Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16543 del 28/07/2011

Cassazione civile sez. III, 28/07/2011, (ud. 16/06/2011, dep. 28/07/2011), n.16543

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.P. (OMISSIS), N.C.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PASUBIO 2,

presso lo studio dell’avvocato DI STEFANO GIANNI, che li rappresenta

e difende giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

ASSITALIA LE ASSICURAZIONI D’ITALIA SPA, (OMISSIS), in persona

del procuratore speciale Avv. F.M., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE PARIOLI 87, presso lo studio dell’avvocato

SEMINAROTI ALDO, che la rappresenta e difende giusta delega in calce

al controricorso;

AZIENDA ASL (OMISSIS) (OMISSIS), in persona del Direttore

Generale, dott.a D.F., elettivamente domiciliato in ROMA,

V. FILIPPO MEDA 35, presso lo studio dell’avvocato FALLERINI MARIA,

che lo rappresenta e difende giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrenti –

contro

C.V. (OMISSIS);

– intimato –

Nonchè da:

C.V. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIALE REGINA MARGHERITA 37, presso lo studio dell’avvocato SEPE

VINCENZO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

BARRETTA ALESSANDRO giusta delega in calce al controricorso e ricorso

incidentale;

– ricorrente incidentale –

e contro

ASSITALIA LE ASSICURAZIONI D’ITALIA SPA, AZIENDA ASL (OMISSIS)

(OMISSIS), N.C. (OMISSIS), M.

P. (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 3306/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

Sezione prima civile, emessa il 02/07/2008, depositata il 01/09/2008;

R.G.N. 6550/2004.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/06/2011 dal Consigliere Dott. FULVIO UCCELLA;

udito l’Avvocato DI STEFANO GIANNI;

udito l’Avvocato SEMINAROTI ALDO;

udito l’Avvocato BARRETTA ALESSANDRO difensore di CASANIA VINCENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio che ha concluso per rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il 2 dicembre 2003, il Tribunale di Roma dichiarava la responsabilità di C.V. e dell’ASL (OMISSIS) in ordine ai danni subiti da N.C. e M.P. in relazione ai postumi di un intervento di laparotomia sulla N. per diagnosticata cisti paraovarica sinistra e alla situazione di anemia insorta a causa dell’intervento, perchè, ebbe statuire il Tribunale, i sintomi dell’infezione, che si erano evidenziati sin dal giorno successivo alle sua dimissioni dalla struttura ospedaliera Sandro Pertini in cui fu ricoverata il 19 dicembre 1998 ed operata il (OMISSIS), furono scoperti con ritardo quando l’infezione, da cui era affetta la N., si era già trasformata in peritonite.

In sostanza, il giudice di prime cure riteneva la responsabilità del C., ginecologo-ostetrico, che aveva in cura la N. sin dal 1990 per non aver evidenziato le lesioni intestinali nel corso dell’intervento, nonostante che questo fosse stato modificato da intervento in endoscopia a laparotomico, e per essere stato il sanitario negligente nella osservazione del decorso post-operatorio.

Nell’occasione la soc. Assitalia s.p.a., chiamata in causa dal C., veniva condannata a manlevare la ASL (OMISSIS) e veniva respinta la domanda volta dai coniugi M. nei confronti della dott.ssa B. che aveva coadiuvato il C. nell’intervento.

Su gravame della N. e del M., in via principale, e dell’Assitalia e del C., in via incidentale, la sentenza è stata confermata dalla Corte di appello di Roma il 1 settembre 2009, che rigettava tutti gli appelli e provvedeva sulle spese.

Nel corso del giudizio di appello veniva depositata la sentenza del Tribunale penale di Roma, che su querela della N., il 20 gennaio 2004 aveva dichiarato la responsabilità penale del C. per lesioni colpose e la sentenza del 21 giugno 2005 della Corte di appello penale di Roma che aveva assolto il C. dal reato ascrittogli di lesioni colpose sotto il profilo della insufficienza di prove, come espressamente dichiarato in quella sentenza.

Avverso siffatta decisione propongono ricorso per cassazione gli originari attori, affidandosi, se non si erra, a 19 motivi, parte dei quali esposti sotto molteplici profili. Resistono con controricorso l’Azienda Unità sanitaria locale (OMISSIS), la Ina-Assitalia s.p.a. e il C., che ha proposto ricorso incidentale, affidandosi a due motivi.

Il C., l’Ina-Assitalia, l’Azienda USL (OMISSIS) hanno depositato rispettive memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I due ricorsi vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..

1.- Per un’analisi del complesso ricorso in punto di fatto va rilevato quanto segue.

Dagli atti di causa si evince che sin dal 1990 la N. era paziente del dr. C., ginecologo-ostetrico, in quanto affetta da una malformazione uterina, alla quale il C. assicurò di porre rimedio attraverso una metroplastica laparotomia, che venne effettuata il 19 febbraio 1992. Nel 1994 alla quindicesima settimana la N. abortì e il C. consigliò un intervento in laparoscopia presso altro sanitario specializzato in tale tecnica e che eseguì l’intervento il 23 febbraio 1996 con la totale eliminazione del problema.

