Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16475 del 10/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 10/06/2021, (ud. 11/03/2021, dep. 10/06/2021), n.16475

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1109/2013 R.G. proposto da:

STYL GRAND S.p.A., in persona del legale rappresentante, nonchè

G.G., G.L. e G.P., tutti elettivamente

domiciliati in Roma, Viale Giuseppe Mazzini, n. 11, presso lo studio

degli avv.ti Gabriele Escalar e Livia Salvini, dai quali sono

rappresentati e difesi in forza di procure a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 42/12 della Commissione tributaria regionale

del Veneto, depositata il 10 maggio 2012;

Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del giorno 11

marzo 2021 dal Consigliere Rossi Raffaele.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. A seguito di verifica fiscale – concernente un contratto di prestito di azioni garantito (dalle parti denominato stock lending agreement) stipulato dalla Styl Grand S.p.A., in qualità di borrower, e dalla società DFD Czech s.r.o. (finanziaria fiscalmente residente nella Repubblica Ceca), quale lender, avente ad oggetto n. 3.000 azioni del valore nominale di 1 Euro cadauna emesse dalla società Mont Bazon Consultadoria e Servicos s.a., con sede nella zona franca di Madeira, controllata al 100 per cento dalla DFD – l’Agenzia delle entrate, ritenendo la nullità di detto contratto siccome connotato da causa contraria alla legge e la conseguente inopponibilità dei suoi effetti all’Amministrazione finanziaria, rideterminava il reddito imponibile della Styl Grand per l’anno d’imposta 2004, emettendo avviso di accertamento a carico della stessa.

2. Considerando gli utili non contabilizzati (derivanti dal mancato riconoscimento di costi) presuntivamente distribuiti ai soci della Styl Grand S.p.A., società a ristretta base azionaria, l’Agenzia delle Entrate determinava, con separati avvisi di accertamento, un maggior reddito imponibile IRPEF a carico dei soci G.G. (titolare di una quota di partecipazione pari al 35% del capitale), G.L. (titolare di una quota di partecipazione pari al 45% del capitale) e G.P. (titolare di una quota di partecipazione pari al 20% del capitale), sempre per l’anno d’imposta 2004.

3. Le impugnative giurisdizionali dei contribuenti, proposte con separati ricorsi poi riuniti per connessione, venivano disattese dalla Commissione tributaria provinciale di Treviso, decisione confermata, sulla congiunta impugnazione dei soccombenti, dalla Commissione tributaria regionale del Veneto con la sentenza in epigrafe indicata.

A giustificazione del rigetto del gravame interposto dalla società, il giudice d’appello ha ritenuto che la complessa operazione oggetto del contendere non potesse essere “ricondotta semplicisticamente al solo contratto di stock lending (o la contratto di mutuo tipico ex artt. 1813 c.c. e ss.), con i relativi diritti ed obblighi per ciascuno dei contraenti, poichè il prestito di titoli negoziato è alterato dalla contemporanea presenza di una scommessa – nulla per mancanza di alea – sulla entità dei dividendi distribuiti da Mont Bazon, di fatto controllata direttamente da DFD, con la conseguenza che l’unica finalità percepibile nel contratto stipulato è quella di assicurare alla Styl Grand sia l’indebita deduzione dei costi di commissione previsti dal contratto, in violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, che la contabilizzazione di dividendi inesistenti, esclusi dalla tassazione nella misura del 95% ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2. L’indubbia illiceità della causa, diretta concretamente a sottrarre imponibile IRES e veicolata attraverso la creazione di un negozio aleatorio – nullo per mancanza di alea – comporta pertanto la nullità del contratto (ex artt. 1343 e 1344 c.c.) che, di conseguenza, è improduttivo degli (altrettanto illeciti) effetti fiscali”.

Circa la posizione dei soci, dichiarata la cessazione della materia del contendere limitatamente alle riprese a tassazione annullate in via di autotutela dall’Ufficio, la C.T.R. ha valutato legittima l’imposizione IRPEF nella misura ordinaria (e non agevolata) sulla quota di utile ascritta a G.P., titolare di partecipazione non qualificata, e concorrente alla formazione del reddito per l’intero (e non già nella misura del 40%) la quota di utile riferita ai soci titolari di partecipazione qualificata, G.G. e G.L..

4. Per la cassazione della sentenza ricorrono uno actu la Styl Grand S.p.A., G.G., G.P. e G.L., affidandosi a diciotto motivi; resiste, con controricorso, l’A.F..

I ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa ex art. 380-bis.1 c.p.c. recante un ulteriore motivo di impugnazione.

Diritto

CONSIDERATO

che:

5. E’ doverosa una notazione preliminare.

Ciascuno dei motivi di ricorso proposti a titolo di violazione o falsa applicazione di norme di diritto o di nullità della sentenza è corredato, a mò di chiosa, dalla formulazione di un quesito di diritto.

Tali quesiti vanno intesi come sintetica e riepilogativa illustrazione delle argomentazioni svolte con le singole censure, non già come assolvimento di una condizione di procedibilità del ricorso.

Ed infatti, il ricorso in esame non è regolato dall’art. 366-bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6: come chiarito da questa Corte (Cass. 19/11/2014, n. 24597), questa norma si applica ratione temporis ai ricorsi proposti avverso sentenze e provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2 marzo 2006 (data di entrata in vigore del citato D.Lgs.) e fino al 4 luglio 2009 (data di abrogazione della disposizione, operata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47).

6. La trattazione dei motivi ricalcherà l’ordine espositivo seguito nell’atto introduttivo: logica preliminarietà impone dapprima il vaglio delle censure sollevate dalla società o comuni a tutti i ricorrenti, in appresso lo scrutinio delle ragioni relative unicamente ai singoli soci.

7. I primi due motivi investono la statuizione resa dal giudice di prossimità sull’illegittimità degli avvisi di accertamento per asserita inosservanza degli obblighi di contraddittorio preventivo previsti dal diritto comunitario.

7.1. Con il primo mezzo, articolato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, si eccepisce la nullità della sentenza per avere, in violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 57 e 62, ritenuto la novità (e dichiarato la inammissibilità) del motivo di appello con cui era stata dedotta siffatta illegittimità.

