Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16501 del 02/07/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 16501 Anno 2013
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA
sul ricorso 1944-2008 proposto da:
ZINCATURA PERSICETANA S.R.L., in persona del legale
rappresentante pro tempore, MENGOLI ANTONIO,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ASIAGO 8,
presso lo studio degli avvocati AURELI MICHELE, AURELI
STANISLAO, COSATTINI LUIGI ANDREA, che

2013

li

rappresentano e difendono giusta delega in atti;
– ricorrenti –

803
contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE
80078750587, in persona del legale rappresentante pro

Data pubblicazione: 02/07/2013

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA
FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto,
rappresentato e difeso dagli avvocati CORETTI
ANTONIETTA, CALIULO LUIGI, CORRERA FABRIZIO, giusta
delega in calce alla copia notificata del ricorso;

avverso la sentenza n. 360/2007 della CORTE D’APPELLO
di BOLOGNA, depositata il 03/08/2007 r.g.n. 552/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 05/03/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO
MANNA;
udito l’Avvocato COSATTINI LUIGI ANDREA;
udito l’Avvocato CARLA D’ALOISIO per delega CORETTI
ANTONIETTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MAURIZIO VELARDI, che ha concluso per
l’accoglimento dei primi tre motivi, assorbimento del
quarto e quinto.

– resistente con mandato

i

R.G. n. 1944/08
Ud. 5.3.2013
Zincatura Persicetana S.r.l. + 1 c. INPS

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 3.8.07 la Corte d’appello di Bologna, in riforma della
pronuncia emessa in prime cure dal Tribunale felsineo, rigettava la domanda

proposta da Zincatura Persicetana S.r.l. e da Antonio Mengoli intesa ad ottenere nei
confronti dell’INPS l’accertamento dell’esistenza fra loro d’un rapporto di lavoro
subordinato.
In proposito la Corte territoriale, all’esito dell’istruttoria di causa, riteneva che gli
elementi acquisiti, lungi dal provare l’esistenza d’un rapporto di lavoro subordinato
fra il Mengoli e la S.r.l. Zincatura Persicetana (prova gravante su costoro),
avvalorassero, invece, l’inesistenza di detto rapporto lavorativo, atteso che la
società era amministrata da Gabriella Pizzirani, moglie convivente del Mengoli che,
a differenza del marito, non aveva alcuna precedente esperienza imprenditoriale,
che i due coniugi erano proprietari — ciascuno per il 50% – della predetta società e
che non era emerso dalle acquisite deposizioni testimoniali che la Pizzirani avesse
mai impartito direttive di lavoro al proprio consorte.
Per la cassazione di tale sentenza ricorrono la S.r.l. Zincatura Persicetana e il
Mengoli affidandosi a cinque motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex
art. 378 c.p.c.
L’INPS ha depositato procura in calce alla copia notificata del ricorso e ha poi
partecipato alla discussione.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1- Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 43, 46
e 47 legge n. 88/1989: nel caso di specie, premesso che il comitato regionale per
l’Emilia Romagna aveva accolto il ricorso contro il verbale ispettivo che aveva
negato l’esistenza d’un rapporto di lavoro subordinato fra il Mengoli e la S.r.l.
Zincatura Persicetana, erroneamente — sostengono i ricorrenti – la Corte territoriale
ha ritenuto che il direttore della sede INPS potesse sospendere anche decisioni
assunte dai comitati regionali dell’istituto medesimo e, comunque, potesse non
darvi esecuzione, nonostante che tale provvedimento del direttore non fosse stato
assunto entro cinque giorni dalla suddetta decisione del comitato regionale e
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sottoposto al vaglio del comitato amministratore e sebbene la decisione del comitato
regionale non fosse stata annullata entro novanta giorni.
Con il secondo motivo ci si duole di violazione e falsa applicazione dell’art. 2697
c.c. per avere l’impugnata sentenza affermato che l’onere di provare la sussistenza

del rapporto di lavoro de quo incombe sugli odierni ricorrenti, dovendosi — invece —
ritenere gravato l’INPS della dimostrazione dell’insussistenza del rapporto
medesimo.

