Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16494 del 11/06/2021

Cassazione civile sez. II, 11/06/2021, (ud. 10/02/2021, dep. 11/06/2021), n.16494

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26668/019 proposto da:

E.O.C., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria

della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato

FRANCESCO ROPPO,giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 703/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 05/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

10/02/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie del ricorrente.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

E.O.C. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bologna, depositata il 5/3/2019 con la quale è stato rigettato l’appello avverso l’ordinanza del Tribunale di Bologna dell’8 marzo 2017 che aveva a sua volta rigettato l’opposizione dal medesimo proposta avverso il provvedimento della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato di Bologna, sezione di Forlì-Cesena, che aveva respinto la sua domanda per il riconoscimento della protezione internazionale e della protezione umanitaria.

La Corte d’Appello rilevava che l’appellante era privo di documento di identità, sicchè la valutazione doveva essere svolta unicamente sulla base della sua narrazione.

Questi aveva riferito di avere lasciato in Nigeria moglie e due figli e che aveva appresso che il padre era appartenente alla setta (OMISSIS), dedita alla magia nera. Aggiungeva che temendo di morire come la madre ed un fratello in conseguenza di malefici paterni, aveva, con un fratello, cercato di uccidere il padre dando fuoco alla sua abitazione, ma senza riuscirvi. Pertanto, era scappato dal suo paese, atteso che, pur essendo poi il padre deceduto in un incidente stradale, temeva la vendetta della setta.

I giudici di appello hanno disatteso il gravame evidenziando che non sussistevano delle condizioni per il riconoscimento delle protezioni internazionale e umanitaria richieste.

Il ricorso è affidato a due motivi, illustrati da memorie.

Il Ministero dell’Interno ha resistito ai soli fini di un’eventuale discussione orale.

Diritto

RAGIONI DI DIRITTO

Con il primo motivo del ricorso il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5 e D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi.

Evidenzia, in particolare, che il Tribunale aveva ritenuto inattendibile il suo racconto in ragione dell’assenza di elementi oggettivi idonei a circostanziare il racconto, non essendo stato chiarito come avesse saputo della reale natura della setta cui apparteneva il padre e di come avesse saputo ciò. Non risultava chiarito come il padre avesse potuto contribuire al decesso della madre e di un fratello e quali fossero le ragioni per il contrasto tra il padre e gli altri familiari. Mancava poi ogni riferimento alle modalità precise con le quali era deceduto il padre.

Inoltre, pur riferendo il ricorrente di essere in contatto con i familiari in Nigeria, aveva omesso di farsi inviare eventuali documenti o prove idonee a meglio dettagliare il proprio racconto.

Tuttavia, il ricorrente segnala che tali incongruenze ben potevano addebitarsi allo stato psicologico del richiedente, dovendosi tenere conto dei fattori idonei ad incidere sulla credibilità quali delineati da un documento della UNHCR.

Osserva, inoltre, che il giudizio sulla credibilità del dichiarante doveva essere condotta alla luce delle informazioni sul paese di provenienza, da acquisire anche d’ufficio, nel rispetto dell’obbligo di collaborazione istituzionale.

Il motivo è inammissibile.

Il giudice di merito ha escluso l’attendibilità del ricorrente avuto riguardo sia all’incoerenza del racconto, emergendo evidenti contraddizioni in merito alle dinamiche endofamiliari, sia alla non plausibilità del racconto medesimo, giungendo, conseguentemente, ad escludere che sussistesse il timore posto a fondamento della domanda, condividendo quanto opinato dal Tribunale, circa il fatto che si trattava di vicenda di carattere personale ricollegabile alla sfera ordinaria ed estranea alle vicende che invece potrebbero legittimare la protezione internazionale.

La Corte d’Appello ha proceduto ad una valutazione unitaria delle dichiarazioni del ricorrente, pervenendo ad un giudizio di inattendibilità del racconto, sia in ragione della incoerenza delle dichiarazioni stesse, sia della loro implausibilità, sicchè la doglianza si risolve, dunque, in una censura della valutazione degli elementi probatori operata dalla Corte distrettuale, nella parte in cui ha ritenuto il richiedente non credibile.

Una siffatta censura non può trovare ingresso in questa sede in quanto la Corte di Cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale e non può riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa (cfr. Cass. 28 novembre 2014, n. 25332; Cass., ord., 22 settembre 2014, n. 19959).

Sotto altro aspetto, deve osservarsi che in materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (cfr. Cass., ord., 12 giugno 2019, n. 15794). Tale impostazione, riferita alla protezione internazionale nel suo complesso, si attaglia come tale tanto alla domanda volta al conseguimento dello status di rifugiato, quanto a quella diretta ad ottenere la protezione sussidiaria in ciascuna delle tre ipotesi contemplate dall’art. 14 dello stesso D.Lgs..

Ne consegue che, anche in relazione alla protezione sussidiaria, ritenuti non credibili i fatti allegati a sostegno della domanda, non è necessario far luogo a un approfondimento istruttorio ulteriore, attivando il dovere di cooperazione istruttoria officiosa incombente sul giudice, dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (così, Cass., ord., 20 dicembre 2018, n. 33096).

Con il secondo motivo la parte deduce la violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, art. 10 Cost., nonchè difetto di motivazione e l’errato e omesso esame di fatti, per aver la Corte d’Appello escluso che ricorressero i presupposti per la concessione della protezione umanitaria, senza avere fatto alcun riferimento specifico alla posizione del ricorrente, che nel frattempo aveva intrapreso un importante percorso di inserimento sociale in Italia.

Il motivo è inammissibile.

Occorre premettere che il diritto alla protezione umanitaria, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta ad ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile. Ne consegue che – come hanno chiarito le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 13 novembre 2019, n. 29459) – la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte, come nella specie, prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge. Tanto premesso in ordine alla disciplina applicabile ratione temporis, ed assodato che la Corte d’Appello di Bologna ha correttamente scrutinato la domanda dell’ E. sulla base delle norme in vigore al momento della presentazione della domanda, va considerato che la stessa ha escluso la ravvisabilità dei presupposti della protezione umanitaria in difetto del riscontro di una condizione di vulnerabilità effettiva o comunque di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani, caratterizzanti il Paese di origine e direttamente riferibili alla vicenda personale del richiedente, e avendo apprezzato come non rilevante il grado di integrazione. La sentenza della Corte d’Appello di Bologna si appalesa esente dal vizio di violazione di legge denunciato dal ricorrente. E’ evidente, infatti, che l’attendibilità e la rilevanza della narrazione dei fatti che hanno indotto lo straniero a lasciare il proprio Paese svolgono un ruolo importante ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, atteso che ai fini di valutare se il richiedente abbia subito nel Paese di origine una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, pur partendo dalla situazione oggettiva del Paese di origine, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza, secondo le allegazioni del richiedente (Cass., Sez. I, 26 febbraio 2020, n. 5191). La rilevanza di quanto narrato dall’istante è stata, peraltro, esclusa, nel caso di specie, per i motivi suesposti.

Nessuna rilevanza può, inoltre, attribuirsi, di per sè, al percorso di integrazione intrapreso in Italia. Questa Corte ha infatti chiarito (Cass., Sez. I, 23 febbraio 2018, n. 4455) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza. Non può dunque essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass., Sez. 28 giugno 2018, n. 17072).

Nulla va disposto in ordine al governo delle spese del giudizio, in assenza di attività difensiva della parte vittoriosa.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2021

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