7.2. Con il secondo mezzo, articolato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, si censura la (sia pure in obiter dictum) affermata insussistenza del diritto al contraddittorio preventivo, siccome, a dire dei ricorrenti, in contrasto con l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

8. E’ opportuno, per una più agevole intellegibilità della decisione, trascrivere pedissequamente il contestato capo della pronuncia.

Esso così recita: “Inammissibile è poi la censura rivolta all’impugnata sentenza di omessa pronuncia sull’eccepita nullità degli avvisi di accertamento “per violazione degli obblighi di contraddittorio preventivo sanciti dal diritto comunitario”: trattasi di motivo che, ancorchè infondato perchè basato sui principi espressi dalla Corte di Giustizia CE con la sentenza 18.12.2008 causa C-349-07 (Socropè) in materia doganale, non risulta ritualmente avanzato in primo grado, onde esso va dichiarato inammissibile per il carattere di novità che riveste”.

8.1. Tanto precisato, l’esame degli atti di causa (fedelmente riprodotti e puntualmente richiamati nel ricorso introduttivo, in ossequio al principio di autosufficienza) documenta la veridicità dell’assunto posto a suffragio del primo motivo, limitatamente alla posizione di G., L. e G.P..

Nelle impugnative giurisdizionali spiegate dai soci risulta infatti, sin dall’introduzione della lite (cfr. il p. 1.2., di identico contenuto, dei rispettivi ricorsi alla C.T.P. di Treviso), specificamente dedotta (in aggiunta alla pretesa violazione degli adempimenti imposti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis) la lesione del diritto al contraddittorio endoprocedimentale nascente dalle disposizioni di rango comunitario (mentre contestazione analoga non si riscontra nell’impugnativa dell’accertamento proposta dalla società): sicchè, in tutta evidenza, la (ri)proposizione della questione quale ragione di appello non poteva certo considerarsi nuova.

8.2. Dall’accertamento di tale circostanza non discende, tuttavia l’accoglimento della doglianza proposta ai sensi dell’art. 360 c.p.c. e la cassazione con rinvio della sentenza impugnata.

Invero, il mancato esame di un motivo di gravame ascrivibile ad un error in procedendo commesso dal giudice di merito giustifica l’annullamento, da parte della Suprema Corte, della sentenza impugnata a condizione che le questioni di fatto o di diritto, dedotte con il motivo non esaminato, siano decisive. Per contro, qualora il motivo non esaminato esponga questioni in punto di diritto infondate ed esse non richiedano ulteriori accertamenti di fatto, la Corte di Cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, ha il potere di correggere la motivazione della decisione ex art. 384 c.p.c. mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano il provvedimento gravato, apparendo palese l’incongruità di una rimessione della causa nella fase di merito al fine di dichiarare l’infondatezza del motivo erroneamente non vagliato.

Siffatto principio di diritto, già consolidato in un risalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità (Cass. 18/08/2006, n. 18190; Cass. 12/04/2006, n. 8561; Cass. 18/02/2005, n. 3388), è stato avvalorato dalla estensione (con la modifica dell’art. 384 c.p.c. operata dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) delle ipotesi di decisione nel merito della Suprema Corte anche in caso di violazione di norme processuali e dalla costituzionalizzazione (nell’art. 111, comma 2, della Carta fondamentale) dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, i quali impongono interpretazioni che limitino, anche attraverso l’opera decisoria della Suprema Corte, i tempi di svolgimento del processo (e, quindi, a fortiori il dispendio di un grado di giudizio) senza sacrificio del diritto di azione e difesa (tra le tante, cfr. Cass. 01/02/2010, n. 2313; Cass., Sez. U., 02/02/2017, n. 2731; Cass. 28/06/2017, n. 16171; Cass. 19/04/2018, n. 9693).

Alla luce di quanto sopra, il riscontrato error in procedendo della C.T.R. non conduce alla cassazione con rinvio della causa, apparendo la questione non esaminata (poichè inesattamente valutata come nuova in appello) destituita di fondamento giuridico.

I controversi accertamenti condotti dall’A.F. hanno ad oggetto la rideterminazione del reddito imponibile ai fini IRPEF nei riguardi dei soci persone fisiche (ed ai fini IRES nei riguardi della società): tributi non armonizzati, dunque, per i quali, in assenza di specifica prescrizione, il diritto nazionale non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto (sulla scia di Cass., Sez. U., 09/12/2015, n. 24823, cfr., ex plurimis, Cass. 11/05/2018, n. 11560; Cass. 07/09/2018, n. 21767).

9. In forza delle esposte considerazioni, rimane assorbito l’esame del secondo motivo di ricorso, peraltro inammissibile per difetto di interesse ad impugnare poichè diretto a sindacare argomentazioni di merito (sull’inesistenza del preventivo obbligo di contraddittorio) chiaramente svolte ad abundantiam (ciò inferendosi dall’uso di una proposizione subordinata concessiva introdotta dalla congiunzione “ancorchè”) dal giudice di appello, già spogliatosi della potestas iudicandi per effetto della declaratoria di inammissibilità del motivo (su tale principio, basti, tra tutte, il richiamo a Cass., Sez. U., 20/02/2007, n. 3840).

10. Le censure contenute dal terzo al quattordicesimo motivo (di seguito sintetizzate) involgono, sotto plurimi e differenti profili, la legittimità della praticata ripresa a tassazione.

11. Con il terzo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, contraddittorietà della motivazione circa l’accertamento del fatto, decisivo e controverso, che la motivazione degli avvisi di accertamento contestasse ai destinatari l’integrazione dei presupposti di una fattispecie elusiva ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis.

12. Con il quarto motivo, si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 37-bis, 39 e 42, della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, degli artt. 1325,1343,1344 e 1418 c.c. e dell’art. 12 preleggi.

Più specificamente, assume parte ricorrente che: a differenza di quanto ritenuto dai giudici di secondo grado, i contratti conclusi per scopi esclusivamente fiscali non possono reputarsi nulli per mancanza di causa o per illiceità della causa o perchè conclusi in frode alla legge; laddove questa Corte ha ritenuto la nullità del negozio per frode alla legge tributaria, lo ha fatto con riguardo ad operazioni poste in essere prima della entrata in vigore della norma antielusiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis; lo specifico regime d’inopponibilità dei negozi conclusi in frode alla legge tributaria introdotta da tale ultima norma preclude l’applicazione per le materie ed operazioni così individuate del principio di nullità dei negozi per frode alla legge sancito dall’art. 1344 c.c..

