Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16489 del 19/06/2019

Cassazione civile sez. I, 19/06/2019, (ud. 27/06/2018, dep. 19/06/2019), n.16489

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. BISOGNI Giacinto – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi riuniti proposti da:

T.R., elettivamente domiciliato in Roma via Sardegna n.

29, rappresentato e difeso, per mandato a margine dei ricorsi, dagli

avv. Francesco Ricciardi e Alessandro Ferrara (telefax n.

06/98877852; p.e.c. alessandroferrara.ordineavvocatiroma.org;

– ricorrente –

nei confronti di:

Ministero dell’Interno e Prefettura di Roma, rappresentati e difesi,

ope legis, dall’Avvocatura Generale dello Stato, e domiciliati

presso i suoi uffici in Roma via dei Portoghesi 12 (p.e.c.

roma.mailcert.avvocaturastato.it, fax 06/96514000);

– controricorrenti –

avverso l’ordinanza del Giudice di pace di Roma, emessa il 30 agosto

2016 e depositata il 1 settembre 2016, n. R.G. 20010/16 e avverso

l’ordinanza emessa il 18 novembre 2016 e depositata il 22 novembre

2016, n. R.G. 39526/16;

sentita la relazione in camera di consiglio del cons. Dott. Giacinto

Bisogni;

udite le conclusioni del P.G., cons. Luisa De Renzis, che ha chiesto

accogliersi i ricorsi e pronunciare il seguente principio di

diritto:

“Ai fini dell’espulsione di un apolide non è possibile procedere se

non nella ipotesi contemplata dall’art. 31 della Convenzione di New

York, ovvero nei casi di documentata sussistenza dei motivi di

sicurezza nazionale o di ordine pubblico; tale normativa si estende,

in via analogica, anche alle situazioni di apolidia di fatto e/o

nelle more del procedimento per accertare lo stato di apolidia

qualora la situazione del soggetto fosse già emergente dalle

informazioni e dalla documentazione delle Autorità pubbliche

competenti dello Stato italiano, di quello di origine o di quello

verso il quale potesse ravvisarsi un collegamento significativo con

il soggetto interessato”.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Sintesi dei due procedimenti.

Ricorso n. 24550/2016.

1. In data 18.2. 2016 è stato emesso nei confronti del sig. T.R. decreto prefettizio di espulsione che ha rilevato la mancata regolarizzazione della propria presenza sul territorio nazionale. Il decreto ha evidenziato la insussistenza delle condizioni per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari o altro titolo e la ricorrenza dei presupposti per considerare il T. come persona a rischio di fuga ai sensi dell’art. 13, comma 4 bis del T.U.I. qualora gli venisse concesso un termine per la partenza volontaria, avendo dichiarato di non voler ritornare nel paese di origine, non avendo un documento utile all’espatrio, e avendo fornito diverse generalità in occasione di fermi per identificazione operati dalla polizia ed essendo privo di un alloggio stabile dove poter essere rintracciato.

2. Ha proposto opposizione il sig. T., con ricorso depositato il 17.3.2016, affermando di essere entrato in Italia nel 1986, quando era ancora cittadino jugoslavo, e di non essere mai rientrato nel corso di questo periodo in Jugoslavia e successivamente all’aprile del 1992 in Bosnia suo luogo di nascita. Aveva pertanto acquisito i presupposti per la dichiarazione di apolidia e tale situazione aveva impedito l’esecuzione di tre precedenti decreti di espulsione, l’ultimo dei quali era stato oggetto di opposizione, con ricorso del 21 gennaio 2014, accolta dal Giudice di pace di Roma che aveva riconosciuto la sua inespellibilità.