Sempre nel 1996 una indagine ecografica rivelava la presenza di una sacca liquida paraovarica di cui fu data contezza al medico, che non ritenne nè opportuno nè necessario effettuare alcun intervento.

Nel giugno del 1997 la N. abortì di nuovo, per cui nel novembre 1997 il C. consigliò di intervenire.

Alle domande della N. e del marito sulla efficacia ed il rischio dell’intervento il C. assicurò che lo stesso sarebbe stato eseguito con una semplice laparoscopia presso l’Ospedale Sandro Pertini.

La N. si ricoverò il 12 gennaio 1998 con diagnosi di “cisti paraovarica sinistra”, senza nessuna ulteriore visita ed accertamento ecografico, ed in data 14 gennaio 1998 entrò in sala operatoria, ove in considerazione della situazione rivelatasi endoscopicamente, l’intervento si trasformò da laparoscopia in laparatomia e all’esito, il referto della cartella clinica riportava “laparotomia- viscerolisi- resezione ovarica bilaterale”.

La paziente nel decorso postoperatorio accusò dolori al basso ventre e difficoltà respiratorie, di cui venne informato il C. dal marito.

Il 18 gennaio 1998 le venne comunicato che sarebbe potuta uscire il giorno successivo, ovvero il 19 gennaio, come avvenne.

Il 20 gennaio 1998 il marito avvertì il C. che la moglie aveva forti dolori al fianco sinistro e febbre a 38 gradi.

Sia i dolori che la febbre aumentarono il 23 gennaio 1998.

La donna, su consiglio della guardia medica, alle tre del mattino del 24 gennaio 1998 fu condotta all’Ospedale S. Camillo di Roma e dopo gli accertamenti, tra cui una TAC addominale e pelvica, fu ricoverata perchè risultata affetta da peritonite acuta diffusa.

Le venne praticata una laparotomia mediana sopra e sotto ombelicale, svuotamento dell’emiperitoneo ed altro, con prognosi sanitaria di giorni tre.

Il chirurgo ebbe a riferire che la infezione era dovuta verisimilmente al precedente intervento del 14 gennaio che aveva provocato diverse lesioni e non se ne sarebbero potuto escludere altre con nuove manifestazioni morbose.

Infatti, il 31 gennaio 1998 venne effettuato sulla N. nuovo intervento chirurgico dovuto alla presenza dell’accesso di Douglas con microperforazione del colon traverso, per cui si procedette ad una laparotomia mediana, ombelicopatico-sutura della perforazione, toilette del caso, drenaggio, chiusura per piani.

Solo in questo secondo intervento si potè rilevare la presenza della microlesione al colon. Il giorno 11 febbraio 1998 la N. venne dimessa.

Il giorno 1 giugno 1998 la N. sporgeva querela per lesioni colpose contro il C..

Il Tribunale in sede penale dichiarava il C. responsabile del delitto ascrittogli con sentenza del 20 gennaio 2004.

La Corte di appello penale di Roma con sentenza del 21 giugno 2005 assolveva il C. sotto il profilo dell’insufficienza di prove, così come si legge nella motivazione.

Sulla base di una consulenza medico-legale della fine del 1998, che concludeva per la responsabilità colposa del C., cui si attribuiva negligenza ed imperizia, i coniugi N. e M. con atto di citazione del 23 luglio-2 agosto 1999 chiamavano in giudizio il C., la ASL (OMISSIS), nonchè l’aiuto del C., la dott.ssa B., onde ottenere il risarcimento dei danni per responsabilità professionale e deontologica.

Il Tribunale di Roma accertava la responsabilità del C. solo per i fatti-reati addebitatigli, ovvero, per la condotta omissiva tenuta nel decorso postoperatorio ed, esclusa la responsabilità della B., condannava il sanitario, l’ASL e condannava l’Assitalia, chiamata in garanzia, a tenere indenne la ASL. La decisione gravata dai coniugi trovava conferma nella sentenza oggi impugnata.

2.-Ciò premesso in fatto, passando ai complessi ed articolati motivi del ricorso principale, in via preliminare osserva il Collegio che gli stessi vanno esaminati in relazione alle questioni trattate e non già secondo l’ordine numerico che non sembra corretto per mero errore materiale.

Ancora in via preliminare va osservato che la censura concernente documenti, ritenuti dal giudice dell’appello irritualmente dedotti e quella relativa alle domande, anch’esse ritenute a torto nuove vanno disattese. Infatti, come emerge dalla decisione in modo testuale, la sentenza penale non si riferisce alla imperizia nell’esecuzione degli interventi operatori eseguiti dal C., bensì all’inerzia dell’imputato – il C. – nella sorveglianza della situazione della N. nonostante fossero sorte complicazioni durante l’intervento di laparoscopia che avevano comportato la conversione della laparoscopia in laparatomia ed in presenza di importanti perdite ematiche.

In altri termini si trattava di documenti e domande che non erano pertinenti al complesso oggetto della domanda proposta in sede civilistica.