Aggiunge, poi, che la disposizione dettata dalla L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, non consente di contestare la nullità dei contratti conclusi in elusione dalla legge tributaria con effetto dalla sua entrata in vigore.

Sostiene, infine, che la norma antielusiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, ed i relativi obblighi di contraddittorio preventivo devono sempre trovare applicazione ogniqualvolta sia contestata l’integrazione dei relativi presupposti di applicabilità, ponendosi altrimenti la norma in contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., in quanto, con l’espediente della contestazione della nullità dei negozi posti in essere dal contribuente, l’Amministrazione finanziaria sarebbe legittimata a negare le garanzie stabilite dall’art. 37-bis.

In via subordinata all’accoglimento del motivo, solleva questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 37-bis e 39, nella parte in cui non obbligano l’Amministrazione finanziaria a rispettare gli oneri procedimentali di cui all’art. 37-bis, commi 4 e 5, nel caso in cui contesti la nullità per frode alla legge di fatti, atti e negozi di cui al comma 3 della stessa norma sulla base delle medesime contestazioni che l’avrebbero legittimata a formulare un rilievo antielusivo sempre ai sensi del predetto art. 37-bis.

13. Con il quinto motivo, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 37-bis, 39 e 42, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si sostiene la erroneità della sentenza nella parte in cui ha considerato rispettati gli oneri procedimentali previsti dall’art. 37-bis, commi 4 e 5, per il solo fatto che in sede di verifica erano state domandate (peraltro, senza la fissazione di un termine per la risposta nè l’indicazione che essa pervenisse per iscritto) le “motivazioni economiche del contratto di prestito delle azioni”.

Ad avviso del ricorrente, l’osservanza delle prescrizioni imposte a pena di nullità dall’art. 37-bis richiedeva, invece, che l’A.F.: (i) comunicasse al contribuente i motivi per cui riteneva la realizzata operazione come diretta ad ottenere un indebito risparmio d’imposta mediante l’aggiramento di divieti ed obblighi tributari e priva di valide ragioni economiche; (ii) richiedesse al contribuente i “chiarimenti” relativi a tale contestazione, da inviare per iscritto entro sessanta giorni dalla ricezione della richiesta; (iii) motivasse specificamente l’avviso di accertamento in ordine ai chiarimenti forniti.

14. Con il sesto mezzo di gravame, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si assume la contraddittorietà della motivazione della sentenza gravata in ordine all’accertamento del fatto, decisivo e controverso, “se siano contraddittori gli avvisi di accertamento impugnati laddove fondano la loro pretesa sulla triplice considerazione che il contratto di prestito delle azioni sarebbe obiettivamente simulato, nullo per mancanza o illiceità della causa e comunque inopponibile all’amministrazione finanziaria”.

15. Con il settimo motivo, ancora in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si denuncia la contraddittorietà della motivazione della sentenza gravata in ordine all’accertamento del fatto, decisivo e controverso, “se i pagamenti relativi all’operazione di prestito titoli siano effettivamente avvenuti”.

In particolare, sarebbe inficiato da intrinseca ed irriducibile contraddizione il passaggio argomentativo con cui il giudice di appello ha reputato “la reciprocità e la simultaneità delle operazioni, unitamente alla entità dei dividendi, inferiore a quella della commissione, pur in presenza delle contabili bancarie (…) idonea a provare le eseguite operazioni (accredito e addebito) ma non l’effettività dei pagamenti dei dividendi, mancando la dimostrazione della necessaria provvista da parte dell’ordinante (Mont Bazon)”.

16. Con l’ottavo motivo, anch’esso ricondotto alla fattispecie dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si lamenta l’omessa motivazione su un fatto decisivo e controverso, per avere il giudice territoriale omesso di valutare che la effettività dei pagamenti (e cioè l’esistenza della provvista relativa al pagamento dei dividendi da parte di Mont Bazon e della commissione a favore di DFD) era stata attestata dall’Autorità fiscale della Repubblica Ceca all’esito di una procedura di scambio di informazioni con l’A.F. italiana.

17. Con il nono motivo, si eccepisce la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: la sentenza non avrebbe pronunciato sul motivo denunciante la violazione dei principi di collaborazione e buona fede tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, violazione integrata dall’avere l’Ufficio non tenuto conto della “inoppugnabile prova della effettività dei pagamenti intercorsi con DFD”.

18. Con il decimo mezzo di gravame, articolato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si lamenta la violazione e falsa applicazione dei principi di collaborazione e buona fede tra contribuente ed Amministrazione finanziaria nonchè dell’art. 6 della CEDU, per avere la C.T.R. escluso che la mancata valutazione da parte dell’Ufficio di documenti favorevoli al contribuente (in specie, le risposte fornite dall’Autorità fiscale della Repubblica Ceca) integri una violazione dei principi di buona fede e collaborazione.

19. Con l’undicesimo motivo, si rileva la violazione e falsa applicazione degli artt. 1325,1343,1344,1362,1367,1418,1813,1815 e 1933 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il giudice di secondo grado erroneamente configurato quale negozio atipico a carattere aleatorio un contratto di prestito di azioni connotato da una remunerazione variabile per il mutuante in funzione dell’ammontare dei dividendi distribuiti dalla società emittente le azioni mutuate.

Un duplice errore di diritto inficerebbe siffatto apprezzamento, in asserito contrasto con: (i) l’art. 1362 c.c., in quanto basato su un’interpretazione del contratto contraria alla comune intenzione delle parti come desumibile dal tenore letterale delle clausole e dal contegno dei contraenti, indici univoci dell’intento di stipulare un mutuo; (ii) l’art. 1815 c.c., per la errata considerazione che la determinazione del corrispettivo costituisca elemento essenziale del contratto di mutuo, come tale idoneo ad incidere sulla sua causa.

