Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16494 del 31/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 31/07/2020, (ud. 18/12/2019, dep. 31/07/2020), n.16494

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4171 del ruolo generale dell’anno 2012

proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del direttore generale pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– ricorrente –

contro

Fallimento di (OMISSIS) s.r.l., in persona del legale rappresentante

pro tempore, rappresentata e difesa, per procura speciale a margine

del controricorso, dall’Avv. Livia Salvini, presso il cui studio in

Roma, in Roma, viale Giuseppe Mazzini, n. 11, è elettivamente

domiciliato;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

centrale della Puglia, n. 2150/1/2010, depositata il 31 dicembre

2010;

udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 18 dicembre

2019 dal Consigliere Dott. Triscari Giancarlo;

 

Fatto

RILEVATO

che:

dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a (OMISSIS) s.r.l. un avviso di rettifica della dichiarazione Iva, per l’anno di imposta 2008, con il quale era stata contestata la violazione dell’obbligo di fatturazione, regolarizzazione e registrazione di fatture emesse per operazioni imponibili nel territorio nazionale e per cessione all’esportazione non corredate dai documenti doganali e non registrate, nonchè la violazione dell’obbligo di dichiarazione e di compilazione degli elenchi dei clienti e dei fornitori; avverso il suddetto atto impositivo la società aveva proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria di primo grado che lo aveva parzialmente accolto; avverso la decisione del giudice di primo grado la società e l’Agenzia delle entrate avevano proposto appello; la Commissione tributaria di secondo grado aveva rigettato entrambi gli appelli; avverso la suddetta decisione l’Agenzia delle entrate aveva proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria centrale;

la Commissione tributaria centrale ha rigettato il ricorso, in particolare ha ritenuto che: le fatture contestate non erano state nè registrate nè consegnate o spedite, sicchè non potevano essere considerate emesse, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, e quindi, dal punto di vista fiscale erano irrilevanti; dinanzi alla contestazione della società, secondo cui le fatture erano state fittiziamente compilate al solo fine di simulare l’esistenza di una capacità economica nei confronti di istituti di factoring per potere ottenere delle anticipazioni, era onere dell’ufficio, in quanto attore in senso sostanziale, dare la prova che le suddette fatture erano state, invece, emesse per operazioni commerciali reali;

avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso l’Agenzia delle entrate affidato a due motivi di censura, cui ha resistito la società depositando controricorso, illustrato da successiva memoria;

considerato che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, dell’art. 2697, c.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1;

con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, e per insufficiente e illogica motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio;

i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto riguardano la medesima questione della rilevanza delle fatture in contestazione ai fini della legittimità della pretesa, sono fondati;

in primo luogo, va disattesa l’eccezione di inammissibilità dei presenti motivi di ricorso proposta dalla controricorrente;

in particolare, parte controricorrente evidenzia che il giudice del gravame avrebbe espresso la propria valutazione in ordine alla non idoneità probatoria della fatture circa l’esistenza delle operazioni commerciali, sicchè i motivi di ricorso comporterebbero una non consentita rivalutazione del suddetto giudizio di fatto, anche tenuto conto del fatto che è la stessa parte ricorrente che, con i presenti motivi, avrebbe confermato l’inesistenza delle operazioni commerciali, avendo ammesso che le fatture erano state redatte in vista dell’ottenimento di anticipazioni finanziarie da parte degli istituti di factoring; analoghi argomenti, poi, sono stati evidenziati relativamente al secondo motivo di ricorso, per il quale, inoltre, si prospetta anche l’inammissibilità in quanto viene fatta valere l’erronea applicazione di una norma giuridica;

in realtà, il nucleo centrale del percorso argomentativo della sentenza attiene alla considerazione di fondo secondo cui le fatture, in quanto non consegnate o spedite, non potrebbero essere considerate emesse e, quindi, sarebbero del tutto irrilevanti da un punto di vista fiscale, facendone, quindi, conseguire, il mancato assolvimento dell’onere della prova gravante sull’amministrazione finanziaria;

è questo passaggio della statuizione che viene censurato con i motivi di ricorso in esame, sotto il profilo della violazione di legge, in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 21, con conseguente non corretta applicazione della regola in materia di riparto dell’onere probatorio;

non si tratta, dunque, di una contestazione della valutazione in fatto compiuta dal giudice del gravame in ordine alla idoneità probatoria della documentazione esaminata, ma di una non corretta sussunzione della fattispecie nell’ambito delle previsioni normative indicate;

va quindi osservato, in primo luogo, che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, prevede che “L’infedeltà della dichiarazione, qualora non emerga o direttamente dal contenuto di essa o dal confronto con gli elementi di calcolo delle liquidazioni di cui agli artt. 27 e 33 e con le precedenti dichiarazioni annuali, deve essere accertata mediante il confronto tra gli elementi indicati nella dichiarazione e quelli annotati nei registri di cui agli artt. 23, 24 e 25 e mediante il controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni sulla scorta delle fatture ed altri documenti, delle risultanze di altre scritture contabili e degli altri dati e notizie raccolti nei modi previsti negli artt. 51 e 51-bis. Le omissioni e le false o inesatte indicazioni possono essere indirettamente desunte da tali risultanze, dati e notizie a norma dell’art. 53 o anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”;

la previsione normativa in esame, dunque, consente all’amministrazione finanziaria di accertare l’infedeltà della dichiarazione tenendo conto di una serie di elementi presuntivi, fra cui le fatture ed altri documenti;

