Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16593 del 03/08/2020

Cassazione civile sez. lav., 03/08/2020, (ud. 11/09/2019, dep. 03/08/2020), n.16593

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8917-2018 proposto da:

B.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO

CESARE N. 94, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE CARDILLI, che

lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

SERCO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 25, presso lo

studio degli avvocati ETTORE PAPARAZZO, e LUCA AMENDOLA, che la

rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3719/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/12/2017 r.g.n. 1217/2014.

 

Fatto

RILEVATO

che la Corte di Appello di Roma, con sentenza pubblicata in data 6.12.2017, ha respinto il gravame interposto da B.E., nei confronti di SERCO S.p.A., avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato il ricorso del lavoratore, diretto ad ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti nel periodo dal giugno 2007 al luglio 2011, il diritto all’inquadramento nel terzo livello del CCNL di categoria ed il pagamento delle differenze retributive quantificate, a vario titolo, in Euro 128.895,84, nonchè la illegittimità del licenziamento allo stesso intimato dalla società datrice e la condanna di quest’ultima alla reintegrazione nel posto di lavoro precedentemente occupato dal B., oltre al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18;

che per la cassazione della sentenza ricorre B.E. sulla base di tre motivi, cui resiste con controricorso la SERCO S.p.A.; che sono state comunicate memorie nell’interesse della società; che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione degli artt. 115,116 c.p.c., art. 420 c.p.c., comma 5, art. 437 c.p.c., comma 2, “per omessa considerazione della prova testimoniale rilevante da parte del Giudice di merito. Errores in procedendo e in iudicando da parte della Corte territoriale”, perchè la Corte territoriale “ha erroneamente confermato l’orientamento del giudice di prime cure, ed in maniera del tutto arbitraria e senza precisi riferimenti normativi o giurisprudenziali, ha deciso che l’ammissione della richiesta prova testimoniale non sarebbe stata utile e decisiva ai fini del riconoscimento della subordinazione…”; il tutto, a parere del ricorrente, senza considerare che la SERCO S.p.A. “ha esposto solo una sua versione di parte del fatto storico, omettendo di contestare specificamente tutte le circostanze dedotte ed i documenti”; 2) la “violazione o falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”, per avere i giudici di seconda istanza “ripercorso erroneamente e genericamente le tesi atte ad escludere la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato intercorrente tra il B. e la SERCO S.p.A.”, mentre risulterebbe “palese che il detto rapporto, in riferimento alle deduzioni ed ai documenti contenuti in atti sia configurabile come un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato…”; 3) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “la nullità della sentenza laddove manca del tutto di motivazione in relazione alle specifiche ipotesi di riforma della sentenza di primo grado contenute nei motivi di gravame proposti in appello”, per avere “la Corte d’Appello strutturato la motivazione, con riferimento agli specifici capi di censura, limitandosi a condividere gli orientamenti del Giudice di primo grado ed utilizzando, solo in riferimento all’argomento relativo alla subordinazione, scarni riferimenti normativi puramente codicistici, richiamando solo gli artt. 2094,2099,2014 e 2016 c.c.”, omettendo di pronunciarsi sul criterio di valutazione degli elementi probatori e pervenendo alla decisione impugnata “senza specificare i motivi in diritto su cui è fondata la decisione”;

che il primo motivo è inammissibile; ed invero, alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr., per tutti, Cass., SS.UU., 15486/2017), “La violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e, per analogia, anche delle corrispondenti norme processuali tipiche del rito del lavoro di cui agli artt. 420 e 437 c.pc., può essere dedotta come vizio di legittimità solo lamentando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dai poteri officiosi riconosciutigli. A tanto va aggiunto che, in linea di principio, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (tra le varie, Cass. n. 24434/2016), dovendosi peraltro ribadire che, in relazione al nuovo testo di questa norma, qualora il giudice abbia preso in considerazione il fatto storico rilevante, l’omesso esame di elementi probatori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo (Cass., SS.UU. n. 8053/2014”; e, nella fattispecie, i giudici del gravame hanno preso in esame tutte le circostanze dedotte in ricorso, valutandole – sulla base degli elementi delibatori hinc et inde dedotti – diversamente da come auspicato dal ricorrente (v., in particolare, pagg. 4-6 della sentenza impugnata);

che, peraltro, il mezzo di impugnazione contiene la contemporanea deduzione di violazioni di plurime disposizioni di legge, nonchè di vizi di motivazione e di erronea valutazione delle risultanze istruttorie, oltre all’invocazione di non meglio precisati errores in procedendo, in violazione del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione, poichè nella parte argomentativa dello stesso non risulta possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e di sussunzione delle censure (al riguardo, tra le molte, Cass. nn. 21239/2015; 23675/2013; 7394/2010, 20355/2008, 9470/2008). In particolare, va pure sottolineato che le Sezioni Unite di questa Corte, dinanzi ad un motivo di ricorso che conteneva censure astrattamente riconducibili ad una pluralità di vizi tra quelli indicati nell’art. 360 c.p.c., hanno ribadito la stigmatizzazione di tale tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando “la impossibilità di convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da irrimediabile eterogeneità” (Cass., S.U., nn. 17931/2013, 26242/2014);

che anche il secondo motivo è inammissibile sotto diversi e concorrenti profili; innanzitutto, la parte ricorrente, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, non ha fornito specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); ed invero, nel caso in esame, manca la focalizzazione del momento di conflitto, rispetto alle censure sollevate, dell’accertamento operato dalla Corte territoriale all’esito delle emersioni probatorie (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011) e, pertanto, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria; inoltre, la censura formulata tende, all’evidenza, ad una nuova valutazione delle prove, pacificamente estranea al giudizio di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014), poichè “il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in via esclusiva al giudice di merito”; per la qual cosa “la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito” (cfr., ex multis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014 citt.; Cass. n. 2056/2011); e, per quanto anche innanzi evidenziato, la Corte distrettuale è pervenuta alla decisione impugnata attraverso un iter motivazionale del tutto condivisibile dal punto di vista logico-giuridico;

che altresì inammissibile è il terzo mezzo di impugnazione: va, infatti, al riguardo, innanzitutto, rilevato che non è stato prodotto (e neppure indicato come documento offerto in comunicazione nel ricorso per cassazione), nè trascritto, l’atto di gravame, del quale si assume che i giudici di seconda istanza non avrebbero tenuto in considerazione i motivi di doglianza; e ciò, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (v., ex plurimis, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013);

che, inoltre, nella sostanza, il motivo censura “vizi di motivazione per travisamento dei fatti”, nonchè una “motivazione del tutto mancante”, asseritamente posta a fondamento della decisione impugnata, ma non indica il fatto storico (cfr. Cass. n. 21152/2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; nè, tanto meno, fa riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite n. 8053 del 2014, ad un vizio della sentenza “così radicale da comportare”, in linea con “quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della pronunzia per mancanza di motivazione”, non potendosi configurare, nella fattispecie, un caso di motivazione apparente o di mancanza di motivazione, da cui conseguirebbe la non idoneità della sentenza a consentire il controllo delle ragioni poste a fondamento della stessa, dato che la Corte di merito è pervenuta alla decisione oggetto del giudizio di legittimità con argomentazioni analitiche, condivisibili e scevre da vizi logico-giuridici;

che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va dichiarato inammissibile;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nei termini specificati in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 11 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2020

 

 

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