Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16529 del 31/07/2020

Cassazione civile sez. II, 31/07/2020, (ud. 16/10/2019, dep. 31/07/2020), n.16529

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. COSENTINO Cristiana – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3792-2016 proposto da:

I.R., elettivamente domiciliato in Roma, via Augusto

Bevignani 12, presso lo studio dell’avvocato STEFANO PALMA, e

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO LAROCCA, per procura

speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

DEUTSCHE BANK S.P.A., rappresentata e difesa dall’Avvocato GIANCARLO

CATAVELLO, presso il cui studio in Roma, via Emanuele Gianturco 6,

elettivamente domicilia, per procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2558/2016 della CORTE D’APPELLO DI MILANO,

depositata il 16/6/2015;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

16/10/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto

Procuratore Generale della Repubblica Dott. IGNAZIO PATRONE, il

quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

sentito, per il ricorrente, l’Avvocato STEFANO PALMA;

sentito, per la controricorrente, l’Avvocato LUANA NANNI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Milano, con decreto del 9/7/2007, ha ingiunto a I.R. il pagamento, in favore della s.p.a. Deutsche Bank, della somma di Euro 12.000,00, oltre interessi e spese.

La banca ricorrente, infatti, in data 23/6/2006, aveva stipulato con C.I. un contratto di finanziamento per Euro 12.000,00 destinato all’acquisto di un’autovettura presso il fornitore I.R..

C.I., tuttavia, il 25/8/2006, aveva presentato una denuncia-querela dichiarando di non aver mai sottoscritto quel contratto.

L’art. 7 dell’accordo di convenzionamento prevede che, nel caso in cui fosse emerso che la documentazione trasmessa dal fornitore alla banca era irregolare, incompleta o falsa, il fornitore stesso era obbligato a restituire a quest’ultima la somma erogata, oltre accessori o spese.

I.R., con atto di citazione notificato in data 25/10/2007, ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo.

Deutsche Bank ha resistito all’opposizione chiedendone il rigetto.

Il tribunale, con sentenza del 25/2/2009, ha rigettato l’opposizione confermando il decreto ingiuntivo opposto.

I.R., con citazione notificata il 12/4/2010, ha proposto appello articolando tre motivi: a) con il primo, ha dedotto l’illegittimità del rigetto della richiesta di concessione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, lamentando che il giudice non ha alcun potere discrezionale al riguardo e che il rigetto della richiesta determina una ingiusta compressione del suo diritto di difesa; b) con il secondo, ha dedotto l’illegittimità della mancata ammissione dei mezzi di prova articolati in giudizio; c) con il terzo, ha dedotto che il rigetto della richiesta di chiamata in causa di C.I. è ingiusto e immotivato.

La Deutsche Bank ha resistito all’appello e ne ha chiesto il rigetto.

La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello.

I.R., con ricorso notificato il 16/1/2016, ha chiesto, per quattro motivi, la cassazione della sentenza resa dalla corte d’appello, dichiaratamente non notificata.

Ha resistito, con controricorso notificato in data 19/2/2016, la s.p.a. Deutsche Bank.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c. nonchè l’omessa, insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che non era necessaria l’assegnazione dei termini previsti dall’art. 183 c.p.c., essendo la causa già sufficientemente istruita mediante i documenti prodotti e le ammissioni delle parti in ordine alle modalità del rapporto negoziale poste in essere tra le parti.

1.2. La corte d’appello, infatti, ha osservato il ricorrente, così facendo, non ha tenuto conto che, ove una delle parti richieda la concessione dei termini previsti dall’art. 183 c.p.c., comma 6, il giudice è tenuto, senza alcun potere discrezionale, a concederli sulla base della semplice richiesta.