Ad avviso di parte ricorrente, la previsione di una commissione annuale commisurata ai dividendi distribuiti dalla Mont Bazon non mutava la natura del contratto, essendo ben possibile nel contratto di mutuo la pattuizione di un corrispettivo non prefissato, ma variabile; tale contratto non aveva neppure causa di scommessa, atteso che la scommessa postula l’assunzione da parte di entrambi i contraenti del rischio contrapposto ed equivalente di eseguire una prestazione, che poi dovrà essere eseguita da uno solo dei due, caratteristica questa non rinvenibile nel contratto di prestito di azioni qui concluso.

La nullità del contratto per mancanza o illiceità della causa non poteva nemmeno farsi discendere dal fatto che esso, a prescindere dagli effetti fiscali, generasse per una delle parti una perdita economica, essendo esclusa l’esistenza di un principio di equivalenza delle prestazioni nei contratti a prestazioni corrispettive.

20. Con il dodicesimo motivo, per insufficiente motivazione in ordine all’accertamento di un fatto decisivo e controverso in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si critica la sentenza impugnata laddove ha ritenuto le ragioni economiche sottese all’operazione marginali rispetto all’asserito vantaggio fiscale, avendo preso in considerazione soltanto i vantaggi economici effettivamente realizzati ex post (cioè all’esito dell’operazione) e non già i vantaggi prospettabili ex ante, così mancando di valutare se le informazioni a disposizione della Styl Grand S.p.A. al momento dell’investimento avrebbero comunque indotto quest’ultima a compiere l’operazione di prestito delle azioni anche in mancanza degli (asseriti) vantaggi fiscali.

21. Con il tredicesimo mezzo, articolato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si denuncia omessa motivazione in ordine all’accertamento di un fatto decisivo e controverso per il giudizio, costituito dal “se i risultati di bilancio di Mont Bazon dipendevano esclusivamente dalla partecipazione di tale società in un’altra società di investimento controllata e gestita da un gruppo completamente estraneo a quello cui faceva capo DFD”.

Segnatamente, la C.T.R. non avrebbe considerato che l’utile di esercizio di Mont Bazon dipendeva esclusivamente dai risultati realizzati dall’organismo di investimento, terzo ed indipendente, Selected Capital Opportunity, nel quale la Mont Bazon aveva investito totalmente il suo attivo; su detto organismo, tuttavia, la Mont Bazon non esercitava alcun controllo nè poteva altrimenti incidere al fine di determinare i proventi, detenendo unicamente una partecipazione rappresentata da una azione di classe B, non assicurante nemmeno il diritto di voto nell’assemblea.

La documentazione prodotta dimostrava altresì che la DFD (ma neppure altra società facente parte del gruppo bancario Fortis) non era in grado di predeterminare (nè poteva influire in maniera decisiva sul) l’ammontare dei dividendi distribuiti da Mont Bazon e, per conseguenza, anche l’entità della commissione da versare.

22. Con il quattordicesimo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, e della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, commi 4 e 4-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il giudice di prossimità erroneamente escluso la deducibilità dal reddito imponibile IRES delle commissioni pagate da Styl Grand a DFD, costi sostenuti in dipendenza di contratti civilisticamente nulli.

Sostiene il ricorrente che, a mente dell’art. 109, comma 5, l’inerenza dei componenti negativi di reddito alla determinazione dell’imponibile IRES è correlata al solo fatto che si riferiscono ad attività e beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che fruiscano di un regime di esclusione, presupposto sussistente nel caso di specie atteso che la commissione era stata sostenuta per il prestito di azioni erano produttive di proventi imponibili per il 5 per cento del loro ammontare.

D’altro canto, la L. n. 537 del 1993, art. 14, commi 4 e 4-bis, confermano la deducibilità dei costi derivanti da contratti soltanto civilisticamente illeciti, operando il divieto di deduzione nel solo caso in cui i costi derivino da acquisti di beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti per i quali il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale.

23. Tutti i motivi sin qui illustrati vanno disattesi.

Lo scrutinio di essi postula, come premessa logica indefettibile, la corretta sussunzione sub specie iuris della complessa operazione economica sottoposta a verifica ad opera dell’A.F. e da cui è scaturito l’accertamento oggetto del contendere.

23.1. Occorre, in particolar modo, soffermare l’attenzione sul contratto di stock lending agreement intercorso tra la ricorrente Styl Grand S.p.A. e la società DFD s.r.o. sedente nella Repubblica Ceca.

In linea generale, tale figura negoziale consiste nel prestito di titoli (ad esempio, azioni) da un soggetto (il mutuante o lender) ad un altro soggetto (il mutuatario o borrower) con previsione in favore di quest’ultimo del diritto all’incasso dei dividendi dei titoli mutuati verso il pagamento di una commissione (chiamata fee), di importo corrispondente o meno all’ammontare dei dividendi riscossi, e con contestuale costituzione di una garanzia (denominata collateral), rappresentata da denaro o altri titoli, volta a tenere indenne il lender dal rischio di inadempimento dell’obbligo di restituzione dei titoli.

Allo spirare del vincolo pattizio, il mutuatario deve restituire al mutuante altrettanti titoli di identica specie e quantità di quelli ricevuti, rientrando in possesso dei beni concessi in garanzia (nonchè, se il collateral è costituito da denaro, di una remunerazione di esso quantificata al tasso di mercato).

Caratteristica essenziale del negozio de quo è la necessità che, per tutto il corso dell’operazione, rimanga inalterato il rapporto tra il valore dei titoli mutuati e il valore dei beni costituiti in garanzia, sicchè, in caso di apprezzamento dei titoli, il borrower è tenuto ad integrare la garanzia originariamente prestata mentre, in ipotesi di deprezzamento, il lender è tenuto a restituire l’eccedenza.

Con riguardo alla durata, si distinguono due tipi di contratto: a) prestiti aperti (on open basis), privi di un termine finale stabilito, nei quali il borrower può chiudere l’operazione in qualsiasi momento (return) e il lender può chiedere la restituzione dei titoli in qualunque momento (recali); b) prestiti chiusi, con durata stabilita a priori, nei quali i contraenti non possono chiudere l’operazione in anticipo e neppure rinegoziare il tasso; le commissioni maturate sui prestiti, come pure gli interessi sulla garanzia cash (rebate), vengono pagati e incassati mensilmente e non alla scadenza dell’operazione.

