Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16593 del 11/06/2021

Cassazione civile sez. VI, 11/06/2021, (ud. 14/04/2021, dep. 11/06/2021), n.16593

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35953-2018 proposto da:

N.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI

187, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO MAGNANO di SAN LIO, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato TERESA MARLETTA

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

L.P., elettivamente domiciliata in ROMA, V. PIEMONTE 32,

presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE SPADA, rappresentata e

difesa dall’avvocato ALESSANDRO SITTINIERI giusta procura in calce

al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2141/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 15/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/04/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie delle parti.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Il Tribunale di Ragusa, con sentenza n. 824 del 28 ottobre 2014, rigettava l’opposizione proposta da L.P. avverso il decreto ingiuntivo emesso dallo stesso Tribunale in favore di N.S., per l’importo di Euro 14.172,29, quale compenso per l’attività professionale spesa dal ricorrente, quale geometra, in favore dell’ingiunta, per la redazione di un progetto relativo alla costruzione di un fabbricato rurale da erigersi sul fondo dell’opponente.

La Corte d’Appello di Catania, con la sentenza n. 2141 del 15 ottobre 2018, ha accolto il gravame della L. e per l’effetto ha revocato il decreto opposto, condannando il N. altresì al rimborso delle spese del doppio grado.

I giudici di appello evidenziavano che il Tribunale aveva ritenuto che fosse stata raggiunta la prova del conferimento dell’incarico da parte dell’opponente, valorizzando la circostanza che il marito di quest’ultima, che aveva tenuto i contatti con il N., aveva riferito che la moglie era a conoscenza di tutto e che approvava l’incarico.

Inoltre, la stessa, quale proprietaria del fondo sul quale il fabbricato doveva essere eretto, aveva un chiaro interesse al conferimento dell’incarico, essendo altresì emerso da altra deposizione testimoniale che avesse conferito, tramite il marito, anche l’incarico al direttore dei lavori.

Infine, dal verbale di conciliazione redatto nel corso della CTU esperita nel giudizio di divisione del fondo pendente tra la L. e gli altri comproprietari, risultava che la concessione edilizia era stata richiesta anche a nome dell’appellante.

Tuttavia, secondo la sentenza di secondo grado, tali elementi probatori non erano convincenti.

In primo luogo, il marito della opponente si era limitato a riferire che la moglie era a conoscenza dell’incarico conferito al N., ma non aveva altresì riferito di avere agito in nome della moglie, il che escludeva che potesse ricavarsi da tale affermazione la prova della contemplatio domini.

Nè poteva invocarsi l’istituto della ratifica, che presuppone che la contrattazione sia stata svolta in nome altrui, sebbene in assenza di potere rappresentativo.

Nella fattispecie, peraltro il coniuge aveva un concreto interesse all’edificazione, proprio perchè marito della comproprietaria del fondo, e ciò depotenziava l’argomento correlato all’interesse della L. alla edificazione.

Analoghe considerazioni dovevano essere svolte per la deposizione del teste che aveva riferito dell’incarico come direttore dei lavori, in quanto anche in tal caso non risultava che vi fosse stata la spendita del nome dell’appellante.

Del tutto equivoco era poi il fatto che la L. avesse falsamente affermato di non essere al corrente del rilascio della concessione.

N.S. ha proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di un motivo.

L.P. ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

Il motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1388 c.c., atteso che il contratto intercorso tra le parti non aveva carattere formale.

Andava quindi richiamata la giurisprudenza di legittimità per la quale solo per i contratti per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam o ad probationem la contemplatio domini deve essere espressa, non potendo essere ricavata da elementi presuntivi.

Negli altri contratti, invece, l’esternazione del potere rappresentativo può desumersi anche da un comportamento concludente del rappresentante, purchè sia connotato da univocità e concludenza, come deve ritenersi sia avvenuto nel caso in esame.

Il motivo è inammissibile.

La difesa del ricorrente richiama il principio affermato da Cass. n. 7510/2011, a mente del quale, in tema di mandato con rappresentanza, la “contemplatio domini”, che rende possibile l’imputazione degli effetti del contratto nella sfera di un soggetto diverso da quello che lo ha concluso, non esige – nel caso in cui l’atto da porre in essere non richiede una forma solenne – l’uso di formule sacramentali e può, quindi, essere desunta anche da un comportamento del rappresentante che, per univocità e concludenza, sia idoneo a rendere edotto l’altro contraente che egli agisce non solo nell’interesse, ma anche in nome del rappresentato, nella cui sfera giuridica gli effetti dell’atto sono destinati a prodursi direttamente (conf. Cass. n. 23131/2010).

Tuttavia, anche i precedenti che aderiscono a tale soluzione, che ritiene opportuno affrancarsi dal rigore formale nel caso in cui il dubbio circa l’esercizio del potere di rappresentanza attenga a contratti non formali (Cass. n. 25247/2006), precisano che la relativa indagine, involgendo accertamenti di fatto, è devoluta al giudice di merito, il cui apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione (conf. Cass. n. 10989/1996).

La sentenza gravata con accertamento in fatto, corredato di logica e coerente motivazione, ha ritenuto che le prove raccolte, ad una più attenta lettura, non permettevano di ricavare anche la spendita del nome della rappresentata da parte del preteso rappresentante, che si era limitato semplicemente ad assicurare il ricorrente circa il fatto che la moglie fosse a conoscenza di quanto avveniva, ma non anche che egli agisse su incarico ed in nome della moglie.

Nella vicenda risulta dedotta la sola violazione di legge, che alla luce di quanto esposto deve escludersi ricorra, avendo la sentenza impugnata concluso per il rigetto della domanda di pagamento sul presupposto che la verifica in concreto (oggetto come detto di accertamento di fatto), non permetteva di rivenire la contemplatio domini, non avendo parte ricorrente inteso altresì denunciare il vizio di motivazione della decisione d’appello (sebbene nei più ristretti limiti oggi permessi dall’art. 360 c.p.c., comma 1, novellato n. 5).

Nè può condurre a diversa conclusione il richiamo alla circostanza che, essendo la L. assegnataria sul fondo destinato a ricevere la costruzione, aveva un interesse all’attività del N. che faceva desumere anche la spendita del suo nome in occasione del conferimento dell’incarico, avendo questa Corte precisato che (Cass. n. 18441/2005) la “contemplatio domini” – che assolve alla duplice funzione di esteriorizzare il rapporto di gestione rappresentativa esistente tra il rappresentante ed il rappresentato, e di rendere conseguentemente possibile l’imputazione al secondo degli effetti del contratto concluso in suo nome dal primo – deve risultare da una dichiarazione espressa ed univoca, anche se non esige l’impiego di formule solenni o l’osservanza di un preciso rituale, e può essere manifestata attraverso un comportamento del rappresentante che, per univocità e concludenza, sia idoneo a portare a conoscenza dell’altro contraente che egli agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti del contratto concluso sono destinati a prodursi direttamente, sicchè in assenza della prova della dichiarazione del rappresentante di agire in nome di costui, non è consentito di ritenere costituito alcun rapporto tra il mandante ed il terzo, anche se il contratto involga interessi esclusivamente propri del mandante, e l’altro contraente non ignori l’esistenza di quest’ultimo (conf. Cass. n. 22333/2007). Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2021

 

 

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