Il giudice dell’appello, in sede penale, ebbe a valutare anche il comportamento della N. e, facendo rigorosa applicazione dei criteri di individuazione del nesso di causalità nei reati omissivi, giunse alla conclusione che permaneva ” un insuperabile dubbio sulla sussistenza del nesso di causalità tra la condotta colposamente omessa dal dott. C. in merito alla situazione che aveva trovato all’atto della laparotomia e l’evento lesivo consistito nella perdita, dovuta a necrosi, dell’ovaia sinistra e comportante l’indebolimento permanente della capacità di procreare” (p. 3 e p. 7 sentenza penale di appello). In merito, poi, agli altri documenti, se da un lato i ricorrenti deducono che parte di essi erano già stati consegnati al CTU, di primo grado, dietro sua richiesta e prodotti nella comparsa conclusionale in primo grado ed ivi catalogati, dall’altro si limitano a parlare di integrazione di una “mera difesa volta a negare l’esistenza di fatti posta a fondamento della domanda avversa” (p. 10 ricorso) e, pur indicando per ordine numerico i documenti prodotti, non solo non ne riproducono, almeno per sintesi, alcuni contenuti, ma come fa notare il C. (p. 15 controricorso) alcuni di essi costituiscono nuova produzione non ammessa in appello.

3. – Con il primo e secondo motivo, da esaminarsi congiuntamente per la loro interconnessione, circa il contenuto della domanda in primo grado e di quella proposta in appello, unitamente ai documenti prodotti, i ricorrenti lamentano, in estrema sintesi, che il giudice dell’appello avrebbe erroneamente interpretato il contenuto e l’ampiezza della domanda formulata con conseguente carenza dell’inquadramento e della individuazione della fattispecie e violazione dell’art. 112 c.p.c..

Infatti, sarebbero state sostituite le domande proposte con una diversa e più limitata, fondata su di una più ristretta e , quindi, discrepante “causa petendi” e su di una realtà non dedotta in giudizio dalle parti.

Il giudice dell’appello non avrebbe tenuto conto che era stato posto in rilievo che il C. da una operazione di laparoscopia alla N. era passato ad una laparotomia non autorizzata e, ciò facendo, avrebbe effettuato una resezione cuneiforme delle ovaie (con conseguente asportazione di parte di essa), mentre , a seguito delle gravi conseguenze riportate, nel successivo intervento chirurgico presso l’Ospedale S. Camillo, alla N. venne asportato del tutto l’ovaia sinistra.

In merito a questo profilo osserva il Collegio che non si rinviene affatto nella sentenza impugnata il denunciato vizio di error in procedendo nè di violazione dell’art. 112 c.p.c..

A parte la inconferenza del richiamo al D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 36, il giudice dell’appello ha correttamente affermato, nell’attuare un accurato esame dell’articolato motivo di censura dedotto dagli appellanti, che l’azione risarcitoria proposta in primo grado era strettamente correlata ad un danno da lesioni personali che si “assume essere stato cagionato alla N. per errore operatorio dovuto ad imperizia del chirurgo ( C.) causativo di una microlesione al colon, provocata nel corso di un intervento di rimozione di una cisti paraovarica(che aveva comportato anche la lesione delle ovaie) inopinatamente,-assumevano gli attuali ricorrenti, eseguita dal C. con una tecnica diversa da quella precedentemente stabilita ed in assenza di consenso informato circa il normale intervento laparotomico eseguito in luogo della concertata laparoscopia”.

Questo argomentare è in perfetta linea con quanto richiesto nell’atto di citazione e perciò esaminato dal giudice di prime cure, aggiungendosi che le pretese si riferivano anche alla responsabilità del chirurgo e dell’Azienda circa la carenza di assistenza postoperatoria, che avrebbe determinato un aggravamento dello stato di salute per via dell’insorta peritonite e dei due successivi interventi subiti dalla N. in altro nosocomio.

Non solo, per quanto il giudice dell’appello si è fatto carico di evidenziare che l’intervento laparoscopico fu eseguito correttamente, condivìdendo le considerazioni del CTU e quelle del Consulente di parte, secondo il quale il trattamento laparoscopico prescelto era astrattamente adeguato rispetto al caso specifico della paziente (p. 30 ricorso).

Quindi, nessuna interpretazione autonoma e distinta da quanto richiesto e nessuna violazione dell’art. 112 c.p.c..

4. – La censura sulla mancanza di consenso informato in riferimento all’intervento di laparoscopia e che si conclude con il relativo quesito a p. 16 del ricorso va disattesa. Di vero, ed in linea di principio, va ribadito il costante orientamento di questa Corte, in virtù del quale costituisce violazione del diritto inviolabile all’autodeterminazione (artt. 2, 3 e art. 32 Cost., comma 2) l’inadempimento da parte del sanitario dell’obbligo di richiedere il consenso informato al paziente nei casi previsti (S.U. n. 26972/08;

Cass. n. 2847/10).

Infatti, il diritto al consenso informato è un vero e proprio diritto della persona e trova fondamento in quelle norme costituzionali sopra richiamate, nell’art. 5 della Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con L. 28 marzo 2001, n. 145, nell’art. 3 della Carta di Nizza del 7 dicembre 2000 ed ora giuridificata, nella L. 21 ottobre 2005, n. 219, ‘art. 3 (Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati), nella L. 19 febbraio 2004, n. 40, art. 6 (Norme sulla procreazione medicalmente assistita), nella L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 33 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), oltre che nell’art. 30 del Codice deontologico, ma che soprattutto trova fondamento nell’a priori della dignità di ogni essere umano, che ha trovato consacrazione anche a livello internazionale nell’art. 1del Protocollo addizionale alla Convenzione sulla biomedicina del 12 gennaio 1998 n. 168.