3. Il Giudice di pace di Roma ha respinto l’impugnazione proposta dal sig. T.R. avverso il decreto prefettizio di espulsione del 18 febbraio 2016 rilevando in motivazione che l’opponente pur essendo in possesso dei requisiti per la dichiarazione di apolidia non ne aveva mai fatto richiesta nonostante il suo ingresso in Italia risalisse al 1986 (e pertanto rimanendo irrilevante come causa ostativa alla richiesta il recente periodo di detenzione conclusosi al momento della notifica del decreto di espulsione del 18 febbraio 2016); che aveva dimostrato di essere persona socialmente pericolosa; che la mancata traduzione del decreto in lingua conosciuta dallo straniero non comporta la nullità del decreto di espulsione tutte le volte in cui l’autorità amministrativa attesti le ragioni tecnico-organizzative per le quali la traduzione non sia possibile il che legittima la traduzione in una delle lingue veicolari predeterminate dall’art. 13 del T.U.I..

4. Ricorre per cassazione T.R. affidandosi a tre motivi con i quali deduce: a) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 2 e art. 13, comma 2, lett. b, degli artt. 1 e 31 della Convenzione di New York del 28 settembre 1954 (ratificata con L. n. 306 del 1962) e artt. 2 e 3 direttiva n. 115/2008 dell’Unione Europea in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; b) violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 2, lett. b e c in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; c) violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

5. Con il primo motivo di ricorso il sig. T. rileva che la sua condizione di apolide impedisce l’espulsione dal territorio nazionale in assenza del presupposto della cd. pericolosità sociale che non è integrato dalla mancata regolarizzazione della sua posizione con l’accertamento formale dello status di apolide.

6. Con il secondo motivo il sig. T. rileva che il Giudice di pace ha illegittimamente integrato la motivazione del decreto di espulsione accertando una situazione di pericolosità che non risulta menzionata nel provvedimento prefettizio.

7. Con il terzo motivo il sig. T. deduce un ulteriore causa di invalidità del decreto derivante dalla mancata traduzione in lingua slava facilmente accessibile all’amministrazione procedente.

Ricorso n. 7258/2017:

8. In data 10 maggio 2016 è stato emesso, ai sensi dell’art. 13 comma 2, lett. b) e dell’art. 14 comma 5 ter del T.U.I., nei confronti del sig. T.R. decreto prefettizio di espulsione con il quale veniva rilevato che egli non aveva ottemperato all’ordine, emesso dal Questore di Roma in seguito al precedente decreto di espulsione del 18 febbraio 2016, di lasciare entro sette giorni il territorio nazionale mentre continuava a persistere l’insussistenza delle condizioni per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari o per altro titolo e la ricorrenza dei presupposti per considerare il T. come persona a rischio di fuga ai sensi dell’art. 13, comma 4 bis del T.U.I. avendo dichiarato di non voler ritornare nel paese di origine, non avendo un documento utile all’espatrio, avendo fornito generalità diverse in occasione di differenti fermi per identificazione operati dalle forze di polizia ed essendo privo di un alloggio stabile dove poteva essere rintracciato.

9. Ha proposto opposizione al decreto il sig. T.,

eccependo la sottoscrizione del decreto di espulsione da parte del vice prefetto aggiunto senza indicazione della delega prefettizia e affermando di essere entrato in Italia nel 1986, quando era ancora cittadino jugoslavo, e di non essere mai rientrato nel corso di questo periodo in Jugoslavia e successivamente in Bosnia suo luogo di nascita. Aveva pertanto acquisito i presupposti per la dichiarazione di apolidia e tale situazione aveva impedito, prima ancora della notifica del decreto di espulsione del 18 febbraio 2016, l’esecuzione di tre precedenti decreti di espulsione, l’ultimo dei quali era stato oggetto di opposizione, con ricorso del 21 gennaio 2014, accolta dal Giudice di pace di Roma che aveva riconosciuto la sua inespellibilità.

10. Il Giudice di pace di Roma ha respinto l’impugnazione proposta dal sig. T.R. avverso il decreto prefettizio di espulsione del 10 maggio 2016 rilevando in motivazione che il decreto impugnato dà atto dettagliatamente dei presupposti fondanti l’espulsione; che è citato nel testo del decreto il provvedimento prefettizio di delega; che l’asserito diritto dell’opponente a ottenere un permesso di soggiorno sul presupposto del suo stato di apolide è infondato “in assenza di adeguata prova dei requisiti fondanti tale censura e anzi di fronte alla esplicita ammissione, nel ricorso, di essere stato nell’impossibilità oggettiva di curare la procedura per il riconoscimento dell’apolidia”.