2- I primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente perché connessi, sono
infondati.
L’esito del procedimento amministrativo contenzioso e la sua regolarità od
irregolarità non impediscono all’istituto previdenziale di agire o (come nel caso di
specie) di resistere in giudizio in tema di accertamento della (in)esistenza di
rapporti di lavoro subordinato e di conseguenti obblighi contributivi, trattandosi di
materia in cui l’esercizio (corretto o meno) del potere di autotutela da parte
dell’INPS incide su situazione giuridiche indisponibili da parte dell’ente medesimo.
In altre parole, neppure un esito favorevole all’assicurato del contenzioso
amministrativo comporta per l’istituto una preclusione analoga ad un giudicato,
rimanendo pur sempre la possibilità dell’azione giudiziaria (cfr. Cass. 22.7.96 n.
6548; Cass. 20.11.97 n. 11594).
E, infatti, questa Corte ha più volte statuito che oggetto del giudizio innanzi al
giudice ordinario non è l’impugnativa di un atto amministrativo dell’istituto né di
una decisione del comitato regionale; il piano dell’accertamento giudiziale è
distinto da quello dell’accertamento in sede di contenzioso amministrativo, di guisa
che il giudice deve verificare l’esistenza dei requisiti necessari per l’erogazione
della prestazione, anche nel caso in cui in sede amministrativa sia stato già emanato
un provvedimento ricognitivo del diritto fatto valere dall’assicurato (cfr. Cass.
19.4.01 n. 5744; Cass. 7.4.98 n. 3592).
Quindi, pur nell’ipotesi in cui l’esito del contenzioso amministrativo sia stato
favorevole all’assicurato, non sussiste preclusione alcuna per l’INPS, che può
chiedere al giudice un accertamento negativo che si sovrapponga alla decisione a sé
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sfavorevole del comitato regionale. Soltanto ove ciò non faccia (e si limiti a
resistere alla domanda dell’assicurato), la delibera del comitato regionale, che è
organo dell’INPS, deve intendersi riferita all’Istituto stesso in termini di

riconoscimento della situazione accertata dal comitato, con conseguente esonero per
l’assicurato di provare quanto gli è già stato riconosciuto in sede di contenzioso
amministrativo (in tal senso v. Cass. 17.1.05 n. 789, precedente menzionato anche
in ricorso).
Pertanto, ove sia mancato l’esercizio dell’autotutela, l’effetto che si determina in
favore dell’assicurato vittorioso in sede di contenzioso amministrativo è che
l’istituto deve sì stare alla decisione del comitato regionale, ma non gli è precluso di
chiedere al giudice un accertamento di segno opposto che si sovrapponga alla
decisione stessa. In sostanza è la situazione simmetrica, a parti invertite, che si
determina per l’assicurato in caso di decisione del comitato regionale a lui
sfavorevole: in tal caso può adire il giudice e chiedere che venga riconosciuta, ad
esempio, la sussistenza del rapporto di lavoro negata dalla decisione suddetta.
Analogamente, nella medesima fattispecie, ma in caso di decisione del comitato
favorevole all’assicurato, è l’INPS che ha l’onere di chiedere al giudice
l’accertamento negativo della sussistenza del rapporto di lavoro ritenuta dal
comitato regionale e, nondimeno, negata dall’istituto, sul quale grava quindi l’onere
della prova della Simulazione del rapporto (cfr., ancora, Cass. 17.1.05 n. 789, cit.).
Applicando alla vicenda in esame i principi sopra ribaditi, si ricava che
correttamente l’impugnata sentenza ha attribuito agli odierni ricorrenti l’onere della
prova dell’esistenza del rapporto di lavoro de quo, atteso che nel caso di specie un
provvedimento di autotutela dell’ente è stato comunque adottato (non importa, alla
stregua delle osservazioni che precedono, se nel pieno rispetto delle procedure di
legge, dal momento che — come s’è ricordato — il giudizio in questione non ha
natura impugnatoria).
Di conseguenza, visto l’avvenuto esercizio da parte dell’INPS del proprio potere
di autotutela in senso sfavorevole agli odierni ricorrenti, continua a trovare
applicazione il noto insegnamento di questa S.C. secondo cui chi intenda far valere
l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e, per l’effetto, la valida attivazione
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del rapporto previdenziale/assicurativo deve provare l’elemento tipico qualificante
del requisito della subordinazione (cfr. Cass. 9.5.2003 n. 7139; Cass. 8.2.2000 n.

1399; Cass. 28.10.89 n. 4547; Cass. 25.3.87 n. 2920).

