Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16560 del 30/05/2017

Cassazione civile, sez. trib., 30/05/2017, (ud. 21/12/2016, dep.30/05/2017),  n. 13560

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14679-2010 proposto da:

R.M., elettivamente domiciliato in ROMA VIA F.

MICHELINI TOCCI 50, presso lo studio dell’avvocato CARLO VISCONTI,

rappresentato e difeso dall’avvocato STEFANO ARMATI giusta delega in

calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 220/2009 della COMM.TRIB.REG. del LAZIO,

depositata il 01/12/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/12/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO FRANCESCO ESPOSITO;

udito per il ricorrente l’Avvocato ARMATI che si riporta e chiede

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato BACHETTI che si riporta e chiede

l’inammissibilità;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

AUGUSTINIS UMBERTO che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

R.M. propone ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, avverso la sentenza della C.T.R. del Lazio che, in riforma della decisione di primo grado, aveva respinto il ricorso proposto dal contribuente, titolare di ditta individuale esercente l’attività di richiesta di certificati e disbrigo pratiche amministrative, avverso l’avviso di accertamento con il quale, in applicazione degli studi di settore di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 62 bis convertito con modificazioni dalla L. n. 427 del 1993, erano stati accertati maggiori ricavi per Euro 36.592,00 in relazione all’anno di imposta 2001.

Disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’appello D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 52, comma 2, la C.T.R. ha ritenuto la legittimità dell’avviso di accertamento, in considerazione delle presunzioni scaturenti dalle gravi incongruenze ravvisate dall’Ufficio tra i valori dichiarati dal contribuente e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta e degli studi di settore, in assenza di specifiche prove di segno contrario addotte dal contribuente.

L’Agenzia delle Entrate ha depositato mero atto di costituzione.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso il contribuente deduce “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4”, per non avere la C.T.R. dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate in assenza della prescritta autorizzazione dell’organo competente.

Il motivo è infondato.

Costituisce principio giurisprudenziale ormai consolidato quello secondo cui “nel processo tributario, la disposizione di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 52, comma 2, secondo la quale gli uffici periferici del dipartimento delle entrate del Ministero delle finanze e gli uffici del territorio devono essere previamente autorizzati alla proposizione dell’appello principale, rispettivamente, dal responsabile del servizio del contenzioso della competente direzione generale delle entrate e dal responsabile del servizio del contenzioso della competente direzione compartimentale del territorio, non è più applicabile una volta divenuta operativa – in forza del D.M. 28 dicembre 2000 del ministero dell’economia – la disciplina recata dal D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57 che ha istituito le agenzie fiscali, attribuendo ad esse la gestione della generalità delle funzioni in precedenza esercitate dai dipartimenti e dagli uffici del ministero delle finanze, e trasferendo alle medesime i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze, spettando a ciascuna agenzia appellare le sentenze ad esse sfavorevoli delle commissioni tributarie provinciali” (Cass., sez. trib., 16-05-2014, n. 10736; nello stesso senso, Cass. (ord.), sez. trib., 04-01-2016, n. 22, non massimata).

Tale indirizzo è condiviso dal Collegio, che non ravvisa motivi per discostarsene. Correttamente, pertanto, la C.T.R. ha ritenuto ammissibile l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate.

2. Con il secondo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62 sexies, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3)”, per avere la C.T.R. ritenuto che lo scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli calcolati sulla base degli studi di settore costituisse grave incongruenza, di per sè idonea ad integrare prova dell’evasione.

La doglianza è infondata.

Giova rammentare che i parametri o studi di settore, rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rilevano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d, che deve essere necessariamente svolto in contraddittorio con il contribuente, sul quale, nella fase amministrativa e, soprattutto, contenziosa, incombe l’onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto di accertamento (da ultimo, Cass. civ., sez. trib., 13-07-2016, n. 14288).

Tanto premesso, va osservato che, nella specie, il ricorrente si è limitato a censurare la decisione della C.T.R. fondata sul rilievo che lo scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli calcolati sulla base dello studio di settore costituisse grave incongruenza, idonea a fondare l’avviso di accertamento, senza contestare la regolare attivazione del contraddittorio ed omettendo, altresì, di indicare – come avrebbe invece richiesto il principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione – le contestazioni in concreto mosse nei confronti dell’attività accertativa, in base alle quale – secondo l’assunto del contribuente – avrebbe trovato giustificazione il minor reddito dichiarato. Questa Corte, pertanto, non è stata posta nelle condizioni di avere una completa cognizione della controversia e di cogliere appieno il significato e la portata delle censure rivolte alla sentenza impugnata.

3. Con il terzo motivo si deduce “motivazione illogica e contraddittoria su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”, per avere il giudice di appello ritenuto che la C.T.P. avesse fondato la propria decisione sul riscontro documentale della visura della Camera di commercio (da cui risultava che l’attività era stata chiusa nel 2005, mentre l’accertamento si riferiva a redditi prodotti nel 2001), pur avendo il giudice di primo grado posto a base del proprio convincimento altre circostanze.

Il motivo è inammissibile.

Il mero riferimento alla visura camerale, contenuto nella sentenza impugnata, non assume rilievo ai fini della decisione, fondata – come si è detto – sulla omessa dimostrazione da parte del contribuente di circostanze di fatto tali da giustificare l’allontanamento della sua attività dal modello determinato sulla base degli studi di settore. L’argomentazione della sentenza impugnata censurata risulta dunque svolta ad abundantiam, e pertanto non costituisce ratio decidendi della medesima, con conseguente inammissibilità del motivo di doglianza per difetto di interesse (in termini, Cass. civ., sez. lav., 22-11-2010, n. 23635; Cass. civ., sez. lav., 22-10-2014, n. 22380)

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2017

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