Come argomenta il giudice delle leggi, in virtù di queste previsioni normative il consenso informato svolge la funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, al punto che deve essere ritenuto un principio fondamentale in tema di tutela della salute (Corte cost. sent. n. 438, par. 4, in motivazione).

In virtù del “diritto vivente”, in altri termini, così come costituito dalle statuizioni costituzionali e da questa Corte, nonchè dall’osmosi tra attività interpretativa, da un lato, e norme interne ed internazionali, dall’altro, per gli interventi sanitari sul paziente emerge l’obbligo dello Stato e delle sue istituzioni, tra cui il giudice, a mantenere al centro la dimensione della persona umana nella sua concreta esistenzialità, in quanto connaturata da dignità, che presiede ai diritti fondamentali, senza la quale tali diritti potrebbero essere suscettibili di essere soggetti a limiti da svilire ogni loro incisività e che costituisce valore assiologico che informa l’ordinamento giuridico nella sua totalità e, quindi, a maggior ragione ogni norma ordinaria.

Se, quindi, l’homo juridicus è ormai homo dignus, come, condividendo autorevole dottrina e prendendo spunto dalle varie disposizioni sui diritti umani, ha ritenuto questa Corte con sentenza n. 7237/11 (in motivazione) la giurisprudenza di cui alle sent. n. 3847/11; n. 9315/10; n. 21748/07 riceve un ulteriore rafforzamento per ipotesi del genere.

Ciò rimarcato, per quanto concerne la presente censura che si appunta sulla mancata di consenso informato in merito all’intervento di laparoscopia, il Collegio rileva che sin dall’atto di citazione si ricavava:

1) che il C. aveva in cura la N., che presentava una malformazione uterina, sin dal 1990;

2) nel 1992, per porre rimedio alla malformazione il C. il 19 febbraio 1992 effettuò un intervento di metro plastica laparotomia;

3) nel 1994 alla quindicesima settimana la N. abortì e il C. consigliò un intervento di laparoscopia presso altro sanitario, specializzato in questa tecnica, che fu eseguito il 23 febbraio 1996 con totale eliminazione del problema, a dire degli attori;

4) nel 1996 una indagine ecografica rilevava la presenza di una sacca liquida paraovarica, di cui il C. fu reso edotto, ma per la quale non ritenne opportuno intervenire;

5) nel 1997 la N. abortì di nuovo per cui nel dicembre 1997 il C. consigliò di intervenire.

Alle richieste delucidazioni della N. e del marito sulla qualità e le conseguenze dell’intervento il C. osservò che si trattava di una semplice laparoscopia (va ricordato che già una volta la N. aveva subito lo stesso intervento, ad opera di altro sanitario, su indicazioni del C.);

6) l’intervento fu programmato ed il 12gennaio 1998 la N. si ricoverò presso l’Ospedale Sandro Pertini di Roma ASL (OMISSIS), con la diagnosi di cisti paraovarica sinistra;

7) il 14 gennaio 1998 entrò in sala operatoria e l’intervento da laparoscopico si trasformò in laparatomico. Quello che si sottolinea nell’atto di citazione di primo grado è che la N. aveva prestato consenso solo ad una tecnica non invasiva in modo traumatico e per l’aspirazione di una massa liquidale (p. 10 atto di citazione).

Queste circostanze evidenziate nell’atto introduttivo, la programmazione dell’intervento, ovviamente concordato, la chiara espressione di volontà di sottoporsi soltanto ad un intervento dalla tecnica non invasiva sono tutti elementi che depongono nel senso che vi sia stato – per facta concludentia -, rectius senza nessun atto scritto, un effettivo e consapevole consenso informato in merito alla sola laparoscopia.

Ne consegue che va disattesa la censura sul punto, il cui rigetto, aggiungasi per completezza, non contrasta con quanto in linea di puro diritto affermato per l’innanzi. Infatti, ciò che rileva e costituisce una condicio sine qua non è che il paziente sia messo in condizioni di assentire al trattamento sanitario con volontà consapevole delle implicazioni, attraverso una informazione adeguata che permetta allo stesso di avere piena conoscenza della natura, della portata ed della estensione, dei rischi, dei risultati conseguibili e delle eventuali conseguenze negative. In altri termini, il diritto fondamentale alla tutela della salute, per cui la N. doveva essere compiutamente informata risulta rispettato.

Non solo, ma le informazioni date per programmare l’intervento erano esatte e corrette dal punto di vista scientifico in ordine alla assenza di rischi, atteso che ad analogo intervento, che ebbe esito positivo, a dire della stessa N. un pò di tempo prima, ella si era sottoposta (v. ex adverso Cass. n. 24742/07).

