncia di estinzione del procedimento disciplinare.

Il tenore letterale delle disposizioni citate (“insussistenza dell’illecito”; “escluso l’addebito”) dimostra che la legge si riferisce solo all’esistenza, in concreto, dell’illecito. Al riguardo non è pertinente l’osservazione del ricorrente che la lettera del citato D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 19, comma 2 nel prevedere che la sezione disciplinare del CSM dichiara “esclusa la sussistenza dell’addebito” quando “non è raggiunta prova sufficiente” di esso, non ha mai impedito pronunce di estinzione del procedimento disciplinare in caso di morte o di decadenza dall’impiego dell’incolpato. In contrario va rilevato che (anche) detto comma 2 si riferisce esclusivamente alla prova della sussistenza dell’illecito addebitato e che le pronunce di estinzione del procedimento disciplinare trovano giustificazione non nel medesimo comma 2, ma in altre norme o, comunque, in considerazioni di ordine sistematico.

Infine, il rilevato intento del legislatore (nell’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25, comma 1, lett. b) di limitare la revisione delle sentenze disciplinari ai soli casi in cui viene in rilievo la sussistenza nel merito dell’illecito: a) non è manifestamente irragionevole, perchè ben può ritenersi meritevole di tutela esclusivamente tale ipotesi, rispetto a quella di prova sopravvenuta di casi di estinzione del procedimento; b) non crea disparità di trattamento rispetto ai casi di revisione della sentenza di condanna penale (previsti anche in ipotesi di sopravvenienza di prove che conducono al proscioglimento per motivi non di merito), dato il diverso ambito settoriale del giudizio penale; c) non limita la difesa della parte, che può sempre far valere i suoi diritti fino alla formazione del giudicato. Deve perciò essere dichiarata manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25 sollevata dal ricorrente nella memoria illustrativa in riferimento all’art. 24 Cost., comma 1.

3.3.2.- Per effetto delle considerazioni che precedono, non può neppure accogliersi la tesi del ricorrente secondo cui il giudicato formatosi sulla sua decadenza dall’impiego (decadenza operante ex tunc, sin dal 1 marzo 2007), ancorchè successivo all’altro giudicato formatosi (in data 13 novembre 2007) sulla condanna alla sanzione disciplinare della perdita di anzianità di un anno, integra il caso di revisione previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25, comma 1, alinea e, lett. b), (1. E’ ammessa, in ogni tempo, la revisione delle sentenze divenute irrevocabili, con le quali è stata applicata una sanzione disciplinare, quando: E… b) sono sopravvenuti o si scoprono, dopo la decisione, nuovi elementi di prova, che, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento disciplinare, dimostrano l’insussistenza dell’illecito”). Per il R., la pronuncia di decadenza dall’impiego, in quanto stabilisce che la decadenza è efficace a far data dal 1 marzo 2007, costituisce una prova sopravvenuta al giudicato di condanna alla perdita di anzianità, tale poter comportare (ora per allora) l’estinzione del correlativo procedimento disciplinare conclusosi il 13 novembre 2007 e, quindi, tale da dimostrare “l’insussistenza dell’illecito”.

Va rilevato, in contrario, che il ricorrente non ha dedotto (nè, comunque, dimostrato) che l’illecito per il quale è stata pronunciata la perdita di anzianità venne commesso il 1 marzo 2007 o successivamente. Solo in tal caso (a prescindere dalla correttezza delle altre tesi giuridiche del ricorrente) la prospettata censura sollevata sarebbe stata rilevante, in quanto riguardante la stessa sussistenza dell’illecito (anche se l’interesse al giudizio verrebbe meno, posto che un interesse morale non è chiaramente delineato e posto che la sanzione non sarebbe stata in concreto applicata nè sarebbe applicabile). Sul punto, però, la sentenza impugnata – nel rilevare, alla pag. 6, la persistenza in capo al R., fino all'”effettiva adozione del provvedimento di decadenza” (da intendersi come “tino al momento in cui opera la decadenza”), degli obblighi e dei doveri derivanti dal rapporto di impiego e, dunque, la sua soggezione al potere disciplinare – ha implicitamente accertato che l’illecito sanzionato con la perdita di anzianità era anteriore al 1 marzo 2007. Non c’è, dunque, alcuna incompatibilità tra l’accertamento della sussistenza dell’illecito e la pronuncia di decadenza dall’impiego.

Inoltre, la revisione in esame (che ha ad oggetto la sentenza disciplinare) non implica la riapertura del procedimento disciplinare e, quindi, la parte non potrebbe invocare, in sede di revisione, la retroattiva pronuncia di estinzione del procedimento, potendo rilevare solo la sopravvenuta prova di “insussistenza dell’illecito”.

Non vi sono, poi (contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente), tratti di somiglianza tra l’ipotesi di decreto-legge non convertito (i cui effetti sono travolti ex tunc) e quella di pronuncia di decadenza dall’impiego. Nel primo caso viene meno l’intera fattispecie regolata dal decreto-legge (ove non intervenga una apposita disposizione di legge regolatrice), nel secondo caso il rapporto si considera cessato solo a far data dall’efficacia della decadenza e, pertanto, si crea una nuova e peculiare fattispecie i cui effetti interferiscono con le fattispecie formate nel periodo precedente. La pronuncia di decadenza dall’impiego, quindi, non travolge sin dall’inizio tutto il rapporto di impiego, ma viene innestarsi su di esso, facendolo cessare a decorrere da una certa data. Nell’ipotesi in esame, ad esempio, deve essere calcolata l’anzianità maturata fino alla data di cessazione del rapporto (1 marzo 2007) considerando, però, anche la sanzione di perdita di anzianità inflitta (con sentenza passata in giudicato) per illeciti commessi anteriormente all’operatività della decadenza dall’impiego.

3.3.3.- Sono, dunque, corrette le seguenti argomentazioni contenute nella sentenza e sufficienti a sorreggere la decisione: a) ai fini della revisione della sentenza disciplinare, gli elementi di prova debbono dimostrare o concorrere a dimostrare, nel merito, l’insussistenza dell’illecito, nel merito; b) la pronuncia di decadenza dall’impiego emessa nei confronti del R. non è incompatibile con l’illecito sanzionato con la perdita di anzianità e, non escludendo la violazione, non attiene al merito della sussistenza di dell’illecito, cosi da non integrare un presupposto della richiesta revisione; c) inoltre, nella specie, il giudicato disciplinare è intangibile, perchè la decadenza dall’impiego non ha effetto retroattivo sugli accadimenti medio tempre verificatisi, riferibili ad un rapporto non esaurito, e, in particolare, sull’illecito sanzionato con la perdita di anzianità. Tale impianto della sentenza non è scalfito, come visto, dai motivi di ricorso, che va, in conclusione, rigettato.

4.- Le spese di lite seguono la soccombenza.

PQM

La Corte, pronunciando a sezioni unite, dichiara inammissibile il controricorso proposto dal Ministero della giustizia in nome della Procura generale della Repubblica presso la Suprema Corte di cassazione; rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al controricorrente Ministero della giustizia le spese di lite, che si liquidano in complessivi Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle sezioni unite civili, il 21 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2016

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