23.2. Nella specie, per come illustrato dalla sentenza impugnata e concordemente riferito dallo stesso ricorso, la concreta modulazione del rapporto negoziale è avvenuta nel seguente modo:

a) in data 14 ottobre 2004 la Styl Grand ha concluso con la società DFD Czech s.r.o., fiscalmente residente nella Repubblica Ceca, un contratto di stock lending avente ad oggetto il prestito di n. 3.000 azioni (del valore nominale unitario di Euro 1,00) emesse dalla società Mont Bazon Consultadoria e Servicos, Sociedade Unipessonal S.A., fiscalmente residente in Portogallo, nella zona franca di Madeira, società interamente controllata dalla DFD;

b) in virtù dell’accordo stipulato, la Styl Grand, “prestataria” delle azioni, ha acquisito il diritto all’incasso dei dividendi correlati ai titoli ricevuti in prestito, mentre la DFD, titolare e “prestatore” delle azioni, si è riservata l’esercizio dei diritti amministrativi e sociali, quale il diritto di voto (salvo il consenso scritto della “prestataria” per le operazioni esulanti dalla gestione ordinaria), e si è obbligata a deliberare la distribuzione integrale dell’utile di esercizio conseguito dalla controllata Mont Bazon;

c) al prestito non oneroso dei titoli è stata legata una pattuizione in forza della quale, laddove l’ammontare dei dividendi distribuiti in ciascun anno da Mont Bazon fosse risultato inferiore all’importo di Euro 660.000,00, la Styl Grand non avrebbe dovuto corrispondere alcuna commissione alla DFD; in ipotesi di distribuzione di dividendi in misura superiore a detta cifra, invece, la Styl Grand avrebbe dovuto corrispondere alla DFD una commissione pari all’ammontare di detti dividendi incrementato di una percentuale pari al 12,702 per cento, ma, in ogni caso, non superiore a Euro 1.014.000,00;

d) al fine di assicurare l’adempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto di prestito di azioni, la Styl Grand si è altresì obbligata a depositare sul proprio conto corrente intrattenuto presso la Banca di Gestione Patrimoniale S.A., appartenente al gruppo Credit Suisse, una garanzia in denaro pari alla perdita massima realizzabile di Euro 114.000,00 (cd. collateral) ed a conferire mandato irrevocabile a tale banca di pagare a DFD l’ammontare della commissione che le sarebbe spettata, escutendo la garanzia in denaro;

e) con contratto collegato, la Styl Grand si è inoltre obbligata a concedere in pegno alla DFD le azioni ricevute in prestito, onde garantire la loro restituzione alla relativa scadenza, sicchè esse non sono state materialmente trasferite;

f) la scadenza dello stock lending agreement è stata convenzionalmente fissata al 31 gennaio 2007, con la previsione che a tale data la Styl Grand avrebbe ritrasferito alla DFD azioni della stessa quantità e qualità di quelle ricevute in prestito.

Nell’esercizio del periodo compreso tra il 1 dicembre 2003 e il 30 novembre 2004, la Mont Bazon (la quale aveva interamente investito l’attivo in un’azione rappresentativa di una quota di partecipazione totalitaria nella società d’investimento Selected Capital Opportunity, sedente nelle Isole Vergini Britanniche) ha realizzato un utile di oltre dodici milioni di Euro e distribuito alla Styl Grand dividendi per l’importo di Euro 779.702,00, riscossi in data 21 dicembre 2004 da quest’ultima la quale, in pari data, ha corrisposto alla DFD una commissione, determinata come in contratto, di Euro 878.740,00.

Nella dichiarazione fiscale relativa all’anno d’imposta 2004, la Styl Grand ha imputato alla formazione dell’imponibile IRES i dividendi percepiti, limitatamente al cinque per cento del relativo ammontare, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 3, nella versione ratione temporis vigente, ed esposto invece tra i costi l’intero importo versato a titolo di commissione.

23.3. In sede di verifica dell’Amministrazione finanziaria, la complessiva operazione, testè descritta, è stata ricondotta ad una fattispecie contrattuale nulla per assenza di causa (segnatamente, per difetto dell’alea sulla misura dei dividendi distribuibili, elemento necessariamente caratterizzante lo stock lending agreement), diretta a realizzare, in frode alla legge, un duplice indebito vantaggio fiscale, consistente nella esclusione dalla tassazione del 95 per cento dei presunti dividendi di fonte estera (giusta il disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89) e nella deduzione integrale dal reddito imponibile della commissione (fee) corrisposta al lender, in virtù del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109.

Siffatta ricostruzione è stata avallata dai giudici del merito.

In particolare, nel confutare le contestazioni dei contribuenti, la sentenza gravata ha escluso l’assimilabilità del negozio controverso “al solo contratto di stock lending o al contratto di mutuo tipico ex artt. 1813 c.c. ss. (..) poichè il prestito di titoli negoziato è alterato dalla contemporanea presenza di una scommessa – nulla per mancanza di alea – sulla entità dei dividendi distribuiti da Mont Bazon, di fatto controllata direttamente da DFD”, da ciò traendo la conseguenza che “l’unica finalità percepibile nel contratto stipulato è quella di assicurare alla Styl Grand sia l’indebita deduzione integrale dei costi di commissione previsti dal contratto, in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, che la contabilizzazione di dividendi inesistenti, esclusi da tassazione nella misura del 95% ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89”. Il meccanismo congegnato configurava, secondo la C.T.R., un’ipotesi di frode fiscale mediante un negozio unicamente finalizzato a sottrarre imponibile IRES, nullo per mancanza di causa (e, quindi, improduttivo degli illeciti effetti fiscali), come tale esulante dall’ambito applicativo della norma antielusiva dettata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis.

24. Il percorso argomentativo ora illustrato non è corretto, in quanto si incentra sull’inesatta qualificazione giuridica dell’operazione negoziale compiuta e non coglie l’effettivo fondamento del recupero a tassazione operato dall’Ufficio.

Esso, tuttavia, conduce egualmente alla conclusione, conforme a diritto, della legittimità della pretesa impositiva accertata, la quale resiste altresì ai rilievi degli impugnanti, sicchè il compito di questa Corte risiede (e, al contempo, si esaurisce) nella correzione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., della motivazione della sentenza impugnata, nei sensi in appresso esplicitati.