11. Ricorre per cassazione T.R. affidandosi a tre motivi con i quali deduce: a) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 2 e art. 13, comma 2, lett. b, degli artt. 1 e 31 della Convenzione di New York del 28 settembre 1954 (ratificata con L. n. 306 del 1962) e artt. 2 e 3 direttiva n. 115/2008 dell’Unione Europea in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; b) violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 4 bis e art. 14, comma 5 ter ex art. 360 c.p.c., n. 3; c) violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 2, lett. b) e dell’art. 14, comma 5 ter in relazione agli artt. 4 e 14 della direttiva n. 115/2008, ex art. 360 c.p.c., n. 3.

12. Con il primo motivo di ricorso il sig. T. rileva che la sua condizione di apolide impedisce l’espulsione dal territorio nazionale in assenza del presupposto della cd. pericolosità sociale che non è integrato dalla mancata regolarizzazione della sua posizione con l’accertamento formale dello status di apolide.

13. Con il secondo motivo il sig. T. rileva che il Giudice di pace ha illegittimamente ritenuto automatica l’insorgenza di una causa di espulsione per effetto del mancato allontanamento dal territorio nazionale senza considerare concretamente la sua condizione personale che impedisce la sua uscita volontaria o coatta dall’Italia. Allo stesso modo secondo il ricorrente il Giudice di pace ha reso una motivazione del tutto astratta sulla esistenza del rischio di fuga.

14. Con il terzo motivo il sig. T. lamenta che non è stata rilevata dal giudice di pace, la contrarietà del provvedimento espulsivo alla disciplina comunitaria in tema di rimpatri, disciplina che consente agli Stati membri la emanazione anche di misure coercitive intese a ottenere l’allontanamento dei soggetti presenti irregolarmente sul loro territorio ma impone il rispetto del principio di proporzionalità e di garanzia dei diritti umani fondamentali.

15. Relativamente ai due ricorsi si costituiscono e propongono controricorso il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Roma, in persona dei rispettivi rappresentanti pro tempore.

Ritenuto che:

16. I due ricorsi devono essere riuniti.

17. Come rileva il Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta “si tratta di un soggetto apolide di fatto, la cui condizione era stata recepita nel provvedimento in data 8.5.2013 emesso dal g.d.p. di Roma, che aveva annullato uno dei tanti procedimenti di espulsione ed aveva accertato, in via incidentale, la condizione di apolide originario del T.. Ancora, il giudice di pace aveva constatato che i precedenti trattenimenti si erano conclusi con provvedimenti di dismissione per impossibilità di reperire la documentazione idonea al rimpatrio, a causa della mancata collaborazione della rappresentanza diplomatica in Italia della Bosnia Erzegovina, che non aveva riconosciuto come proprio connazionale l’odierno ricorrente. Tale circostanza non può essere ignorata ed è alla base delle considerazioni relative alla illegittimità dei provvedimenti impugnati. Si tratta invero di persona già espulsa quattro volte, una delle quali annullata dal g.d.p., ma le tre espulsioni precedenti erano state eseguite con altrettanti trattenimenti nel CIE di Ponte Galeria e tutte definite con atto di dismissione per decorrenza dei termini massimi, non essendo stato possibile procedere all’acquisizione della documentazione necessaria al rimpatrio”.

18. La condizione di apolide di fatto del sig. T. deriva dalla vicenda estintiva della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia avvenuta agli inizi degli anni 90, periodo nel quale il ricorrente si trovava già sul territorio italiano. Fino a quel momento, la Costituzione dell’allora Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia prevedeva per i propri cittadini l’attribuzione di una doppia cittadinanza, quella nazionale jugoslava e quella di una delle sei Repubbliche da cui era composta la Federazione.

L’estinzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia ha comportato per tutti i cittadini di tale Stato la perdita automatica della cittadinanza jugoslava e l’irrilevanza sul piano internazionale della nazionalità della singola Repubblica di appartenenza facente parte della Federazione. Peraltro, in quel momento, la Bosnia-Erzegovina era priva tanto di una sovranità statale quanto di una legge nazionale sulla cittadinanza bosniaca.

