Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16545 del 05/08/2016


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Cassazione civile sez. lav., 05/08/2016, (ud. 10/05/2016, dep. 05/08/2016), n.16545

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23445-2012 proposto da:

ANAS S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22,

presso lo studio dell’avvocato ENZO MORRICO, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.F.R., C.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CRESCENZIO 58, presso lo studio degli avvocati BRUNO COSSU, SAVINA

BOMBOI, che lo rappresentano e difendono unitamente all’avvocato

GRAZIA ANNA RIZZI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 655/2011 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 25/10/2011 R.G.N. 1427/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/05/2016 dal Consigliere Dott. PAOLA GHINOY;

udito l’Avvocato GIANNI’ GAETANO per delega Avvocato MORRICO ENZO;

udito l’Avvocato COSSU BRUNO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo, che ha concluso per l’accoglimento dell’ultimo

motivo del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza n. 655 del 2011, la Corte d’appello di L’Aquila rigettava l’appello principale proposto da Anas s.p.a. e confermava la sentenza del Tribunale di Pescara che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato dalla società con D.F.R. in data 23/11/1999 per essere stata sottoscritta la clausola appositiva del termine il 4.1.2000, successivamente all’inizio della prestazione lavorativa, e quindi la sussistenza inter partes di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, e condannato la società a riammettere il lavoratore in servizio, nonchè a regolarizzarne la posizione previdenziale e assicurativa. Accogliendo l’appello incidentale proposto dal D.F., riconosceva l’indennità risarcitoria che il primo giudice aveva negato, in misura pari alle retribuzioni maturate con decorrenza dal momento in cui il dipendente aveva offerto le proprie prestazioni lavorative, da individuarsi nella lettera contenente la richiesta di svolgimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, pervenuta il 10/8/2006, contenente la specificazione delle rivendicazioni avanzate e la contestuale offerta della prestazione lavorativa, detratto quanto eventualmente percepito nello stesso periodo.

Per la cassazione della sentenza Anas s.p.a. ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi, cui ha resistito con controricorso D.F.R.. Anas ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

All’udienza pubblica, la difesa del controricorrente ha eccepito l’illegittimità costituzionale della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 7, con riferimento all’interpretazione autentica data alla disposizione di cui al comma 5 di detto art. 32 dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13, per violazione degli artt. 36, 38 e 117 Cost. in relazione all’art.6 CEDU e all’art. 1 Protocollo 1 della CEDU.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. A fondamento del primo motivo di ricorso, Anas s.p.a. deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 1372 c.c. comma uno in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto infondata la proposta eccezione di risoluzione del contratto per mutuo consenso.

Riferisce in fatto che il controricorrente aveva sottoscritto nel novembre 1999 un contratto di lavoro a termine conclusosi il 19/2/2000, ed i successivi contratti erano intervenuti a cadenza annuale l’uno dall’altro, l’ultimo dei quali nel giugno 2008. Il D.F. aveva impugnato il termine con comunicazione dell’agosto del 2006 e, quindi, a circa sette anni di distanza dalla sottoscrizione del primo contratto e quando tutti i successivi rapporti di lavoro erano stati per comune volontà delle parti a tempo determinato. Tale condotta realizzava ad avviso della società un comportamento concludente nel senso di una volontà, quantomeno tacita, di non nutrire alcun interesse alla prosecuzione del rapporto.

1.1. Il motivo non è fondato, in quanto la Corte territoriale correttamente non ha ritenuto significativo nel senso voluto dalla ricorrente il tempo trascorso tra la scadenza del primo contratto e l’impugnativa, poichè il lavoratore nel frattempo stava lavorando per Poste in virtù di successivi contratti (l’ultimo dei quali è scaduto il 23.6.2009), circostanza che manifestava il perdurare dell’interesse a rendere la prestazione lavorativa. Nè poteva ritenersi significativa nel senso della sussistenza della volontà risolutoria la stipulazione dei successivi contratti a termine, considerato che costituisce orientamento consolidato e condiviso di questa Corte, cui occorre dare continuità, quello secondo il quale in presenza di una serie di contratti a termine illegittimi, la successiva semplice sottoscrizione di un contratto a termine legittimo non estingue il rapporto a tempo indeterminato venutosi a creare; tanto meno tale stipulazione raggiunge il suindicato effetto a causa del fatto che le parti avrebbero posto in essere una novazione contrattuale – istituto richiamato dalla ricorrente-se non si è in presenza di nessuno degli elementi che connotano tale istituto (nè una modifica dei soggetti, nè una modifica dell’oggetto o del titolo, nè l’animus novandi) (v. Cass. n.14712 del 14/7/2015, n. 7552 del 2014, Cass. n. 16019 del 2011; Cass. n. 6081 del 2010, Cass. n. 11724 del 2008), elementi che devono essere dedotti e provati in giudizio sulla parte che deduce l’esistenza della novazione (cfr. anche Cass. n. 8527 del 2009), il che nel caso non è avvenuto.

