Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16591 del 11/06/2021

Cassazione civile sez. VI, 11/06/2021, (ud. 14/04/2021, dep. 11/06/2021), n.16591

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35472-2018 proposto da:

SAMOCAR SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARMELO BENE 320,

presso lo studio dell’avvocato MARIANGELA DINOI, rappresentata e

difesa dall’avvocato GIANLUCA D’AMATO giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

B.P., rappresentato e difeso dall’avvocato BARBARA FERRARI

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1332/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 21/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del

14/04/2021 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO;

Lette le memorie della ricorrente.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

B.P. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Verona la Samocar S.r.l. al fine di sentirla condannare al pagamento della spettanze professionali maturate per gli anni 2010-2011.

Deduceva che tra le parti era intercorso un rapporto professionale sin dagli inizi degli anni 2000, sulla base di un contratto rinnovabile di anno in anno, che prevedeva la disdetta con almeno quattro mesi di anticipo.

L’attore, nella qualità di commercialista, si impegnava a prestare attività di assistenza e consulenza dietro un corrispettivo mensile forfetario, essendosi previsto in contratto che l’eventuale recesso della committente avrebbe in ogni caso assicurato al professionista il diritto di porre in essere tutte le attività contabili relative all’anno concluso e da presentarsi nell’anno successivo.

Dopo una prima disdetta tardiva intervenuta nel 2010, la convenuta aveva inviato una tempestiva disdetta per l’anno 2011, ma senza attendere la fine dell’anno ed il compimento delle altre attività riservato all’attore, aveva reperito un nuovo commercialista.

Il B. assumeva quindi di avere diritto ai compensi per gli ultimi mesi del 2011 nonchè per quelle attività da svolgere nell’anno seguente, quantificati in Euro 10.213,00, comprensivi anche della somma di C 2.500,00 che le parti avevano definito come saldo per l’attività del 2010 in sede transattiva.

La convenuta si costitutiva e deducendo che in realtà era stato il B. a non onorare i propri obblighi dopo la disdetta, in via riconvenzionale chiedeva il risarcimento dei danni.

Il Tribunale accoglieva la domanda attorea, sul presupposto che questi avesse diritto ai compensi per l’anno in cui era intervenuta la disdetta nonchè per le attività conseguenziali da svolgere l’anno seguente, escludendo che si fosse reso inadempiente.

Riteneva che le attività svolte dal nuovo commercialista della Samocar, e che avevano motivato la proposizione della domanda riconvenzionale, non erano correlate all’attività invece demandata all’attore, dovendosi quindi respingere la domanda riconvenzionale.

La Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 1332 del 21/5/2018 ha rigettato l’appello della società.

Quanto al motivo di appello con il quale si contestava la corretta valutazione delle risultanze istruttorie, ed in particolare la corretta interpretazione della conversazione intervenuta tra il B. ed il rappresentante della Samocar di cui alla registrazione su CD acquisita agli atti, la Corte d’appello osservava che la dichiarazione andava letta nel contesto dell’incontro e registrava in realtà uno sfogo del professionista conseguente alle contestazioni mossegli dalla cliente.

In realtà era un primo contatto tra le parti, al quale aveva fatto seguito la missiva del 19/9/2011, nella quale il B. confermava la volontà di tenere fede agli impegni scaturenti dal contratto, risultando quindi ingiustificata la decisione della Samocar di rivolgersi nell’immediato ad altro professionista, sebbene il B. avesse assicurato le proprie prestazioni anche sino alla fine del 2011 e per le attività ulteriori da compiersi nell’anno seguente.

Tale conclusione rendeva anche evidente la conferma del rigetto della riconvenzionale.

In merito alle somme liquidate, la sentenza d’appello osservava che i compensi per l’anno 2010 erano stati liquidati conformemente all’accordo transattivo, mentre quelli per il 2011 in base alle previsioni contrattuali; invece per le competenze relative alle attività da concludersi nell’anno successivo, ma afferenti all’anno finanziario precedente, il tenore delle previsioni contrattuali non consentiva di ritenere le medesime incluse nel sistema di remunerazione a forfait mensile, essendo congrua la quantificazione compiuta dall’attore, anche alla luce della valutazione del CTU.

Circa invece il limite alla possibilità di recedere ad nutum da parte del cliente, la Corte d’Appello rilevava che lo stesso era derogabile dall’autonomia delle parti le quali nella fattispecie avevano proprio inteso prevederlo.

La Samocar S.r.l. ha proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di due motivi, illustrati da memorie.

B.P. ha resistito con controricorso.

Il primo motivo di ricorso denuncia la non corretta valutazione del recesso da parte del professionista, con errata valutazione delle prove ed omessa motivazione sul punto delle risultanze istruttorie

Si assume che la Corte d’Appello ha escluso che il B. avesse a sua volta receduto dal rapporto all’esito della conversazione avuta nel settembre del 2011 ed oggetto della registrazione versata su CD in atti.

