Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16543 del 14/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 14/07/2010, (ud. 13/05/2010, dep. 14/07/2010), n.16543

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, viale Mazzini n. 134,

presso lo studio dell’avv. Fiorillo Luigi, che la rappresenta e

difende per procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.A., elettivamente domiciliato in Roma via Reno n. 21,

presso lo studio dell’avv. Rizzo Roberto, che lo rappresenta e

difende per procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3029/2005 della Corte d’appello di Roma,

depositata in data 1/8/2005 R.G. 4766/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13.05.2010 dal Consigliere Dott. Giovanni Mammone;

uditi gli avvocati Fiorillo e Rizzo;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

FINOCCHI GHERSI Renato che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza del Tribunale di Roma veniva rigettata la domanda di B.A. di dichiarare la nullità dell’apposizione del termine all’assunzione alle dipendenze di Poste Italiane s.p.a., disposta in suo favore per i periodi: a) (OMISSIS) e (OMISSIS) per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”, ex art. 8 del c.c.n.l. 26.11.94 come integrato dall’accordo sindacale 25.9.97; b) (OMISSIS) per “a norma dell’art. 25 del c.c.n.l. 11.1.01 per esigenze di carattere straordinario …, nonchè a fronte della necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie”.

2. Rigettata la domanda, e proposto appello dal lavoratore, la Corte d’appello di Roma con sentenza depositata in data 1.8.05 accoglieva l’impugnazione e, ritenuta la nullità del termine apposto al primo contratto, dichiarava che dal 7.2.00 era instaurato tra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, condannando Poste Italiane a riammettere in servizio il dipendente ed a corrispondergli, a titolo di risarcimento del danno, la retribuzione dal 9.1.02, data in cui il datore aveva ricevuto la richiesta di esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione.

La Corte di merito rilevava che – nell’ambito del sistema della L. n. 56 del 1987, art. 23, che aveva delegato le oo.ss. a individuare nuove ipotesi di assunzione a termine con la contrattazione collettiva – il contratto era stato stipulato in forza dell’art 8 del CCNL Poste 26.11.94, come integrato dall’accordo 25.9.97, per fare fronte ad esigenze eccezionali connesse alla fase di ristrutturazione dell’azienda. Considerato che la norma collettiva consentiva l’assunzione a termine per detta causale solo fino al 30.4.98, riteneva che nella specie il termine fosse illegittimamente apposto.

3. Avverso questa sentenza Poste Italiane proponeva ricorso per Cassazione, cui B. rispondeva con controricorso illustrato con memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. Il ricorso è infondato.

La soc. Poste deduce (primo motivo) violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale (artt. 1362 e segg. c.c.) in relazione all’interpretazione accolta dal giudice di merito dell’art. 8 del c.c.n.l. 26.11.94 e dell’accordo integrativo 25.9.97, nonchè (secondo motivo) violazione della L. n. 230 del 1962 e della L. n. 56 del 1987, art. 23, sostenendo che la sentenza si fonderebbe sull’erronea convinzione che detto art. 23, non consentirebbe all’autonomia collettiva di costruire fattispecie legittimanti le assunzioni a termine collegate a situazioni tipicamente aziendali, non direttamente collegate ad occasioni precarie di lavoro e, comunque, svincolate dalle fattispecie fissate dalla L. n. 230.

Deduce, inoltre, violazione degli artt. 1217 e 1233 c.c. sostenendo che al dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo non spetterebbe la retribuzione finchè non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando nel datore una situazione di mora accipiendi. Pertanto, il giudice avrebbe dovuto far decorrere il risarcimento solo dal momento in cui tale offerta fosse intervenuta e non dal momento della proposizione del tentativo di conciliazione; erroneamente, inoltre, egli avrebbe omesso di considerare l’eventualità che controparte possa avere svolto altre attività lavorative tanto da consentire la deduzione dell’aliunde perceptum da quanto dovuto dal datore a titolo di risarcimento (terzo motivo).

5. I due primi motivi di impugnazione, da trattare congiuntamente per evidente connessione, sono infondati.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ritiene che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1, nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis conv. dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (v. S.u. 2.3.06 n. 4588).

Dato che in forza di tale delega le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui all’accordo integrativo del 25.9.97, la giurisprudenza ritiene corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16.1.98, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31.1.98 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30.4.98), della situazione di fatto integrante le esigente eccezionali menzionate dal detto accordo integrativo.

Consegue che per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo e che l’esistenza di dette esigenze costituisse presupposto essenziale della pattuizione negoziale; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. In altre parole, dato che le parti collettive avevano raggiunto originariamente un’intesa priva di termine ed avevano successivamente stipulato accordi attuativi che avevano posto un limite temporale alla possibilità di procedere con assunzioni a termine, fissato inizialmente al 31.1.98 e successivamente al 30.4.98, l’indicazione di tale causale nel contratto a termine legittima l’assunzione solo ove il contratto scada in data non successiva al 30.4.98 (v., ex plurimis, Cass. 23.8.06 n. 18378).

La giurisprudenza ha, altresì, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo 18.1.01 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato. Ammesso che le parti avessero espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25.9.97 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regala iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12.3.04 n. 5141).

Conseguentemente i contratti scadenti (o comunque stipulati) al di fuori del limite temporale del 30.4.98 sono illegittimi in quanto non rientranti nel complesso legislativo-collettivo costituito dalla L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 e dalla successiva legislazione collettiva che consente la deroga alla L. n. 230 del 1962.

Essendo nella specie il contratto de quo stipulato successivamente al 30.4.98 ed essendo, quindi, la causale apposta ancorata a fattispecie non più legittimata dalla normazione collettiva, i due motivi debbono essere ritenuti infondati.

6. Procedendo all’esame terzo motivo, quanto ai profili economici conseguenti all’illegittimità del termine deve rilevarsi che la Corte d’appello ha affermato che il lavoratore ha diritto alla retribuzione solo per i periodi per i quali ha provato di essersi tenuto a disposizione della società ed ha condannato quest’ultima a corrispondere la retribuzione alle dipendenti dalla data della notifica della richiesta di espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c..

Tale pronunzia è conforme alla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.u. 8.10.02 n. 14381 nonchè, da ultimo, Cass. 13.4.07 n. 8903) che, con riferimento all’ipotesi della trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione dei termini, o comunque dell’elusione delle disposizioni imperative della L. n. 230 del 1962 ha affermato che il dipendente che cessa l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla – in linea generale in misura corrispondente a quella della retribuzione – qualora provveda a costituire in mora lo stesso datore di lavoro ai sensi dell’art. 1217 c.c..

Quanto alla circostanza che la richiesta di esperimento del tentativo di conciliazione non fosse formulata in termine sufficientemente espliciti da poter essere interpretata dal datore quale offerta della prestazione, non risulta che la questione sia stata sollevata nel giudizio di merito. In ogni caso la fissazione della data in questione è frutto di un accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito, in questa sede non contestabile.

Quanto alla rilevanza dei redditi percepiti dai dipendenti nello svolgimento di altre attività lavorative successivamente alla cessazione del rapporto, sarebbe stato onere del datore di lavoro allegare dati di fatto e circostanze a fondamento dell’eccezione in punto di percezione di tali redditi.

7. In conclusione il ricorso è infondato e la pronunzia impugnata deve essere confermata.

Le spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in Euro per esborsi ed in Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.

Così deciso in Roma, il 13 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2010

 

 

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