2. Come secondo motivo, la società lamenta insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio e sostiene che la motivazione sarebbe insufficiente laddove la Corte d’appello, al fine di affermare la rilevanza della sottoscrizione del contratto successiva all’inizio della prestazione (che assume essere di soli tre giorni), non ha considerato che nessuna norma richiede che il termine apposto al contratto di lavoro debba risultare da un atto scritto anteriore all’inizio della prestazione di lavoro, e che anche un’eventuale discrasia di cinque giorni tra la formalizzazione e l’inizio della prestazione non potrebbe determinare l’invalidazione della clausola appositiva del termine, avendo la scrittura funzione meramente probatoria e determinando una migliore e più approfondita valutazione del lavoratore.

2.1. Il motivo è inammissibile laddove critica la soluzione in diritto adottata dal Corte territoriale come vizio di motivazione. Nel merito, è comunque infondato: come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui ribadito, “ai sensi della L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 3, – applicabile ratione temporis al primo contratto – l’apposizione del termine al contratto di lavoro postula, a pena di nullità, un patto di forma scritta essenziale, che deve essere anteriore o, quanto meno, contestuale all’inizio del rapporto e non tollera equipollenti, quali, in ipotesi di assunzione attraverso l’ufficio di collocamento, la richiesta del datore di lavoro od il provvedimento di avviamento del lavoratore da parte dell’ufficio predetto” (v. fra le altre Cass. n. 15494 del 14/07/2011, Cass. 12-11-1993 n. 11173, Cass 27-2-1998 n. 2211, Cass. 14-12-2001 n. 15801, Cass. 13-2-1988 n. 1571).

3. Come terzo motivo, Anas s.p.a. deduce violazione della L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 1 e lamenta che la Corte territoriale non abbia valorizzato il fatto che il contratto del 23/11/1999 prevedeva la sua durata massima ed indicava la fissazione di un termine allo scadere del quale si diceva che il lavoratore sarebbe stato licenziato per fine lavoro: da tale data pertanto decorreva ad avviso della società il termine di 60 gg. per far valere l’impugnativa del licenziamento.

3.1. La difesa del lavoratore ha eccepito l’inammissibilità del motivo in quanto nuovo. Il rilievo è fondato, considerato che la Corte territoriale non si è pronunciata sulla questione e la parte ricorrente, nel richiamare il motivo d’appello, non ha riportato alcun passaggio del proprio ricorso nel quale dalla scadenza del termine e successiva risoluzione del rapporto si traessero conseguenze in termini decadenziali.

3.2. Il motivo è comunque infondato, poichè questa Corte ha già chiarito, con soluzione cui occorre dare continuità e che può essere applicata anche nella fattispecie (v. Cass. n. 6100 del 17/03/2014) che” in tema di contratto di lavoro a termine, non è configurabile la decadenza di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, per mancata impugnativa del licenziamento, se il rapporto ha avuto conclusione non in base ad un atto unilaterale risolutivo del datore di lavoro, ma solo per la scadenza del termine illegittimamente apposto”.

4. Come quarto motivo, Anas s.p.a. deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 e lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto inapplicabile al giudizio di secondo grado lo ius superveniens costituito dalla disposizione citata, la cui applicazione era stata invocata dalla società in via di subordine, ed abbia riconosciuto al lavoratore la retribuzione a far data dalla realizzazione della mora credendi del datore di lavoro, individuata nella lettera del 10.8.2006.

4.1. La difesa dei lavoratori ha eccepito trattarsi di motivo nuovo in quanto il giudizio d’appello, conclusosi successivamente all’entrata in vigore della L. n. 183 del 2010, controparte non ha invocato l’applicazione dell’art. 32. Il rilievo non può essere condiviso, in quanto sulla questione relativa all’ammontare dell’indennità risarcitoria, negata in primo grado e fatta oggetto di appello incidentale, non si era formato il giudicato, e quindi la Corte avrebbe dovuto applicare la nuova disposizione anche d’ufficio.

