Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16511 del 05/08/2016


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile sez. VI, 05/08/2016, (ud. 09/06/2016, dep. 05/08/2016), n.16511

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22048-2014 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA, (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134,

presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la rappresenta e

difende giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.G., R.R., S.M.C.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 9714/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA del

26/11/2012, depositata il 17/09/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/06/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONELLA PAGETTA.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 9 giugno 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.: ” La Corte di appello di Roma, in riforma delle sentenze di primo grado, ha dichiarato la nullità del termine apposto ai contratti in controversia e, per l’effetto, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra la società appellata e i lavoratori appellanti con le seguenti decorrenze: dal 2.5.2002 per I.S., dal 2.5.2002 per M.G., dal 1.5.2002 per V.R.N., dal 1.2.2002 per S.M.C., dal 15.5.2002, per R.R., dal 18.7.2002 per C.L., dal 1.2.2002 per F.G.. Ha condannato Poste Italiane s.p.a. al risarcimento, in favore dei lavoratori, del danno quantificato per ciascuno in quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori a decorrere dalla data di messa in mora della società.

Poste Italiane s.p.a. ha chiesto la cassazione della decisione nei confronti di M.G., R.R. e S.M.C. sulla base di tre motivi. Le intimate non hanno svolto attività difensiva. Con il primo motivo di ricorso Poste Italiane s.p.a., deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 4, comma 2, art. 2697 c.c., artt. 115, 116, 244, 253 c.p.c. e art. 421 c.p.c., comma 2, ha censurato la decisione per avere posto a carico della parte datoriale la dimostrazione della effettiva sussistenza delle ragioni legittimanti l’assunzione a termine atteso che un siffatto onere risultava configurabile, ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 4, comma 2 solo in caso di eventuale proroga del contratto. Ha quindi sostenuto di avere, seppure non onerata, offerto prova della sussistenza delle esigenze organizzative – (anche) connesse al processo di mobilità – alla base dei contratti in controversia, mediante gli accordi richiamati nella lettera di assunzione con i quali le parti collettive avevano dato atto della sussistenza di una ragione organizzativa oggettiva e del nesso fra questa e il ricorso ai contratti a termine. Ha contestato che in base alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 368 del 2001 si richiedesse alla parte datoriale anche la dimostrazione dello specifico nesso causale tra la specifica assunzione e le correlative esigenze aziendali.

Con il secondo motivo di ricorso, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 253, 420 e 421 c.p.c. ha censurato la decisione per non avere ritenuto di integrare, mediante il ricorso ai poteri d’ufficio, il quadro probatorio tempestivamente delineato. Ha richiamato le circostanze oggetto di prova orale ed in particolare il capitolo 11 inteso a dimostrare l’incidenza degli allegati processi di riorganizzazione sull’articolazione produttiva di applicazione delle lavoratrici e sostenuto che nell’esercizio dell’ampio potere istruttorio d’ufficio il giudice ben avrebbe potuto invitare la parte resistente a riformulare il capitolo di prova in termini di maggiore specificità o provvedere direttamente alla relativa integrazione in sede di escussione mediante domande ritenute utili al chiarimento dei fatti.

Con il terzo motivo di ricorso deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 e dell’art. 429 c.p.c., ha censurato la decisione sotto il profilo della omessa considerazione di circostanze idonee ad incidere sulla misura della indennità risarcitoria di cui all’art. 32, comma 5 cit. e sotto il profilo della errata decorrenza degli accessori sulla somma liquidata a tale titolo, decorrenza anticipata rispetto a quella della sentenza che aveva dichiarato la conversione dei rapporti in rapporti a tempo indeterminato.

Il primo ed il secondo motivo, esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono manifestamente infondati. In primo luogo secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte l’onere di provare le ragioni obiettive poste a giustificazione della clausola appositiva del termine grava sul datore di lavoro e deve essere assolto sulla base delle istanze istruttorie dallo stesso formulate (vedi per tutte: Cass. n. 2279 del 2010 e n. 22716 del 2012) Ciò detto va ricordato che il D.Lgs. n. 368 del 2001, nel testo originario vigente all’epoca de i contratti in oggetto, all’art. 1, comma 1, prevede che “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico,produttivo, organizzativo o sostitutivo” e, al comma 2, che – “l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1”. Il successivo D.Lgs. n. 368, art. 11, comma 1, ha poi disposto l’abrogazione, dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, della L. n. 230 del 1962, della L. n. 79 del 1983, art. 8 della L. n. 56 del 1987, art. 23 e di tutte le disposizioni di legge incompatibili.