Peraltro, la microlesione intestinale che gli attuali ricorrenti addebitano all’intervento laparoscopico fu rilevata solo in occasione del secondo intervento al San Camillo, in seguito alla peritonite insorta dopo l’intervento al Sandro Pertini e lo stesso perito, incaricato nel procedimento penale instaurato nei confronti del sanitario, ebbe a manifestare fondata incertezza sul se quell’intervento laparoscopico avesse potuto procurare la lesione, la cui esistenza non era emersa nemmeno in occasione del primo intervento al San Camillo, pur non potendo essere esclusa – ritiene il giudice dell’appello-, contrariamente a quanto asserito dal Tribunale. Ed, infine, non vi è prova – in ordine all’intervento laparoscopico- che vi siano altri specifici errori chirurgici nell’espletamento dello stesso (v. p. 6 sentenza di primo grado) , anche per quanto accertato dal CTU, il quale faceva rilevare nelle sue conclusioni che si trattava di “un’infezione subdola con sintomatologia tardiva, che avrebbe potuto essere diagnostica se la paziente fosse rimasta ricoverata sotto osservazione all’Ospedale Sandro Pertini” (p.8 sentenza impugnata).

5.-Di qui l’assorbimento delle censure indicate al n. 7 del ricorso (errore chirurgico e responsabilità del medico, sulla rilevata, successivamente, microlesione) sia sotto il profilo della contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, sia sotto quello, in estrema sintesi, dell’onere della prova e del rispetto del criterio del più probabile che non (p. 32-37 del ricorso), sia sotto quello dell’errore chirurgico e sua incertezza (p. 37-40 del ricorso), perchè, in buona sostanza, si contrappongono alle valutazioni del CTU, condivise dal giudice del merito, quelle del Consulente di parte e lo stesso CTU Torregrossa ebbe a sostenere che la perforazione intestinale non venne nè sospettata nè conosciuta dall’operatore (p. 39 del ricorso).

Sul punto, comunque, la motivazione della sentenza è immune da censura, con l’ulteriore assorbimento dei motivi così come indicati al punto 8 (errore chirurgico e sua incertezza sotto il duplice profilo circa errore chirurgico e sua incertezza e sulla infezione che ha provocato la peritonite), considerato che la microlesione ebbe ad evidenziarsi solo in un secondo momento e il rapporto eziologico fu ipotizzato solo nel secondo intervento al San Camillo.

Nè si può ritenere apodittica l’affermazione di cui a p. 7 della sentenza impugnata, circa la non infrequenza di complicanze e la compatibilità con la natura dell’intervento chirurgico subito dalla N. e di cui alla stessa p. 7 ultimo capoverso, attesa la condivisione da parte del giudice del merito della CTU e di quanto dichiarato sia dal Consulente della difesa nel processo penale e dal Consulente del P.M., di cui ampi stralci sono riportati nel controricorso (p. 26-32 controricorso).

Ed, inoltre, va precisato che, contrariamente a quanto nella censura si deduce, non risponde al vero che vi sia stata una omessa ed insufficiente motivazione su questo punto, stante anche il richiamo alla decisione di primo grado, che ebbe ad escludere ogni errore specifico e non essendo risultato certo il nesso eziologico con l’intervento eseguito in laparoscopia, come da relazione del CTU, che non ha esulato dal suo compito, come,invece, sostengono i ricorrenti.

Pertanto, non risulta conferente, anche in relazione alla tenuta della cartella clinica, il richiamo a quell’orientamento giurisprudenziale che ha trovato, di recente, conferma in Cass. n. 10060/10.

6.- Vanno, peraltro, disattesi i motivi (così numerati) da 10 (errore chirurgico ed emorragia sotto i triplici profili indicati) e quello pure indicato con il n. 10 (errore chirurgico e sua riparazione) nel suo duplice profilo. In queste censure, ed in estrema sintesi, i ricorrenti lamentano l’errore tecnico del chirurgo.

Al riguardo, sia la sentenza impugnata che quella di primo grado hanno escluso qualsiasi errore sia per la tecnica laparoscopica sia per quanto concerne l’intervento laparotomico, considerata la particolare tenacia di aderenze imponenti, che portarono anche alla resezione ovarica bilaterale e che non fu rilevata ecograficamente se non come cisti ovarica, mentre in effetti si era rivelata essere una complessa massa aderenziale, che coinvolgeva, tra l’altro, il sigma, l’ovaio e la tuba sinistra.

Si è trattato di interventi (sia quello laparoscopico che quello laparotomico) eseguiti in conformità alle metodiche medico- chirurgiche, come accertato dal CTU, per il quale tecnicamente il campo di intervento del trocar, per mezzo del quale venne effettuata la laparoscopia non attingeva in alcun modo il colon traverso.

Infine, circa la censura sulla CTU Torregrossa (indicata con il n. 12 nel ricorso), di cui si era chiesta la rinnovazione, stante l’asserito contrasto con altre consulenze di parte acquisite, va detto che le conclusioni del CTU escludevano alcuna imperizia o negligenza del sanitario e, quindi, ogni nesso eziologico.

Il giudice del merito ne prende atto con motivazione che si sottrae alla denunciata censura.