4.2. Il motivo è altresì fondato.

Nel corso del giudizio di merito è intervenuta la L. 4 novembre 2010, n. 183, che all’art. 32, commi 5 e 6 ha dettato i criteri per la liquidazione del danno da illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro. Tale disciplina, applicabile in virtù della previsione del comma 7 a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità (v. Cass. ord. n. 2112 del 28/1/2011, Cass. n. 1409 del 31/01/2012, Cass. n. 26840 del 29/11/2013) è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, che nella sentenza interpretativa di rigetto n. 303 del 2011 ha premesso che essa è fondata sulla ratio legis diretta ad “introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto alle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente”. La norma, che “non si limita a forfettizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato”, in base ad un'”interpretazione costituzionalmente orientata” va intesa nel senso che il danno risarcito dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto (cosi come peraltro chiarito con la norma di interpretazione autentica contenuta nella L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13), con la conseguenza che a partire da tale sentenza il datore di lavoro è indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva, altrimenti risultando “completamente svuotata” la “tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato”. Nel contempo, il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum, sicchè l’indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria; essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno per il avere il lavoratore prontamente reperito un’altra occupazione (Cass. n. 1409 del 31/01/2012, Cass. n. 3056 del 29/02/2012). La garanzia economica in questione, attraverso il ricorso ai criteri indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8, consente di calibrare l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonchè le stesse dimensioni dell’impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti). Così interpretata, la nuova normativa – risultata “nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi” – ha superato il vaglio di costituzionalità sotto i vari profili sollevati con le ordinanze di rimessione con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102 e 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1 (v. in senso conforme, C.Cost., ord., n. 112 del 2012) nonchè con riferimento all’ipotizzato contrasto con la clausola 8.3 dell’accordo quadro Europeo sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Corte Cost. n. 226 del 2014).

4.3. La disciplina richiamata deve quindi essere applicata al caso in esame, essendone stata richiesta l’applicazione in sede d’appello ed avendo la parte ricorrente formulato un ammissibile e specifico motivo per censurare la decisione di diniego della Corte territoriale; sussiste inoltre in proposito l’interesse ad agire, in quanto la Corte ha riconosciuto a titolo risarcitorio un importo superiore al massimo che poteva essere liquidato in applicazione dell’art. 32.

4.4. All’udienza pubblica, la difesa del controricorrente, come anticipato nello storico di lite, ha eccepito l’illegittimità costituzionale del L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 7, con riferimento all’interpretazione autentica data alla disposizione di cui al comma 5 di detto art. 32 dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13, per violazione degli artt. 36, 38 e 117 Cost. in relazione all’art. 6 CEDU e all’art. 1 Protocollo n. 1 CEDU, così come interpretato dalla Corte Europea, ed ha richiamato il passaggio della sentenza del 7 giugno 2011 – Ricorsi nn. 43549/08, 6107/09 e 5087/09 – Agrati ed altri c. ITALIA, nel quale la Corte di Strasburgo si è così espressa: “Alla luce della giurisprudenza dei giudici nazionali, la Corte ritiene, contrariamente a quanto sostenuto dal Governo, che i ricorrenti fossero titolari, prima dell’intervento della Legge Finanziaria 2006, di un interesse economico che costituiva, se non un diritto di credito nei confronti della controparte, quanto meno un “legittimo affidamento” di ottenere il pagamento degli importi contestati, e che aveva, pertanto, il carattere di “bene” ai sensi della prima frase dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (v., in particolare Lecaipentier e altri c. Francia, n. 67847/01, 38, 14 febbraio 2006, e S.A. Dangeville c. Francia, n. 36.677/9 7, 48, CEDU 2002-111). L’articolo 1 del Protocollo n. 1 è pertanto applicabile al caso di specie” “… La Corte ritiene che la legge in questione, regolamentando in maniera definitiva le controversie, si sostanzi in un’ingerenza nell’esercizio del diritto di proprietà che i ricorrenti potevano rivendicare in virtù della legislazione previgente e della giurisprudenza”.

Secondo la parte controricorrente, quindi, la retroattività della disciplina determinerebbe la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione il quale recita: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei propri beni. Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

4.5. Deve però rilevarsi che nella stessa richiamata sentenza Agrati la Corte EDU, al punto 79, ha affermato che il concetto di “pubblica utilità” che devono avere le ragioni che giustificano le limitazioni del diritto di proprietà è ampio per natura, e che la relativa decisione di adottare leggi che comportino la privazione della proprietà implica l’esame di questioni politiche, economiche e sociali, e che le autorità nazionali sono in via di principio in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale per determinare le ragioni di “pubblica utilità” che giustificano una limitazione del diritto di proprietà.