La prima legge sulla cittadinanza della Bosnia Erzegovina è entrata in vigore solamente nel 1998 (e successivamente è stata modificata nel 1999) prevedendo l’acquisto della cittadinanza per origine, nascita, adozione, naturalizzazione e accordo internazionale (cfr. Cass. civ. VI-1, n. 4262 del 3 marzo 2015, che ha rilevato che l’art. 6 della legge bosniaca in questione, per quanto riguarda l’acquisto della cittadinanza “per origine”, consente il riconoscimento soltanto a chi sia nato all’estero da almeno uno dei genitori bosniaci, dopo l’entrata in vigore della Costituzione del 1995). Il sig. T. non rientra in alcuno di questi casi. La stessa legge prevedeva, tuttavia, l’acquisto della cittadinanza per tutte le persone che erano cittadini della precedente Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia in due casi: a) coloro che tra l’aprile del 1992 e l’entrata in vigore della legge avessero preso la residenza permanente nel territorio e avessero mantenuto la residenza per due anni dopo l’entrata in vigore della legge; b) coloro che tra il 1 gennaio 1998 e il 31 dicembre 1998 avessero preso la residenza permanente nel territorio e la avessero mantenuta per un periodo continuato di tre anni. Neanche in base a questa normativa, dunque, il sig. T. poteva ottenere la cittadinanza dello Stato della Bosnia-Erzegovina, essendo lo stesso giunto in Italia nel 1986 dove è rimasto sino ad oggi.

In ogni caso è risolutivo rimarcare che la stessa rappresentanza diplomatica della Bosnia Erzegovina in Italia non ha riconosciuto come proprio connazionale l’odierno ricorrente, sicchè, di fatto, il sig. T. non risulta essere nè cittadino bosniaco nè cittadino italiano o di un altro Stato.

20. Alla luce dell’art. 1 della Convenzione di New York, ratificata in Italia con la L. n. 306 del 1962, si considera apolide “una persona che nessuno Stato considera come suo cittadino nell’applicazione della sua legislazione”. Le Sezioni Unite di questa Corte sulla base della definizione convenzionale, nella pronuncia n. 28873 del 9 dicembre 2008, hanno individuato la seguente nozione di apolide: “è apolide colui che si trova in un Paese di cui non è cittadino provenendo da altro Paese del quale ha perso formalmente o sostanzialmente la cittadinanza”.

21. Pertanto, ogni individuo che soddisfa i requisiti enunciati dalla Convenzione del 1954, così come delineati anche dalla giurisprudenza di questa Corte, è da considerarsi apolide. Non può non sottolinearsi a tal fine la natura dichiarativa e non costitutiva del riconoscimento giudiziale dello status di apolide (cfr. Cass. civ. sez. I, n. 4823 del 4 maggio 2004). In questa prospettiva, anche quando lo status di apolide non sia stato ancora oggetto di accertamento giudiziale, ma i suoi presupposti sono inequivocamente emersi dalle verifiche amministrative e documentali svolte dalle Autorità competenti, non può non riconoscersi rilievo alla condizione di un soggetto che, per citare ancora le Sezioni Unite, si trovi in un Paese di cui non è cittadino provenendo da altro Paese del quale ha perso la cittadinanza.

Nel caso in esame, seppur il sig. T. non abbia mai dato formale impulso al procedimento per il riconoscimento dello status di apolide, è emerso dagli accertamenti svolti dalle Autorità pubbliche competenti sia dello Stato italiano che dello Stato di origine una condizione di apolidia di fatto, rilevata e accertata incidentalmente anche dal giudice di pace di Roma nel provvedimento del 08.05.2013.