7.-Sgombrato il campo dalle censure che riguardano il consenso informato per la laparoscopia e la correttezza dell’intervento anche di laparotomia nel senso che entrambi furono eseguiti secondo le opportune metodiche e senza alcuna imperizia o negligenza, osserva il Collegio che il ricorso va accolto lì dove assumono i ricorrenti che alla N. non fosse stato richiesto il necessario consenso informato per l’intervento di laparatomia.

Come, infatti, emerge dalla letteratura scientifica, ed è noto, la laparotomia è un intervento completamente diverso dalla laparoscopia e consiste, in genere, nell’incidere l’addome per chiarire la causa di una malattia non diagnosticata o quando il chirurgo si trova a trattare una malattia nota, di cui altri esami non siano riusciti ad evidenziare la causa dei sintomi e dei segni che la malattia presenta.

Ci si trova, quindi, in presenza di un intervento assolutamente autonomo, non frequentemente determinato dalla urgenza e non già, ma il discorso non cambia, in presenza di modalità diverse dello stesso intervento.

Come già posto in rilievo, la mancanza di richiesta del consenso informato costituisce violazione del diritto inviolabile della persona a vedere tutelato il suo diritto alla salute con la dignità propria dell’essere persona.

La richiesta va sempre e comunque fatta a meno che non si tratti di caso di urgenza o di trattamento sanitario obbligatorio.

Per intervenire motti proprio occorre, sia in virtù del codice di deontologia del 3 ottobre 1998-nonchè di quello del 16 dicembre 2006 – art. 35 – sia delle norme ordinarie, internazionali e costituzionali sopra richiamate, che si verifichi durante l’intervento programmato ed assentito un fatto nuovo che ponga a repentaglio la vita del paziente e venga ritenuto medicalmente indispensabile.

Anche in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano derivate conseguenze dannose, qualora tale intervento non sia stato preceduto da adeguata informazione, nel caso in esame addirittura inesistente informazione, l’inadempimento dell’obbligo di informazione assume una valenza causale sul danno o sui danni subiti dal paziente. La N. aveva assentito alla laparoscopia e rifiutava ogni intervento dalla tecnica invasiva.

Il C., atteso che la sua era una responsabilità contrattuale e non extracontrattuale allo scopo di ottenere il consenso informato a fronte della allegazione della N. dell’inadempimento di tale obbligo di informazione, non ha adempiuto all’onere di provare di avere adempito a tale obbligazione (Cass. n. 2847/10), con conseguente legittima richiesta risarcitoria da parte della sua paziente (Cass. n. 10741/09).

Al riguardo, già la sentenza del Tribunale poneva in evidenza che ” il fatto che sia stato necessario cambiare le modalità di intervento nel corso dello stesso, essendo emerso delle complicazioni, costituisce una questione da considerare dal momento che, non trattandosi di un intervento essenziale per la sopravvivenza della paziente, essendo finalizzato solo alla rimozione di eventuali cause che potevano rendere più difficile il concepimento, in una situazione già anatomicamente e morfologicamente complessa, in assenza di ragioni specifiche, l’intervento avrebbe dovuto essere interrotto al fine di consentire all’attrice di esprimere il suo consenso, anche perchè secondo il C. l’intervento fino a quel momento eseguito non aveva posto in essere condizioni che imponevano il secondo intervento al fine di porre riparo ad eventuali situazioni pericolose” (p. 10 sentenza del Tribunale).

Da parte sua il giudice dell’appello con la svolta consulenza medico- legale ha accertato, in base alla documentazione clinica di riferimento, che la decisione di un cambiamento della tecnica di intervento fu determinata dalla emersa presenza di aderenze così numerose e serrate la cui rimozione non era praticabile con la recente e meno invasiva tecnica della laparoscopia, stabilita con la paziente in relazione al quadro suffragato dalle ecografie; il che indusse il chirurgo (a seguito di una scelta discrezionale del momento) a trasformare l’intervento endoscopico in una prudenziale laparotomia allo scopo di visualizzare meglio gli organi interni e la provenienza di una perdita ematica, che si era verificata nella fase iniziale dell’intervento.

Il mutamento di tecnica chirurgica, ritenuto necessario dal C., per ragioni pratiche che l’incaricato CTU nella sostanza condivide risulta essere stato, peraltro, eseguito conformemente alle buone tecniche operatorie e non vi è prova che abbia cagionato danni da errori ed imperizia” (p. 6-7 sentenza impugnata).

Queste considerazioni che emergono dalle due decisioni dimostrano ictu oculi che l’intervento laparotomico con la conseguente viscerolisi e resezione ovarica bilaterale non presentava carattere di urgenza, non richiedeva un intervento senza consenso, ma fu dovuto solo ad una scelta discrezionale del sanitario, che, secondo il Tribunale, aveva cercato, così facendo, ovvero interrompendo l’intervento laparoscopico e motu proprio attuando la laparotomia, di evitare alla paziente la necessità di una ulteriore anestesia.

E’ certo che l’iniziativa di intervento tradizionale fu adottata discrezionalmente dal sanitario e, quindi, non per necessità di salvare la vita della paziente.

Nulla ostava a che, ripresasi la N. dalla anestesia, il C. richiedesse ed ottenesse nei precisi limiti in cui è ammesso, il consenso informato.