1.3. Del resto, la motivazione addotta è del tutto illogica e contraddittoria, poichè la funzione dei termini previsti dall’art. 183 c.p.c. non è limitata alla sola produzione e alla richieste istruttorie ma anche alla precisazione o alla modificazione delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni, alle repliche e alla proposizione di eventuali nuove eccezioni, oltre che per la richiesta di prova contraria. La corte d’appello, infatti, ha illogicamente ritenuto sufficienti le richieste istruttorie e le ammissioni delle parti negli atti introduttivi, laddove, al contrario, la norma consente di formulare nuove richieste istruttorie e di precisare e modificare quelle “ammissioni”.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. Il ricorrente, invero, non si confronta con la complessiva statuizione assunta dalla corte d’appello: la quale, in effetti, dopo aver ritenuto, in linea di principio, che il giudice può rimettere la causa in decisione, quando non ritenga necessaria l’assunzione di mezzi di prova (art. 187 c.p.c., comma 1), non soltanto alla prima udienza di trattazione (art. 183 c.p.c.) ma anche, come risulta dall’art. 80 bis disp. att. c.p.c., all’udienza di prima comparizione di cui all’art. 180 c.p.c., non configurandosi in tal caso una lesione del diritto di difesa, ha, poi, aggiunto che, ove sia dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa nel merito prima ancora che le parti avessero definito il thema decidendum e il thema probandum, l’appellante che faccia valere tale nullità, salvo che nel caso in cui la stessa comporti la rimessione della causa al primo giudice, non può limitarsi a dedurre tale violazione ma deve specificare quale sarebbe stato il thema decidendum sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare e quali prove sarebbero state dedotte poichè solo in questo caso il giudice d’appello è tenuto a rimettere le parti in termini per l’esercizio delle attività istruttorie non potute svolgere il primo grado.

2.3. Tale statuizione – peraltro del tutto corretta (Cass. n. 21953 del 2019; Cass. n. 24402 del 2018; Cass. n. 23162 del 2014) – non risulta in alcun modo censurata. Ed è, invece, noto che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi (Cass. n. 4293 del 2016).

3.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 269 c.p.c. e l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che la chiamata in causa di un terzo ai sensi dell’art. 107 c.p.c. è sempre rimessa alla discrezionalità del giudice di primo grado, involgendo valutazioni circa l’opportunità di estendere il processo ad altro soggetto, per cui l’esercizio del relativo potere, che, se esercitato, determinerebbe una situazione di litisconsorzio processuale necessario, è insindacabile da parte del giudice d’appello.

3.2. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, la corte non ha considerato che l’ I., nell’atto d’opposizione al decreto ingiuntivo, aveva chiesto di essere autorizzato a chiamare in causa il C., al fine di accertare la sua personale responsabilità nella vicenda, a norma non già dell’art. 107 c.p.c. ma dell’art. 269 c.p.c., vale a dire in un’ipotesi nella quale il giudice non ha alcuna discrezionalità, dovendo, piuttosto, provvedere, una volta che il convenuto abbia formulato la sua richiesta, alla fissazione di una nuova udienza al fine di consentire la chiamata in causa.

3.3. D’altra parte, ha aggiunto il ricorrente, non è corretta l’affermazione della corte secondo la quale la contraria decisione assunta sul punto dal giudice di primo grado non sarebbe sindacabile in sede d’impugnazione.

4.1. Il motivo è infondato.

4.2. La corte d’appello, in effetti, ha ritenuto che, in caso di chiamata in causa di un terzo, se il giudice non concede l’autorizzazione, come prevede l’art. 269 c.p.c., comma 3, il contraddittorio resta circoscritto alle parti originarie del processo e non può essere esteso o integrato se non in caso di litisconsorzio necessario, e che, in siffatta ipotesi, quando non si tratta di litisconsorzio necessario, il giudice d’appello non ha il potere di riformare la decisione del primo giudice.

4.3. Ora, nel procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo, non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore mantiene la veste di attore e l’opponente quella di convenuto con riguardo sia alla ripartizione dell’onere della prova che ai poteri ed alle preclusioni processuali rispettivamente previsti per ciascuna delle parti, e che, pertanto, ove l’opponente intenda chiamare un terzo non può provvedere direttamente alla sua citazione, ma, ai sensi dell’art. 269 c.p.c., deve chiedere al giudice, con l’atto di opposizione, di essere autorizzato alla chiamata del terzo al quale ritenga comune la causa sulla base dell’esposizione dei fatti e delle considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto (Cass. n. 21101 del 2015): resta, tuttavia, fermo il principio per cui, in tema di chiamata in causa di un terzo su istanza di parte, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo è discrezionale, con la conseguenza che, sebbene sia stata tempestivamente chiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo ai sensi dell’art. 269 c.p.c., in manleva o in regresso, il giudice può legittimamente rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo (Cass. n. 9570 del 2015; conf., Cass. SU n. 4309 del 2010).

4.1. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti e l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che lo stesso, in qualità d’appellante, non aveva adeguatamente spiegato la decisività delle richieste istruttorie formulate.

4.2. In realtà, ha osservato il ricorrente, l’appellante, riportandosi alle richieste formulate nell’atto di opposizione e, quindi, alle singole circostanze di prova capitolate, ha assolto a tale onere, posto che, come si evince dalla loro riproduzione in ricorso, le circostanze di prova erano perfettamente intellegibili e che, pertanto, sussistevano tutte le ragioni per l’ammissione delle richieste istruttorie.

5.1. Il motivo è infondato.

5.2. Il ricorrente, invero, anche in questo caso non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata la quale, infatti, ha ritenuto che il motivo d’appello svolto sul punto era stato formulato dall’appellante in termini generici, vale a dire senza aver allegato e indicato “per quali specifiche ragioni si potrebbe ravvisare il presupposto di ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova formulati in termini che potessero essere valutati di maggiore rilevanza e specificità rispetto a quanto già dedotto nei documenti prodotti in primo grado”: l’appellante, infatti, ha osservato la corte, ha testualmente dedotto che sussistono “tutte le condizioni perchè le richieste istruttorie vengano ammesse”, richiamando genericamente l’interrogatorio formale e la prova testimoniale richieste in primo grado, ma senza indicare per quali ragioni tali mezzi, solo indirettamente richiamati nell’appello, avrebbero potuto giustificare, se ammessi ed espletati, la riforma della sentenza.

5.3. Rileva la Corte che, in effetti, se si ha riguardo all’atto d’appello così come riportato in ricorso (p. 3), si evince chiaramente che l’appellante, lamentando l’ingiusto rigetto delle richieste di prova formulate nell’atto introduttivo, aveva censurato la sentenza del primo giudice limitandosi ad affermare che “il Tribunale non ha inteso ammettere i mezzi di prova richiesti, pur essendo assolutamente necessario provare una serie di fatti che si assumono fondatamente a sostegno dell’opposizione” e che sussistono “tutte le condizioni perchè le richieste istruttorie vengano ammesse”, insistendo, quindi, per la loro ammissione.

5.4. Ed è, invece, noto come, in relazione all’art. 342 c.p.c., comma 1, nel testo in vigore ratione temporis, e cioè anteriore alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con la L. n. 134 del 2012, affinchè un capo di sentenza possa ritenersi validamene impugnato, non è sufficiente che nell’atto d’appello sia manifestata una volontà in tal senso, ma è necessario che sia contenuta una parte argomentativa la quale, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi passato in giudicato il capo della sentenza di primo grado in merito al quale l’atto d’appello si limiti a manifestare generiche perplessità, senza svolgere, com’è accaduto nel caso in esame, alcuna argomentazione idonea a confutarne il fondamento (Cass. SU n. 23299 del 2011; Cass. n. 18704 del 2015; Cass. n. 12280 del 2016).

6.1. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti nonchè l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nonchè la nullità della clausola di cui all’art. 7 dell’accordo di convenzionamento, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che lo stesso, in qualità di appellante, non aveva impugnato con specificità l’argomento che della decisione del tribunale costituiva la ratio decidendi, ossia la circostanza che la domanda dell’opposta era fondata sulla clausola 7 dell’accordo di convenzionamento concluso tra le parti.

6.2. In realtà, ha osservato il ricorrente, l’atto d’appello aveva evidenziato che la clausola dell’art. 7 dell’accordo di convenzionamento – formulata peraltro in modo generico e indeterminato (“fatto salvo il diritto di credito vantato dalla Banca nei confronti del Cliente, ove il contratto si sia perfezionato previamente all’inoltro alla Banca, da parte del Rivenditore/Prestatore degli originali della richiesta e della relativa documentazione ed emerga poi che quest’ultima e i dati si rilevino irregolari e/o incompleti, e/o falsati. Il Rivenditore/Prestatore sarà ritenuto responsabile per i danni arrecati alla Banca cui dovrà quindi restituire, immediatamente e a semplice richiesta della stessa la somma ricevuta”) doveva ritenersi nulla ed inefficace e, comunque, inapplicabile al caso di specie. Tale clausola, infatti, ha evidenziato il ricorrente, è nulla poichè prevede che la banca resti titolare del diritto di credito nei confronti del cliente, e cioè C.I., e nello stesso tempo possa immediatamente pretendere la restituzione del finanziamento da parte del rivenditore/prestatore, e cioè il ricorrente stesso, il quale, pertanto, nel caso in cui dovesse restituire la somma alla banca, non potrebbe neppure agire nei confronti del C. per il recupero della somma. Tale clausola, inoltre, presuppone una responsabilità diretta del rivenditore/prestatore per la irregolarità, l’incompletezza e la falsità degli atti che, invece, nel caso in esame, non può essere addebitato al ricorrente.

6.3. L’atto d’appello, quindi, ha concluso il ricorrente, aveva ampiamente dedotto in ordine alla motivazione concernente il merito della controversia ed aveva sufficientemente contestato le ragioni del rigetto dell’opposizione.

7.1. Il motivo è inammissibile.

7.2. L’esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito – riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato (come, in concreto, è accaduto nella specie) un error in procedendo (Cass. SU n. 8077 del 2012; Cass. n. 134 del 2020) – presuppone, in effetti, l’ammissibilità del motivo di censura, per cui il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare, nel ricorso per cassazione, il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, con la conseguenza che, ove il ricorrente censuri la statuizione d’inammissibilità – per difetto di specificità – di un motivo d’appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (cfr. Cass. n. 22880 del 2017; Cass. n. 20405 del 2006).

7.3. Nel caso in esame, il ricorrente, pur avendo riprodotto, in ricorso, il motivo d’appello che la corte distrettuale ha dichiarato inammissibile per difetto di specificità, non ha, tuttavia, riportato, con la dovuta compiutezza, la parte della motivazione della sentenza del tribunale che, a mezzo di quel motivo, aveva inteso impugnare, rendendo, in tal modo, impossibile a questa Corte la verifica, sulla base del solo ricorso e senza ulteriori indagini (a partire dall’accesso diretto agli atti del giudizio di merito), dell’effettiva specificità, o meno, delle censure ad essa rivolte.

7.4. Del resto, come già ricordato, con riguardo all’art. 342 c.p.c., comma 1, nel testo applicabile ratione temporis, un capo di sentenza può ritenersi validamene impugnato solo se l’atto di appello contenga una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico (Cass. SU n. 23299 del 2011; Cass. n. 12280 del 2016), per cui non è ammissibile, per difetto di specificità dei motivi, l’atto d’appello che, limitandosi a riprodurre le argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado, senza il minimo riferimento alle statuizioni di cui è chiesta la riforma, non contenga alcuna parte argomentativa che, mediante censura espressa e motivata, miri a contestare il percorso logico-giuridico della sentenza impugnata (Cass. n. 1461 del 2017).

7.5. Il ricorrente, pertanto, avrebbe dovuto far emergere, in questa sede di legittimità, come il requisito di specificità del motivo d’appello fosse stato soddisfatto, riportando le argomentazioni all’uopo svolte e correlandole con le motivazioni della sentenza gravata, offrendo in tal modo la dimostrazione di aver adeguatamente contestato il fondamento logico-giuridico della decisione, sfavorevole alle tesi dalla stessa sostenute: ciò che, al contrario, non è accaduto, tanto meno in relazione alla invocata nullità della clausola contrattuale contenuta nell’art. 7 dell’accordo di convenzionamento.

7.6. Il ricorrente, in effetti, a fronte di una sentenza, come quella impugnata, che non ha in alcun modo trattato tale questione, aveva l’onere, rimasto però inadempiuto, di rappresentare adeguatamente in che modo aveva dedotto, nel corso del giudizio di primo grado, il tema che ha sollevato nel motivo in esame, quale era stata la decisione che sullo stesso aveva assunto il tribunale e quale era stata infine la censura che avverso tale decisione era stata sollevata nell’atto d’appello.

7.7. Il motivo, in definitiva, oltre che generico, risulta ulteriormente viziato dalla novità della questione posta. E’ noto, infatti, che, nel giudizio di legittimità, non possono prospettarsi questioni nuove, quand’anche si tratti di questioni rilevabili d’ufficio, tutte le volte in cui esse presuppongono nuovi ed ulteriori accertamenti di fatto. La nullità del contratto posto a fondamento dell’azione di adempimento, pur essendo senz’altro rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità (Cass. SU n. 24262 del 2014), non può essere, pertanto, accertata sulla base di una mera eccezione sollevata per la prima volta con il ricorso per cassazione, quando, come nella specie, sia stata fondata su fatti che non risultino (dal ricorso stesso) essere stati compiutamente e ritualmente dedotti nel giudizio di merito (cfr. Cass. n. 21243 del 2019).

8. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

9. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 16 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2020

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