La soluzione della questione posta dal ricorrente si rinviene quindi già nella motivazione delle sentenze sopra citate della Corte Costituzionale, laddove, nel richiamare la ratto legis sottesa all’introduzione della nuova disciplina anche con riferimento all’operatività quale ius superveniens sui giudizi in corso, ne ha ritenuto la conformità ai parametri costituzionali valorizzandone la finalità perequativa, nonchè di semplificazione e certezza applicativa di interesse generale, che si accompagna all’effettività della tutela ed alla sua perdurante dissuasività. In tal senso, risultano esplicitate le ragioni di pubblica utilità che giustificano l’intervento che, occorre ribadirlo, non ha riguardato un diritto già attuale ed esigibile, ma soltanto una “legittima speranza” (nella terminologia utilizzata dalla Corte EDU, punto 74) di ottenere il pagamento delle somme controverse.

5. Occorre aggiungere che nella fattispecie non è applicabile l’ulteriore disciplina sopravvenuta costituita dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 28, commi 2 e 3, che ha ridisegnato le conseguenze risarcitorie derivanti dall’illegittima apposizione del termine, in termini innovativi quantomeno con riferimento alla retribuzione da assumere quale base di calcolo per l’indennità ed alle tipologie di accordi collettivi in base ai quali può procedersi alla dimidiazione della misura massima prevista. Come chiarito da questa Corte con la sentenza n. 21521 del 2015, tale disciplina deve infatti ritenersi applicabile soltanto ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. citato (25-6-2015), così perdurando l’applicazione della pregressa disciplina di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 ai “giudizi pendenti” relativi ai contratti precedenti.

5.1. A sostegno di tale conclusione milita la considerazione che la nuova normativa di carattere sanzionatorio si inserisce nella disciplina organica del rapporto di lavoro a tempo determinato, dettata dal Governo con il D.Lgs. n. 81 del 2015, artt. 19 e ss., in attuazione della delega conferita con la L. n. 183 del 2014, art. 1 comma 7, la cui entrata in vigore ha determinato l’abrogazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, ai sensi dell’art. 55, comma 1, lett. b) e comma 2. Per essa, in assenza di esplicita disposizione contraria, deve operare quindi la regola dell’irretroattività sancita dall’art. 11 preleggi, regola cui – com’è noto – può derogarsi soltanto se ciò è espressamente previsto da apposita disposizione di diritto transitorio, quale quella che era stata formulata per l’operatività della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 e 6 dal relativo comma 7. In assenza di espressa disposizione derogatoria, il principio dell’irretroattività previsto dall’art. 11 preleggi fa sì che la nuova legge non possa essere applicata, oltre ai rapporti giuridici esauritisi prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente e ancora in vita ove, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle sue conseguenze attuali o future (così, sull’operatività del principio di irretroattività, Cass. n. 301 del 2014 e n. 9462 del 2015). Lo ius superveniens è infatti applicabile (solo) ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore (cfr., da ultimo, Cass. n. 9462 del 2015, n. 301 del 2014, Cass. 3.7.13 n. 16620; meno recentemente v. in senso conforme Cass. 3.3.2000 n. 2433 e, in epoca più remota, Cass. S.U. 12.12.67 n. 2926). Ne deriva che la nuova previsione nel caso è applicabile solo ai fatti generatori della (nuova) responsabilità risarcitoria, successivi all’entrata in vigore della nuova disciplina, e quindi alle ipotesi di illegittima apposizione del termine verificatesi dopo tale data.

5.2. Tale conclusione non è contraddetta dal rilievo che il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 55 non ha abrogato esplicitamente anche il comma 7 dell’art. 32 della L. n. 183 del 2010, ma solo, al comma 1 lett. f), i commi 5 e 6, considerato che il detto comma 7 si riferisce esplicitamente (solo) ai precedenti commi 5 e 6, e non è pertanto estensibile alla nuova disciplina dettata dall’art. 28 cit.

L’interpretazione costituzionalmente orientata conforta la tesi dell’irretroattività della nuova norma, dovendosi altrimenti superare il vaglio di compatibilità con l’art. 6 della CEDU, sottoposto a stringenti condizioni (v. Corte Cost. n. 303 del 2011 e 112 del 2012, già sopra richiamate).

6. A quanto sopra considerato seguono l’accoglimento del quarto motivo di ricorso e la cassazione della sentenza impugnata in relazione ad esso, con rinvio alla Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione, che valuterà, alla luce dei criteri dettati dalla L. n. 183 del 2010, quale debba essere la misura dell’indennità risarcitoria da liquidarsi e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso, rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 10 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2016

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