Simile omissione ha concretato la violazione della normativa vigente e cogente e, quindi,ha violato il diritto irretrattabile della persona alla libera autodeterminazione per tutelare la sua salute.

Ne consegue che va accolto il quarto motivo, rectius vanno accolte tutte le censure che conce mono la violazione del diritto violato, ovvero quelle sulla effettuata laparotomia e conseguente viscerolisi e resezione cuneiforme bilaterale, con conseguente assorbimento dei motivi concernenti le varie voci di danno e le spese sia mediche che correlate di cui ai n. 9 a -20 (così indicati nel ricorso), precisandosi che per quanto concerne la censura circa le spese e il cd. diritto di manleva, effettivamente nessuna domanda è stata proposta dai ricorrenti nei confronti della Compagnia assicuratrice .

L’accoglimento del ricorso in questi limiti importa la cassazione dell’impugnata sentenza.

Il giudice del rinvio valuterà le domande proposte dagli attuali ricorrenti alla luce del principio secondo cui il diritto al consenso informato, in quanto diritto irretrattabile della persona va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti, a seguito di un intervento concordato e programmato e per il quale sia stato richiesto e sia stato ottenuto il consenso, che pongano in gravissimo pericolo la vita della persona, bene che riceve e si correda di una tutela primaria nella scala dei valori giuridici a fondamento dell’ordine giuridico e del vivere civile, o si tratti di trattamento sanitario obbligatorio.

Tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza per escluderlo che l’intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che a causa del totale deficit di informazione il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, per cui nei suoi confronti, comunque, si consuma una lesione di quella dignità che connota nei momenti cruciali – la sofferenza fisica e/o psichica – la sua esistenza.

8.-Nel passare all’esame del ricorso incidentale il Collegio osserva quanto segue.

Con il primo motivo il ricorrente incidentale lamenta che erroneamente il giudice dell’appello nel confermare la sentenza del Tribunale non avrebbe tenuto conto della sentenza assolutoria in sede penale, che ha escluso il nesso eziologico tra l’intervento del sanitario e le lesioni dedotte in lite con riguardo al decorso postoperatorio, posto che la N. non si sottopose a visita e rifiutò persino di sottoscrivere la liberatoria a favore dell’ospedale, dimettendosi con la ferita aperta.

In altri termini, il C. censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto sussistere senza ombra di dubbio la violazione da parte sua dei generici doveri di prudenza ed attenzione che avrebbero dovuto essere posti nel decorso postoperatorio.

La censura, che riporta analiticamente le varie cadenze temporali soprattutto in relazione alla presenza del C. e alla sua osservanza all’ordine di servizio, non coglie nel segno.

Di vero, il giudice dell’appello, che nell’argomentare ha mostrato di condividere la impostazione data dal Tribunale, ha affermato che vi era stata “una carente assistenza ospedaliera” e la responsabilità del sanitario (concorrente con quella contrattuale della ASL) in questo caso era ravvisabile non in quanto chirurgo, esecutore dell’intervento, ma come aiuto dell’Ospedale Pertini, dove la N. restò ricoverata per alcuni giorni dopo l’intervento.

Si è trattato, infatti, di una macroscopica sottovalutazione della situazione della degente, non eludibile con le generiche allegazioni addotte dal C. circa la sua fungibilità con i molti altri medici di quel reparto e con i limiti obiettivi della sua presenza ospedaliera per via degli avvicendamenti e delle turnazioni (p. 8-9 sentenza impugnata).

Il fatto che avesse in cura la N. da anni e, quindi, conoscesse meglio di qualunque altro i problemi ginecologici di salute della propria paziente, avendola operata, e, quindi, proprio per questo fosse più direttamente al corrente del trauma postoperatorio e dello stato di debilitazione fisica in cui la N. versava, dovuto anche alle complicanze connesse con il ben più complesso intervento chirurgico che egli effettuò in luogo della laparoscopia, nonchè alla perdita notevole di sangue ed alla anemia emersa dalle analisi effettuate durante e dopo l’intervento sono tutti elementi che avrebbero dovuto indurre il C., al di là dei formali condizionamenti derivanti dalle normali turnazioni (cui fa cenno il ricorrente incidentale), anche per il tramite dei colleghi di reparto, ad un più attento monitoraggio della evoluzione della fase operatoria, anche al fine di valutare la sussistenza delle condizioni per le dimissioni in piena sicurezza della paziente, che si rifiutò di sottoporsi ad un controllo medico prima di lasciare l’ospedale, ma non fu ostacolata dal dimettersi.

L’infezione latente, diagnosticabile con doverose approfondite indagini cliniche che non furono effettuate dal C. e, comunque, da lui non indicate, sono sintomatiche di una grave omissione che già il Tribunale aveva avuto modo di evidenziare, indipendentemente dall’esito del processo penale che, giova ricordarlo, terminò con una sentenza, sostanzialmente e dichiaratamente in motivazione, di assoluzione per insufficienza di prova.