24.1. Nell’avviso di accertamento da cui origina la lite, il maggior reddito imponibile ai fini IRES della società Styl Grand è stato determinato nella differenza tra l’importo della commissione esposta dal contribuente come costo e la quota dei dividendi (pari al 5 per cento del complessivo) distribuiti dalla Mont Bazon e assoggettati a tassazione nella dichiarazione fiscale: è dunque la indeducibilità della fee l’autentico fulcro della operata ripresa impositiva.

24.2. Orbene, nello scrutinare vicende analoghe, il giudice della nomofilachia, con orientamento consolidato dalla reiterazione di identici principi, ha chiarito che “l’operazione di stock lending, ossia di prestito di azioni che preveda a favore del mutuatario il diritto all’incasso dei dividendi dietro versamento al mutuante di una commissione (corrispondente o meno all’ammontare dei dividendi riscossi), realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, senza che rilevi, ai fini tributari, che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, su un diritto di credito, sicchè è soggetto ai limiti previsti dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, restando il versamento della commissione costo indeducibile” (così Cass. 12/05/2017, n. 11872; conf. Cass. 04/06/2020, n. 10551; Cass. 28/09/2020, n. 20424).

Ed invero, l’usufrutto di azioni è una operazione finanziaria con la quale viene concesso il diritto a percepire i dividendi distribuiti da un’altra società a fronte di un corrispettivo comprensivo del valore attuale dei flussi futuri di utili: il cedente, pertanto, percepisce anticipatamente l’entità del dividendo sotto forma di corrispettivo per la cessione dell’usufrutto e il cessionario iscrive in bilancio, nell’attivo patrimoniale immateriale, il corrispondente onere.

24.3. Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, laddove prevede che “In deroga al comma 5 non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’art. 89”, individua un parallelismo tra la deducibilità del costo dell’usufrutto su azioni e l’imponibilità dei dividendi derivanti dalla sottostante partecipazione.

Nel contratto di stock lending, corrispondentemente, il prestito dei titoli si associa al diritto di percepire i relativi dividendi da parte del mutuatario, mentre il mutuante ha diritto al pagamento di una commissione in relazione al dividendo incassato.

Come nell’usufrutto di azioni, infatti, il contratto di stock lending trasferisce (temporaneamente) la titolarità del diritto al dividendo e per ottenere la relativa riscossione è previsto un costo.

Il fenomeno economico è dunque lo stesso, senza che assuma valenza, ai fini tributari (gli unici che qui rilevano, non essendovi la necessità di una declinatoria civilistica del contratto), la circostanza che nell’un caso si verta in un diritto reale e, nell’altro, in un diritto di credito: i costi sostenuti (ovvero la commissione versata al lender) per l’operazione di stock lending devono ritenersi indeducibili.

L’applicazione alla fattispecie in parola del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, non configura, d’altro canto, una impropria estensione analogica del dettato della norma, la quale opera un testuale riferimento “ad altro diritto analogo” senza ulteriori connotazioni, sicchè non va intesa come meramente confinata ai soli diritti reali (interpretazione da cui, del resto, ne deriverebbe una implicita abrogazione), non deponendo in tal senso nè la lettera, nè lo spirito della disposizione.

24.4. In sintesi, e per riepilogare.

Il contratto in esame non è nullo per mancanza di causa o per violazioni di norme imperative o per frode alla legge, e nemmeno è ascrivibile al fenomeno della elusione fiscale: lo stock lending agreement, per come in concreto posto in essere, integra un’ipotesi di evasione d’imposta.

I costi sostenuti per l’operazione (a titolo di commissione versata al lender o sotto altra veste) devono ritenersi, in applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, indeducibili, senza che al riguardo spieghi alcuna incidenza (diversamente da quanto opinato da parte ricorrente nella memoria illustrativa) il regime di imposizione cui è assoggettato il “prestatore” delle azioni.

25. Corretta nei predetti termini la motivazione della decisione gravata, può ora darsi conto, più specificamente, delle ragioni che giustificano la non accoglibilità dei motivi di ricorso.

26. Ricondotto lo stock lending nell’ambito della evasione d’imposta, sono in primis inammissibili le doglianze (terzo, quarto e quinto motivo) lamentanti, per vari aspetti (omessa contestazione dei presupposti, inosservanza degli oneri procedimentali), la violazione della disposizione antielusiva dettata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, non applicandosi quest’ultima al caso de quo.

Per l’effetto, priva di rilevanza si rivela la questione di legittimità costituzionale di detta norma sollevata con il quarto motivo.

27. Sulla scorta del compiuto inquadramento giuridico della vicenda negoziale e della espressa emenda ex art. 384 c.p.c., risulta assorbito il sesto motivo, afferente ad una supposta illogicità della decisione sulla motivazione dell’avviso di accertamento.

28. Del pari inammissibili sono le censure (settimo ed ottavo motivo) con cui, denunciando carenze o contraddittorietà della motivazione della sentenza, parte ricorrente rileva come il giudice territoriale non abbia considerato l’effettività dei pagamenti dei dividendi, pur in presenza di idonea documentazione (contabili bancarie, attestazioni dell’Autorità fiscale della Repubblica Ceca) e, in conseguenza dell’omessa valutazione di tale “inoppugnabile prova”, assume (deducendo error in procedendo per violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato) la mancata pronuncia sulla eccepita violazione dei principi di collaborazione e buona fede tra A.F. e contribuente (nono motivo).

L’inammissibilità discende da una duplice, concorrente, ragione.

Innanzitutto, poichè le articolate doglianze richiedono a questa Corte un (inaccettabile) riesame delle emergenze istruttorie, un vaglio su questioni di mero fatto ed un apprezzamento di attendibilità e di concludenza di determinati documenti, attività esclusivamente riservate al giudice di merito ed estranee alla natura ed alla finalità del sindacato di legittimità.

Ancora, perchè le questioni così poste sono inconferenti rispetto alla corretta qualificazione giuridica della vicenda e, comunque, non incidenti (tanto in fatto quanto in diritto) sul fondamento della ripresa a tassazione, da rinvenirsi, come già detto, nella indeducibilità della commissione esposta quale costo nella dichiarazione del contribuente.