Il tenore di tale conversazione non è stato contestato e quindi la soluzione della sentenza impugnata viola anche la previsione di cui all’art. 2697 c.c., con violazione anche dell’art. 2721 c.c. e dell’art. 115 c.p.c.

Il motivo è inammissibile.

La violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).

Il motivo nella sua esposizione tradisce in maniera evidente la sua effettiva aspirazione a sottoporre a questa Corte una rivalutazione delle emergenze probatoria, ritenendosi non soddisfacente quella resa sul punto dal giudice di merito, cui l’ordinamento assegna in via esclusiva il compito di provvedere alla ricostruzione del fatto.

Trattasi di risultato che non era consentito dall’ordinamento processuale anche in relazione alla previgente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e che risulta vieppiù impedito a seguito della novella del 2012 che ha reso ancor più ristretto l’ambito del sindacato sulla motivazione del giudice di merito. Ma ancor più risolutivo è il fatto che il motivo, nella parte in cui inquadra la censura nella previsione di cui al n. 5 citato, è inammissibile in ragione dell’applicabilità alla fattispecie ratione temporis dell’art. 348 ter c.p.c., u.c., avendo la sentenza d’appello confermato quella di primo grado sulla base delle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione del Tribunale (interpretazione del tenore della conversazione oggetto della registrazione in atti).

Il secondo motivo lamenta la violazione degli artt. 2033 e 2237 c.c. “in ordine al compenso riconosciuto dopo il recesso del resistente e somme già percepite per l’attività svolta ed omessa motivazione sul perchè è stato riconosciuto il danno emergente”.

Si evidenzia che la sentenza ha riconosciuto al B. il danno emergente per l’attività svolta ed il lucro cessante per l’attività invece svolta dal nuovo commercialista reperito dalla ricorrente dopo la disdetta.

In tal modo è stato leso il precetto di cui all’art. 2237 c.c. che contempla il recesso ad nutum del cliente dal contratto di prestazione d’opera intellettuale.

Inoltre, la Corte d’Appello non ha motivato le ragioni in base alle quali ha riconosciuto il danno emergente al B., senza attenersi, anche per le attività svolte nell’anno successivo a quello della disdetta, al metodo forfettario mensile, ma ricorrendo alle tariffe dei commercialisti.

Anche tale motivo deve essere dichiarato inammissibile.

La decisione gravata ha fatto puntale richiamo alla giurisprudenza di questa Corte che anche di recente ha ribadito che (Cass. n. 21904/2018) che la facoltà di recesso “ad nutum” del cliente nel contratto di prestazione d’opera intellettuale, quale contemplata dall’art. 2237 c.c., comma 1, non ha carattere inderogabile e, quindi, è possibile che, per particolari esigenze delle parti, sia esclusa fino al termine del rapporto, ragion per cui anche l’apposizione di un termine ad un rapporto di collaborazione professionale continuativa può essere sufficiente ad integrare la deroga convenzionale alla suddetta facoltà di recesso così come disciplinata dalla legge, senza che a tal fine sia propriamente necessario pervenire alla conclusione di un patto specifico ed espresso (Cass. n. 469/2016; Cass. n. 22786/2013).

Nella vicenda, la Corte distrettuale partendo dall’interpretazione delle previsioni contrattuali, interpretazione che non risulta specificamente attinta dal motivo in esame, ha riscontrato l’esistenza di un limite temporale alla facoltà di disdetta e per l’effetto la volontà di porre un limite temporale alla facoltà di cui all’art. 2237 c.c., limite la cui vincolatività era ben presente alla ricorrente che, in relazione all’analoga disdetta comunicata nell’anno 2010, aveva preso atto della sua tardività, dando quindi seguito al rapporto anche per l’anno successivo.

Una volta quindi esclusa la dedotta violazione dell’art. 2237 c.c., in ragione del riscontro di una volontà derogatoria delle parti, va del pari disattesa la censura che investe i criteri di determinazione del compenso per le attività svolte dal B. nell’anno successivo a quello interessato dalla tempestiva disdetta (2011), ma legittimate dal rapporto di stretta connessione con le prestazioni rese nella piena vigenza del rapporto.

La sentenza gravata, lungi dall’omettere di fornire una spiegazione sulla decisione di procedere alla liquidazione sulla scorta della tariffe professionali di categoria, ha adeguatamente motivato, ritenendo, sulla scorta dell’interpretazione del contratto del 23/9/2008, con il quale il compenso era stato determinato in maniera forfettaria mensile, che tale modalità di calcolo del corrispettivo non poteva più valere una volta cessato l’anno oggetto della disdetta, atteso che il criterio forfettario non poteva ritenersi idoneo a compensare le successive prestazioni, anche alla luce del fatto che per queste ultime le parti avevano fatto ricorso al termine “parcellizzazione”, che secondo l’interpretazione dei giudici di appello, in alcun modo contrastata dalla ricorrente, sottintendeva il dover far ricorso alla tariffa professionale per la fissazione del compenso dovuto (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata).

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma degli stessi artt. 1 bis e 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 14 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2021

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