la questione, dunque, avrebbe dovuto essere esaminata in stretta relazione con la ragione della pretesa fatta valere dall’amministrazione finanziaria consistente nella mancata fatturazione di operazioni imponibili, in relazione alla quale il reperimento delle fatture presso la società, non registrate, costituiva un elemento di presunzione legale, sia pure a carattere relativo, sicchè, diversamente da quanto ritenuto nella sentenza, il giudice del merito avrebbe dovuto valutare la gravità precisione e concordanza degli elementi presuntivi addotti dall’amministrazione finanziaria e, conseguentemente, porre a carico della società l’onere di provare quanto da essa dedotto, cioè che si trattava di fatture emesse solo fittiziamente, all’unico scopo di ottenere anticipazioni da parte di diversi istituti di factoring, e, quindi, non rispecchianti effettive operazioni commerciali;

d’altro lato, questo profilo si correla strettamente con quello della ritenuta violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21;

rispetto alla prospettazione dell’amministrazione finanziaria del valore di prova presuntiva delle fatture, parte controricorrente ha evidenziato, come si legge in sentenza, che le stesse erano state solo fittiziamente compilate nei confronti di diversi soggetti nazionali ed esteri: le stesse non rispecchiavano effettive operazioni commerciali, ma erano state predisposte dalla società per simulare la sussistenza di una capacità economica, mediante esibizione delle fatture agli istituti di crediti;

la questione di fondo, dunque, atteneva alla circostanza che la stessa parte controricorrente aveva posto in evidenza che le fatture erano state “immesse nel mercato” ed utilizzate ai fini dell’ottenimento del credito, ammettendo, sotto tale profilo, che non erano relative a operazioni effettive, quindi oggettivamente inesistenti;

tale circostanza assume particolare rilievo ai fini della definizione della presente controversia, in quanto il piano di riferimento, entro cui la decisione avrebbe dovuto essere esaminata e decisa, atteneva alla rilevanza fiscale di fatture emesse per operazioni inesistenti, secondo la stessa prospettazione di parte controricorrente e posta comunque all’attenzione del giudice del gravame;

va quindi precisato che secondo questa Corte “In tema d’IVA, in attuazione del principio di cartolarità posto a base del sistema impositivo va escluso il diritto alla detrazione, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, comma 1, in relazione ad operazioni oggettivamente inesistenti non assumendo rilievo che il cessionario abbia versato al cedente l’ammontare del tributo sulla base della regolarità formale dell’operazione dal punto di vista contabile e fiscale, atteso che l’imposta è dovuta ogniqualvolta la fattura sia emessa, seppure per un’operazione non avvenuta o non avvenuta nei termini in essa descritti” (Cass., civ. 10 giugno 2015, n. 12111; Cass. civ., 27 gennaio 2014, n. 1565)

analogamente non rileva l’effettivo utilizzo della fattura emessa per operazioni inesistenti, in quanto nella fattispecie tributaria di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, che fa applicazione del “principio di cartolarità”, l’insorgenza del rapporto impositivo sorge per la semplice “emissione” del documento contabile, completo in tutto i suoi elementi formali, in quanto suscettibile di essere utilizzato a fini fiscali o ad altri fini giuridicamente rilevanti ove non sia stato tempestivamente eliminato e sottratto al commercio giuridico (Cass. civ., 27 maggio 2015, n. 10939);

sempre in tale ultima pronuncia si è affermato che “Il principio di neutralità dell’IVA, che informa la disciplina comunitaria, non viene ad essere peraltro contraddetto dalla norma tributaria in questione (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7), avuto riguardo al chiaro disposto normativo dell’art. 21, paragr. 1, lett. c), della Sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio in data 17.5.1977, applicabile “ratione temporis”, secondo cui deve ritenersi “soggetto passivo” d’imposta colui che “indichi l’imposta sul valore aggiunto in una fattura o in altro documento che ne fa le veci” (disposizione riprodotta nell’art. 203 della nuova Direttiva IVA, 206/112/CE del Consiglio del 28/11/2006, che prevede che “l’IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura”;

in questo quadro giurisprudenziale, la Corte di Giustizia ha ripetutamente affermato che il diritto alla detrazione implica indefettibilmente la effettiva debenza della imposta indicata in fattura, non essendo pertanto sufficiente a consentire l’esercizio del diritto alla detrazione la mera indicazione in fattura della imposta, qualora questa “non corrisponda ad un’operazione determinata, perchè è più elevata di quella dovuta per legge o perchè l’operazione di cui trattasi non è soggetta all’IVA” (Corte di giustizia CE, 13 dicembre 1989, in causa 0342/87, Genius Holding BY);

la istituzione di tale necessaria correlazione tra prelievo e detrazione è dunque determinata proprio dalla introduzione della fattura (recante dati non corrispondenti alla effettiva realtà della operazione) nella operatività del sistema dell’IVA, che non tollera che la medesima fattura, una volta “emessa”, possa legittimare l’esercizio del diritto alla detrazione d’imposta ma non anche la riscossione della imposta;

pertanto, l’immissione di un fattura nel mercato, come nel caso di specie, in quanto utilizzata ad altri fini giuridicamente rilevanti, quale quello di ottenere anticipazioni finanziarie da istituti di factoring, comporta necessariamente una valutazione non solo di inesistenza oggettiva dell’operazione, ma, di conseguenza, l’insorgenza del rapporto obbligatorio, stante l’applicazione del principio di cartolarità posto a base del sistema impositivo dell’Iva;

la pronuncia censurata, quindi, non è in linea con i principi sopra affermati, non avendo tenuto conto del fatto incontestato che le fatture erano state formate per operazioni oggettivamente inesistenti ed immesse, comunque, nel mercato; in conclusione, i motivi sono fondati, con conseguente accoglimento del ricorso e cassazione della sentenza con rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2019.

Depositato in cancelleria il 31 luglio 2020

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