29. La considerazione da ultimo svolta spiega l’inammissibilità del decimo motivo, anch’esso, nel postulare la violazione (sotto altro profilo) dei principi di collaborazione e buona fede tra contribuente ed A.F., non pertinente alla individuata ragione della ripresa impositiva.

30. Inammissibile per irrilevanza, alla luce delle argomentazioni sulla natura dell’operazione diffusamente esplicate sopra sub p. 24., è l’undicesimo motivo, inerente alla nullità del contratto – ritenuta dal giudice di prossimità – ed alla qualificazione – prospettata da parte impugnante – come negozio di mutuo, privo di causa di scommessa.

31. Pure inammissibili sono il dodicesimo ed il tredicesimo mezzo di gravame, recanti critica alla sentenza impugnata in ordine alle individuate ragioni economiche sottese all’operazione, al controllo esercitato dalla DFD sulla Mont Bazon, società emittente le azioni, ed alla possibilità della prima di predeterminare i dividendi distribuiti dalla seconda.

Per un verso, tali censure sollecitano la Suprema Corte ad un nuovo (ed in thesi differente) apprezzamento di circostanze fattuali, valutazione esulante dai compiti del giudice della nomofilachia.

D’altro canto, l’accertamento compiuto dal giudice di merito sugli evocati aspetti era strumentalmente funzionale alla declaratoria di nullità del contratto di stock lending, in una prospettiva d’indagine superata (e, pertanto, irrilevante) dalla sussunzione (qui compiuta in via di emenda) della vicenda in un’ipotesi di evasione d’imposta.

32. Infondato, da ultimo, il quattordicesimo motivo (con cui si sostiene la deducibilità dei costi derivanti da contratti civilisticamente nulli) in quanto argomentato sull’insussistente presupposto della invalidità dello stock lending e sull’applicabilità nella specie del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5: sul punto, basti qui richiamare le notazioni (sopra illustrate al p. GG) in ordine alla assimilazione della figura negoziale de qua all’usufrutto di azioni ed alla conseguente operatività della regola dell’indeducibilità dei costi sancita dal citato art. 109, comma 8.

33. Muovendo allo scrutinio delle doglianze relative solo ai soci, con il quindicesimo motivo – per insufficiente motivazione circa un

fatto controverso e decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – si imputa alla C.T.R. di aver omesso di “spiegare perchè la presunzione di distribuzione di utili extra bilancio a soci di società a ristretta base azionaria sarebbe applicabile anche nel caso in cui l’ufficio, anzichè accertare utili extracontabili, si limiti a disconoscere costi dedotti perchè contabilizzati da tale società”.

In specie, la sentenza impugnata non avrebbe chiarito “per quale ragione il disconoscimento della rilevanza fiscale di costi contabilizzati equivarrebbe, agli effetti della presunzione di distribuzione in questione, all’accertamento di utili extracontabili”.

33.1. Il motivo non può trovare accoglimento.

Devesi innanzitutto rilevare che la questione è stata prospettata con accenti parzialmente differenti in grado di appello, laddove i soci della Styl Grand, anzichè porre in dubbio la configurabilità dei costi contabilizzati come utili extrabilancio, hanno contestato (pag. 30 del ricorso in appello, allegato sub 24 al libello introduttivo) l’effettiva distribuzione di utili extracontabili ai soci.

A tale deduzione l’adita C.T.R. ha fornito piena e corretta risposta con il richiamo al consolidato indirizzo esegetico di questa Corte che onera i soci di compagini societarie a ristretta base azionaria della prova contraria alla presunzione di distribuzione degli utili (ex multis, Cass. 11/08/2020, n. 16913; Cass. 02/07/2020, n. 13550; Cass. 19/12/2019, n. 33976; Cass. 20/12/2018, n. 32959) e con il rilievo della mancanza di una prova del genere nella vicenda esaminata.

In disparte la considerazione sulla novità della censura in questa sede, l’argomentazione del giudice di prossimità va integrata (al fine di dare esaustiva contezza dell’erroneità dell’assunto dei ricorrenti) con la notazione (già più volte sottolineata da questa Corte) che i costi rappresentano un elemento rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa, sicchè quando essi siano fittizi oppure reputati erroneamente deducibili risulta alterata la base imponibile ed opera la presunzione che il reddito è maggiore di quanto dichiarato (“non è condivisibile la tesi sostenuta del ricorrente, secondo il quale i costi fiscalmente non deducibili non sarebbero equiparabili a maggiori ricavi in nero”: così Cass. 12/11/2020, n. 25501; in senso analogo, Cass. 19/10/2012, nn. 17959-17960).

34. Con il sedicesimo mezzo, articolato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si denuncia la contraddittoria motivazione della sentenza in ordine all’accertamento del fatto (decisivo e controverso) “se Styl Grand abbia distribuito ai propri soci utili extracontabili alimentati con il dividendo percepito da Mont Bazon, nonostante la stessa sentenza abbia ritenuto inesistente il pagamento di tale dividendo”.

La doglianza non coglie nel segno, muovendo da un erroneo presupposto in punto di fatto: il maggior reddito imponibile della società Styl Grand (tradotto nell’utile presuntivamente distribuito ai soci) è stato infatti determinato negli avvisi di accertamento (e tale ritenuto nella sentenza gravata, come si inferisce dalla pag. 19, capo VI.) sulla base dei costi indeducibili esposti a titolo di commissione versata alla DFD, non dei dividendi ricevuti dalla Mont Bazon.

35. Con il diciassettesimo motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 47, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

A parere dei ricorrenti, il giudice territoriale avrebbe errato nel ritenere che alla formazione del reddito imponibile dei due soci detentori di una partecipazione “qualificata” ( G.L. e G.G.), gli utili extracontabili presuntivamente distribuiti concorrano per il loro intero ammontare anzichè limitatamente alla quota del 40 per cento dell’ammontare, secondo quanto prescritto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 47, comma 1, disposizione operante anche per gli utili distribuiti in forma “occulta”.

35.1. Il motivo è infondato.

Esso si infrange – senza addurre elementi per un ripensamento critico – contro il monolitico orientamento del giudice di nomofilachia secondo cui, in caso di società a ristretta base partecipativa, quando viene contestata la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, la norma dettata dal citato art. 47 attiene unicamente alla tassazione degli utili distribuiti ai soci con delibere formali dell’assemblea e, pertanto, non trova applicazione per i redditi extracontabili, non menzionati nella contabilità societaria.