3- Con il terzo motivo si deduce violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere
l’impugnata sentenza rigettato la domanda del Mengoli e della S.r.l. Zincatura
Persicetana e, quindi, sostanzialmente dichiarato la natura non subordinata del
rapporto fra loro intercorso, nonostante che l’INPS non avesse proposto domanda
riconvenzionale in tal senso; la doglianza muove — proseguono i ricorrenti – dal
rilievo che, ai sensi della cit. sentenza n. 789/05 di questa S.C., sarebbe stato onere
dell’INPS adire il giudice per far accertare l’insussistenza del rapporto in questione.
Il motivo è infondato.
Come sopra chiarito, il principio espresso da Cass. n. 789/05 (nei sensi pretesi
dagli odierni ricorrenti) presuppone che in sede di amministrativa sia stata infine
adottata una decisione favorevole all’assicurato, presupposto che invece — come si è
sopra ricordato – nel caso in esame non sussiste.
Dunque, a fronte di una decisione ad essi sfavorevole, gli odierni ricorrenti
avevano l’onere di adire il giudice per far valere il preteso rapporto previdenziale e
il giudice aveva l’obbligo di accertarne l’esistenza o meno (a prescindere da
riconvenzionali dell’INPS), il che è correttamente avvenuto in sede di merito, senza
vizio alcuno di extrapetizione.

4- Con il quarto motivo si fa valere un vizio di motivazione nella parte in cui la
Corte territoriale ha ritenuto che i documenti relativi alle dimissioni di Antonio
Mengoli si riferiscano all’odierno ricorrente, mentre essi — in realtà — riguardano
suo fratello Giorgio.
Il motivo è inammissibile perché, deducendo un travisamento della prova, avrebbe
dovuto essere accompagnato — in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso
per cassazione – dalla trascrizione dei documenti de quibus o, almeno, dalla precisa
indicazione della loro collocazione in atti, il che non è avvenuto.

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A ciò si aggiunga, ad ogni modo, che nell’economia della motivazione
dell’impugnata sentenza i documenti predetti risultano sostanzialmente irrilevanti,
poiché la Corte territoriale ha escluso la prova dell’esistenza d’un reale rapporto di
lavoro tra Antonio Mengoli e la S.r.l. Zincatura Persicetana in base a differenti

rilievi, ossia perché la società era amministrata da Gabriella Pizzirani, moglie
convivente del Mengoli che, a differenza del marito, non aveva alcuna precedente
esperienza imprenditoriale, che i due coniugi erano proprietari — ciascuno per il
50% – della predetta società e che non era emerso dalle acquisite deposizioni
testimoniali che la Pizzirani avesse mai impartito direttive di lavoro al proprio
consorte.

5- Con il quinto ed ultimo motivo di ricorso si lamenta vizio di motivazione per
avere l’impugnata sentenza omesso di valutare la concorde volontà delle parti
(Antonio Mengoli e Zincatura Persicetana S.r.l.) di dare vita ad un rapporto di
lavoro subordinato e di avere, invece, valutato contro gli odierni ricorrenti dati di
fatto irrilevanti, come — ad esempio — la partecipazione paritaria di entrambi i
coniugi al capitale sociale, il regime di comunione legale dei beni fra loro
intercorrente e la cointestazione ad entrambi del c/c su cui veniva accreditato lo
stipendio del Mengoli.
Il motivo va disatteso perché si colloca all’esterno dell’area di cui all’art. 360
c.p.c., atteso che, per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema — da cui non
si ravvisa motivo alcuno di discostarsi — il vizio di omessa o insufficiente
motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 n. 5 c.p.c., sussiste solo se
nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile
il mancato o deficiente esame di un fatto decisivo della controversia, potendosi in
sede di legittimità controllare unicamente sotto il profilo logico – formale la
valutazione operata dal giudice del merito, soltanto al quale spetta individuare le
fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne
l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a
dimostrare i fatti in discussione (cfr., ex aliis, Cass. S.U. 11.6.98 n. 5802 e
innumerevoli successive pronunce conformi).
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Né il ricorso isola (come invece avrebbe dovuto) singoli passaggi argomentativi
per evidenziarne l’illogicità o la contraddittorietà intrinseche e manifeste (vale a
dire tali da poter essere percepite in maniera oggettiva e a prescindere dalla lettura

confronto con documenti e deposizioni, vale a dire attraverso un’operazione che
suppone un accesso diretto agli atti ed una loro delibazione non consentiti in sede di
legittimità.
Per il resto, il motivo ricorso si dilunga in difformi valutazioni delle risultanze del
processo, che l’impugnata sentenza ha esaminato in maniera completa e con
motivazione immune di vizi logico-giuridici.

6- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di
legittimità, liquidate in euro 50,00 per esborsi e in euro 1.500,00 (euro
millecinquecento/00) per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, in data 5.3.2013.

del materiale di causa), ma ritiene di poter enucleare vizi di motivazione dal mero

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