22. Accertata la ricorrenza della condizione di apolide di fatto, va verificata la percorribilità nei suoi confronti di un provvedimento di espulsione D.Lgs. n. 286 del 1998, ex artt. 13 e ss.. L’art. 31 della Convenzione di New York del 1954 prevede un generale divieto di espulsione dell’apolide, facendo salva l’ipotesi in cui l’espulsione sia giustificata da motivi di sicurezza e di ordine pubblico. Si tratta di una disposizione che rivela una precisa intenzione degli Stati contraenti di limitare il potere loro riservato dal diritto internazionale di espellere in qualsiasi momento, sulla base della normativa interna, uno straniero precedentemente ammesso sul territorio nazionale. Tale limitazione è frutto del bilanciamento tra l’esigenza di tutelare la sovranità statale, e in particolare il potere di regolare l’accesso e la permanenza sul territorio nazionale, con il diritto dell’apolide di fruire di un territorio e di una comunità nazionale di accoglienza e di essere protetto dal potere di espulsione in tutti i casi in cui non ricorrano circostanze che giustifichino la prevalenza dell’interesse nazionale.

23. La norma di garanzia sancita dall’art. 31 della Convenzione deve applicarsi, quindi, in via analogica anche a coloro i quali si trovano in una condizione di apolidia di fatto, poichè, anche in mancanza del riconoscimento giuridico formale dello status di apolide, già sussistono i presupposti fattuali e giuridici che determinano la condizione di apolidia. Nè, come dimostra il caso in esame, la condizione di apolidia di fatto consente concretamente allo Stato in cui si trova l’apolide di fatto di dare esecuzione a un provvedimento di espulsione basato sull’inesistenza di titolo giuridico al soggiorno nel territorio nazionale dato che l’apolidia di fatto, alla pari dell’apolidia di diritto, condivide la non eseguibilità dei provvedimento di espulsione proprio a causa dell’impossibilità di qualsiasi ipotesi di rimpatrio. In entrambi i casi deve operare quindi la medesima ratio che sottostà al riconoscimento dello status di apolide nel diritto internazionale, così come recepito dal legislatore italiano, e cioè il riconoscimento del diritto della persona, che versa in una condizione sfavorevole di non appartenenza a nessuna comunità nazionale, alla tutela, sia in ambito internazionale che nei confronti dello Stato in cui si trova, secondo l’impostazione innovativa del diritto internazionale postbellico. Specularmente tale equiparazione della condizione di diritto a quella di fatto, ai fini della limitazione del potere di espulsione dell’apolide, trova un solido fondamento nel rilievo costituzionale attribuito alla tutela universalistica della persona umana.

24. Deve anche rilevarsi che nel caso in esame entrambi i provvedimenti espulsivi non sono stati emessi sulla base del riscontro, da parte dell’autorità prefettizia, della pericolosità sociale del sig. T. ma sul presupposto della irregolarità della presenza e permanenza nel territorio nazionale.

25. Al fine di dare corretta attuazione ai principi costituzionali e alle norme sovranazionali e di recepimento interno che regolano la materia, va accolta la richiesta del Procuratore Generale con l’affermazione di un principio di diritto secondo cui “l’art. 31 della Convenzione di New York, che prevede la non espellibilità di un apolide se non nei casi di documentata sussistenza dei motivi di sicurezza nazionale e di ordine pubblico, si estende in via analogica anche alle situazioni di apolidia di fatto e/o nelle more del procedimento per accertare lo stato di apolidia, quando la situazione del soggetto emerge chiaramente dalle informazioni o dalla documentazione delle Autorità pubbliche competenti dello Stato italiano, di quello di origine o di quello verso il quale può ravvisarsi un collegamento significativo con il soggetto interessato”.

26. I ricorsi riuniti devono pertanto essere accolti con conseguente cassazione dei provvedimenti impugnati e decisione nel merito di annullamento dei decreti di espulsione oggetto della presente controversia.

PQM

La Corte, riuniti i ricorsi li accoglie, cassa i provvedimenti impugnati e, decidendo nel merito, annulla i decreti di espulsione impugnati.

Condanna l’Amministrazione soccombente al pagamento in favore dell’Erario delle spese del giudizio di merito (liquidate in complessivi Euro 1.300 di cui 200 per spese) e di cassazione (liquidate in complessivi Euro 2.200 di cui 100 per spese).

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 27 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2019

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