Il quadro normativo che emerge e, dunque, caratterizzato dall’abbandono del sistema rigido previsto dalla L. n. 230 del 1962 che prevedeva la tipizzazione delle fattispecie legittimanti, sistema peraltro già oggetto di ripensamento come si evince dalle disposizioni di cui alla L. n. 79 del 1983 e alla L. n. 56 del 1987, art. 23 – e dall’introduzione di un sistema articolato per clausole generali, in cui l’apposizione del termine è consentita a fronte di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”.Tale sistema, al fine di non cadere nella genericità, impone al suo interno un fondamentale criterio di razionalizzazione, costituito l’obbligo per il datore di lavoro di adottare l’atto scritto e di specificare, in esso, le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo adottate. L’onere di specificazione della causale nell’atto scritto costituisce una delimitazione della facoltà, riconosciuta al datare di lavoro, di far ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato per soddisfare esigenze aziendali (di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o aziendale), a prescindere da fattispecie predeterminate, con l’evidente scopo di evitare l’uso indiscriminato dell’istituto, imponendo riconoscibilità e verificabilità della motivazione addotta fin dal momento della stipula del contratto.

Proprio il venir meno del sistema delle fattispecie legittimanti impone che il concetto di specificità sia collegato a situazioni aziendali non più standardizzate ma obiettive, con riferimento a realtà specifiche in cui il contratto viene ad essere calato. Il concetto di specificità in questione risente, dunque, di un certo grado di elasticità che, in sede di controllo giudiziale, deve essere valutato dal giudice secondo criteri di congruità e ragionevolezza.

La consolidata giurisprudenza dì questa Corte (vedi, per tutte Cass. n. 2279 del 2010; n. 10033 del 2010, n. 16303 del 2010, n. 8286 del 2012), privilegiando la scelta del legislatore europeo di ampliare la considerazione delle fattispecie legittimanti l’apposizione del termine, ha concesso tuttavia un’importante apertura, ritenendo possibile che la specificazione delle ragioni giustificatrici risulti dall’atto scritto non solo per indicazione diretta, ma anche per relationerm ove le parti abbiano richiamato nel contratto di lavoro testi scritti che prendono in esame l’organizzazione aziendale e ne analizzano le complesse tematiche operative. E’ quanto nella sostanza la ricorrente sostiene essere avvenuto nel caso di specie, in cui l’atto scritto di assunzione, dopo alcuni generici riferimenti ai processi di riorganizzazione aziendale, puntualizza le “esigenze tecniche, organizzative e produttive” attraverso il richiamo alla attuazione delle previsioni di cui agli accordi indicati in contratto.

Da tali accordi, costituenti un momento di esame comune delle parti sindacali delle esigenze organizzative, secondo Poste Italiane si desumerebbe la causale sufficientemente specifica di apposizione del termine.

Orbene, la Corte di appello, pur ritenendo che la clausola appositiva del termine fosse sufficientemente specifica, ha poi rilevato che la società non ha assolto l’onere probatorio a suo carico in quanto si è limitata a dimostrare l’esistenza in generale di un processo di mobilità interna, ma non ha fornito la prova dell’incidenza di tale situazione anche sull’ufficio in cui le lavoratrici odierne intimate avevano lavorato. Nella specie la ricorrente contesta una valutazione “di genericità” della prova testimoniale richiesta valutazione che nella sentenza risulta giustificata da congrua e logica motivazione, avendo il giudice di appello evidenziato che mancava qualsiasi riferimento all’ufficio interessato dall’assunzione a termine e all’esistenza al suo interno di posizioni scoperte correlate al processo riorganizzativo sicchè la contestazione finisce con il risolversi nella inammissibile prospettazione di un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti.

Infine, quanto alla censura relativa alla mancata attivazione dei poteri di ufficio in materia di prova da parte dei giudici, si rileva che la società non specifica se in proposito abbia tempestivamente invocato tale esercizio, con la necessaria indicazione dell’oggetto possibile degli stessi. Peraltro il motivo finisce con l’esprimere un mero, quanto inammissibile, dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dalla Corte d’appello, anzichè evidenziare la scorrettezza giuridica e la incoerenza logica delle argomentazioni svolte nella impugnata sentenza.