Infatti, con la sentenza del 21 giugno 2005 la Corte di appello penale di Roma, all’esito della valutazione delle contrapposte posizioni, facendo rigorosa applicazione dei criteri di individuazione del nesso di causalità nei reati emissivi, con richiami a decisioni di questa Corte, ha rinvenuto la permanenza di “un insuperabile dubbio sulla sussistenza del nesso di causalità tra la condotta colposamente omessa del dott. C. e l’evento lesivo” (p. 7 sentenza penale).

Collegando, quindi, le motivazioni di cui alle decisioni rese in sede civile con quella di cui alla decisione penale emerge chiaramente che la doglianza del C. va disattesa, essendovi in quella civile di appello ed ora impugnata sul punto una applicazione corretta sia dei principi giuridici che della motivazione in punto di responsabilità per omissione (v. diversa per il caso ma corretta nella massimazione Cass. n. 867/08).

9.-Con il secondo motivo il C. evidenzia che “di sicuro per mero errore materiale, il Tribunale non dichiarava la manleva della chiamata in causa Assitalia anche nei confronti del prof. C., il quale aveva tempestivamente informato sin dal 19 giugno 1998 il proprio assicuratore”, precisando, inoltre, che in primo grado la Compagnia assicuratrice era stata condannata a rimborsare alla ASL (OMISSIS) quanto corrisposto agli attori in esecuzione della sentenza (p. 17 sentenza di primo grado), per cui la condanna doveva estendersi anche a suo favore. Proposta in appello la doglianza, il giudice dell’appello l’ha disattesa sul rilievo che non vi era in atti copia della polizza (p. 44-45 controricorso). La censura merita accoglimento.

Di vero, il giudice dell’appello riconosce che non vi è stata alcuna pronuncia al riguardo, ma contraddittoriamente ritiene che non era stata depositata la polizza assicurativa a sostegno della garanzia, dopo avere posto in rilievo che la Compagnia era stata ritualmente chiamata in causa e si era costituita e difesa, come risulta anche in questa sede, ove ha depositato controricorso e memoria e come si evince dalla sentenza di primo grado.

E’, infatti, evidente che non avendo contestato la chiamata in causa, deve dedursi che il C. fosse assicurato con la Compagnia, che nelle conclusioni avanti al Tribunale, chiese solo il rigetto della domanda e non sollevò alcuna eccezione in ordine alla esistenza della polizza. Si può, quindi, ragionevolmente dedurre che effettivamente si sia trattato di dimenticanza da parte del Tribunale, cui avrebbe dovuto porre rimedio il giudice dell’appello perchè specificamente investito della questione e su di essa nell’attuale controricorso tace l’INA-Assitalia che era tenuta ad esibire la polizza o a disconoscerne la esistenza. Pertanto, risulta errata la decisione proprio lì dove ritiene elementi non sufficienti per valutare la domanda il mancato deposito della polizza e il fatto che non risulti essere stato restituito il fascicolo di primo grado dell’intimata società Assitalia, depositato prima dell’interruzione del procedimento a causa del decesso del suo procuratore costituito.

10. – L’esame dei due riferiti ricorsi conduce, quindi, ad affermare:

1) che vanno disattesi il primo e secondo motivo del ricorso principale;

2) che va affermato che per l’intervento in laparoscopia risulta sussistente il consenso informato per cui, risultano assorbite , in quanto irrilevanti, le censure di cui tratta lo stesso ricorso in merito ad esso intervento e ciò a prescindere dal conseguente loro rigetto;

3) che il consenso informato si configura come espressione del diritto alla dignità della persona nel trattamento della sua salute ed, in quanto tale, diritto fondamentale ed irretrattabile, che non può essere gestito discrezionalmente dal sanitario se non per casi di urgenza o di trattamento sanitario obbligatorio;

4) che nel caso in esame tale consenso non è stato richiesto nè espresso dalla paziente per l’intervento in laparotomia, che non presentava carattere di urgenza; come, peraltro, riconosciuto sia dal Tribunale che dalla Corte territoriale;

5) che gli interventi di laparoscopia e di laparotomia furono eseguiti correttamente dal sanitario, seguendo le appropriate metodiche, tanto che la microlesione al colon fu evidenziata soltanto nel secondo intervento al San Camillo subito dalla paziente e la sua datazione e la sua causa sono rimaste incerte anche secondo le risultanze della CTU, in quanto non sono emersi elementi univoci circa la sua sicura derivazione dall’intervento del C., per cui tutto si è fermato nell’incertezza, condivisa anche dal perito incaricato in sede penale;

6)che la CTU, cui aderisce la sentenza impugnata, non necessitava di alcuna rinnovazione;

7) che il C. tenne una condotta gravemente omissiva circa la vigilanza sulla evoluzione della salute della paziente dopo l’intervento laparotomico;

8) che la mancanza di consenso informato sull’intervento laparotomico comporta l’assorbimento delle censure concernenti le voci di danno e le spese, in quanto su tutto ciò valuterà il giudice del rinvio;

9) che va accolto il secondo motivo di ricorso incidentale, stante la insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto da parte del giudice dell’appello.

Conclusivamente, il ricorso principale va accolto nei limiti indicati, così come va accolto il secondo motivo del ricorso incidentale e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie per quanto di ragione il ricorso principale ; accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale, che rigetta nel resto; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2011

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