Al riguardo, si è condivisibilmente affermato che il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 47, laddove prevede che “gli utili distribuiti in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione dalle società, anche in occasione della liquidazione, concorrono alla formazione del reddito imponibile complessivo limitatamente al 40 per cento del loro ammontare” riguarda “la modifica attuata al T.U.I.R. con il D.Lgs. n. 344 del 2003, sicchè il sistema impositivo degli utili da partecipazione è stato caratterizzato dall’abrogazione del metodo del credito d’imposta sui dividendi e del sistema di imputazione e dall’adozione di un sistema di parziale esclusione della tassazione degli utili, al fine di mitigare gli effetti della doppia imposizione economica, in quanto gli utili distribuiti sono stati già tassati in capo alla società che li ha prodotti. Al contrario (…) trattandosi di utili “in nero”, mai pervenuti nella contabilità societaria, è chiaro che non vi è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione che non v’è mai stata, non avendo la società mai dichiarato tali utili extracontabili” (così, testualmente, Cass. 23/12/2019, n. 34282; conf. Cass. 19/11/2020, n. 26317).

36. Per ragioni in tutto identiche è infondato il diciottesimo motivo, con cui – per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 3, comma 3, e art. 47 nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – si deduce l’erroneità della pronuncia impugnata nella parte in cui ha reputato che alla formazione del reddito imponibile di G.P., socio detentore di una partecipazione “non qualificata”, gli utili extracontabili distribuiti in via presuntiva distribuiti concorrano per il loro intero ammontare anzichè essere assoggettati soltanto alla ritenuta alla fonte del 12,50 per cento a titolo di imposta.

37. Nella memoria illustrativa depositata ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c., i ricorrenti formulano un ulteriore motivo di impugnazione, per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, comma 2, come modificato dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 15, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

In dettaglio, i soci della Styl Grand chiedono di rideterminare l’entità delle sanzioni irrogate con gli avvisi di accertamento a loro carico, riducendole dalla misura (minima all’epoca di emissione degli avvisi) del 100 per cento delle maggiori imposte accertate alla misura (minima in base alle norme sopravvenute) del 90 per cento delle maggiori imposte accertate.

37.1. L’istanza è ammissibile: innanzi la Suprema Corte è infatti consentita l’invocazione di disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove retroattive ed applicabili al rapporto dedotto, avendo il giudizio di legittimità ad oggetto non l’operato del giudice, ma la conformità della decisione adottata all’ordinamento giuridico (Cass. 13/07/2020, n. 14848; Cass., 27/10/2016 n. 21691).

37.2. Essa, tuttavia, non può trovare accoglimento.

Giova premettere che la revisione del sistema sanzionatorio amministrativo in materia tributaria operata dal menzionato D.Lgs. n. 158 del 2015 si è mossa lungo plurime e non univoche linee direttrici: la riduzione delle sanzioni per alcune violazioni già tipizzate (ad esempio, per le dichiarazioni infedeli, la sanzione, prima compresa tra il cento e duecento per cento della maggior imposta dovuta o della differenza del credito utilizzato, è stata diminuita alla misura compresa tra il novanta ed il centoottanta per cento); la introduzione di nuove sanzioni (quale la maggiorazione della metà della sanzione prevista per la dichiarazione infedele, quando la violazione è realizzata mediante l’utilizzo di fatture o altra documentazione falsa o per operazioni inesistenti, mediante artifici o raggiri, condotte simulatorie o fraudolente), la conferma dell’importo di altre sanzioni già previste (ad esempio, per l’omissione di dichiarazione).

Non operando la modifica normativa in esame nel senso di un generalizzato favor rei, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che la mera affermazione di uno ius superveniens più favorevole non consente di operare sic et simpliciter la trasformazione della sanzione irrogata in sanzione illegale, specie in assenza di specifica deduzione dell’applicabilità in concreto (avuto riguardo alle peculiari condizioni esistenti, alla tipologia della condotta e agli elementi di fatto rilevanti per la determinazione al minimo edittale) di una sanzione tributaria inferiore rispetto a quella applicata (ex plurimis, Cass. 11/11/2019, n. 29046; Cass. 30/11/2018, n. 31062; Cass. 28/06/2018, n. 17143; Cass. 28/06/2017, n. 16128).

37.3. Nella specie, l’istanza dei ricorrenti (peraltro non assistita dall’allegazione della modesta gravità della violazione tale da giustificare l’applicazione del nuovo minimo come misura congrua) fa riferimento, mediante fotoriproduzione di stralci dei documenti inseriti nel corpo della memoria, agli originari avvisi di accertamento a carico dei soci della Styl Grand, recanti l’irrogazione di sanzioni (nella misura minima del 100 per cento, allora vigente) di Euro 132.261 nei confronti di G.G., di Euro 170.050 nei confronti di G.L. e di Euro 73.907 nei confronti di G.P..

In tal guisa formulata, la richiesta non offre le corrette coordinate di apprezzamento della invocata rideterminazione delle sanzioni.

E’ infatti pacifico (ne dà atto la sentenza impugnata, pronunciando la cessazione della materia del contendere) che con provvedimenti di autotutela parziale lite pendente l’A.F. ha, previa quantificazione dell’utile extrabilancio distribuito dalla società nella minore somma di Euro 99.038 (rispetto ai primigeni Euro 839.755), ridotto il maggior imponibile accertato nei confronti dei soci, cioè a dire la base di computo per le sanzioni da comminare.

All’importo (verosimilmente differente ed inferiore) delle sanzioni irrogate con i (non trascritti nè allegati al ricorso) provvedimenti di autotutela (costituenti, seppur resi a modifica o rettifica, esercizio di pretesa impositiva nuova e diversa rispetto a quella originariamente azionata: Cass. 28/12/2018, n. 33587; Cass. 19/02/2016, n. 3318) andava ragguagliata la domanda di riquantificazione delle sanzioni, la quale, per come invece spiegata, non permettere di individuare il trattamento sanzionatorio inferiore in concreto applicabile.

38. Conclusivamente rigettato il ricorso, il regolamento delle spese di giudizio segue la soccombenza.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Quinta Sezione Civile, il 11 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2021

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