Il terzo motivo di ricorso è inammissibile nella prima parte.

Invero, in applicazione dei principi generali in materia di sindacato di legittimità, con particolare riferimento all’art. 360 c.p.c., deve affermarsi, coerentemente con quanto più volte statuito da questa Corte in tema di indennità di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 8, (cfr. 2001 n. 107 del 2001; n. 11107 del 2006, n. 13732 del 2006, da ultimo, con riferimento alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 per tutte, vedi Cass. n. 8747 del 2014) che la determinazione tra il minimo e il massimo della misura dell’indennità de qua spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria.

Nel caso in esame la Corte territoriale ha comunque ancorato la sua valutazione al parametro del comportamento delle parti posto che ha valorizzato sia la breve durata dei contratti sia la consistente durata dell’inadempimento datoriale, circostanze complessivamente ritenute giustificative della determinazione della indennità in oggetto in misura di poco superiore al minimo rappresentato dal’importo corrispondente a 2,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

E’ manifestamente fondato nella parte in cui si assume la onnicomprensività della indennità in questione. Ed infatti l’indennità in esame deve essere annoverata fra i crediti di lavoro ex art. 429 c.p.c., comma 3, giacchè, come più volte affermato da questa Corte, tale ampia accezione si riferisce a tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva (cfr., ad esempio, per i crediti liquidati ex art. 18 legge n. 300 del 1970, Cass. n. 1000 del 2003; Cass. n. 19159 del 2006; per l’indennità L. n. 604 del 1966, ex art. 8 Cass. n. 1579 del 1985; per le somme liquidate a titolo di risarcimento del danno ex art. 2087 c.c., Cass. n. 5024 del 2002). D’altra parte l’indennità in esame rappresenta comunque il ristoro (sia pure forfetizzato e onnicomprensivo) dei danni conseguenti alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, relativamente al periodo che va dalla scadenza del termine alla data della sentenza di conversione del rapporto. Va peraltro precisato che dalla natura di liquidazione forfettaria e onnicomprensiva del danno relativo al detto periodo consegue che gli accessori ex art. 429 c.p.c., comma 3, sono dovuti soltanto a decorrere dalla data della sentenza che, appunto, delimita temporalmente la liquidazione stessa.

La sentenza impugnata è quindi errata laddove nel condannare Poste Italiane s.p.a. al pagamento della indennità commisurata a quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, ha fatto decorrere gli accessori su detta somma dalla data di ciascun atto di messa in mora da parte delle lavoratrici anzichè dalla data della sentenza che ha dichiarato la conversione del rapporto (Cass. n. 7555 del 2014; Cass. n. 7458 del 2014; Cass. n. 5287 del 2014).

In base alle considerazioni che precedono i motivi di ricorso devono essere respinti ad eccezione del terzo motivo per il profilo attinente alla decorrenza di interessi legali e rivalutazione monetaria sulla indennità risarcitoria L. n. 183 del 2010, ex art. 32.

Si chiede che il presidente voglia fissare la data dell’adunanza camerale”.

Ritiene questo Collegio, che le considerazioni svolte dal Relatore, sono del tutto condivisibili siccome coerenti alla ormai consolidata giurisprudenza in materia e che sussiste il presupposto dell’art. 375 c.p.c., comma 1a, per la definizione camerale.

A tanto consegue il rigetto dei primi due motivi di ricorso e di parte del terzo motivo e l’accoglimento del terzo motivo in punto di decorrenza degli accessori. In relazione a tale profilo la sentenza viene cassata; non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la causa può essere decisa stabilendo che interessi legali e rivalutazione monetaria sulla indennità risarcitoria liquidata sono dovuti a decorrere dalla data della sentenza che ha dichiarato la conversione del rapporto. Si ritiene di confermare la statuizione di compensazione delle spese dei giudizi di merito. Le spese del presente giudizio, sono anch’esse compensate attesa la misura della soccombenza di Poste e considerato che la parte intimata non ha svolto attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il primo, il secondo e parte del terzo motivo che accoglie limitatamente alla censura relativa alla decorrenza degli accessori; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e, decidendo nel merito, condanna Poste Italiane s.p.a. a corrispondere gli interessi legali e la rivalutazione monetaria sulla indennità L. n. 183 del 2010, ex art. 32 dalla data della sentenza che ha dichiarato la conversione del rapporto. Compensa le spese dell’intero processo.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2016

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA