Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16469 del 05/08/2016


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Cassazione civile sez. trib., 05/08/2016, (ud. 05/05/2016, dep. 05/08/2016), n.16469

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. CHINDEMI Domenico – rel. Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13283-2012 proposto da:

CASA GIARDINO SRL in persona dell’Amm.re Unico e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA L.

MANTEGAZZA 24, presso lo studio dell’avvocato MARCO GARDIN,

rappresentato e difeso dagli avvocati RICCARDO LOPARDI, GIOVANNI

PASANISI giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

COMUNE DELL’AQUILA in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA TRIONFALE 5637, presso lo studio

dell’avvocato FERDINANDO D’AMARIO, che lo rappresenta e difende

giusta delega in calce;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 60/2011 della COMM.TRIB.REG. dell’Abruzzo,

depositata il 13/12/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/05/2016 dal Consigliere Dott. DOMENICO CHINDEMI;

uditi per il ricorrente gli Avvocati LOPARDI e PASANISI che hanno

chiesto l’accoglimento e la declaratoria di inammissibilità o in

subordine rigetto ricorso incidentale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL

CORE SERGIO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con sentenza n. 60/04/11, depositata il 13.12.2011, la Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, in sede di rinvio della Corte di cassazione (Cass. 20257/08) accoglieva l’appello proposto dal Comune dell’Aquila avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale dell’Aquila n. 186/02/2001 e, in riferimento agli avvisi di accertamento ICI, per gli anni 1993-1995, emessi nei confronti della società Casa Giardino s.r.l., dichiarava congruo il valore medio di Lire 2.934.710.000 ai fini della determinazione ICI per i terreni in questione.

La società impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale deducendo i seguenti motivi:

a) violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 63 e art. 384 c.p.c., non avendo la CTR ottemperato al decisum della S.C. che imponeva di tener conto dei diversi livelli di edificabilità delle parti di terreni;

b) violazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, art. 2729 c.c. e vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, avendo dovuto la CTR tenere conto dell’area edificabile nel suo complesso in base al valore venale in comune commercio al 1 gennaio dell’anno di imposizione e, quindi con riferimento agli anni dal 1993 al 1997 e non con valori alla data della sua effettuazione (27.12.2000);

c) vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 in relazione al valore di stima del CTU ritenuto simile a quello del Comune, contestando la stima del CTU;

d) vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella parte in cui la stima comunale è stata ritenuta legittima

Il Comune detfiAquila si è costituito con controricorso.

Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 5.5.2016, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va, preliminarmente rilevata la ritualità del controricorso, essendo stata la relativa procura speciale rilasciata in data 27.6.2012, in epoca antecedente la notifica del controricorso avvenuta in data 28.6.2012.

La sentenza della Corte di Cassazione n. 20256/08 ha rilevato il vizio di motivazione della sentenza di appello in quanto “il giudice di merito non ha motivato la propria “preferenza” per uno dei valori esclusivamente sulla base della legittimità del criterio adottato, e potendo tale preferenza dipendere perciò da altre ragioni (che avrebbero però dovuto essere esplicitate)”.

Riteneva nei limiti specificati anche fondata la censura di violazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, rilevando come l’intera area in questione fosse da qualificarsi come “area fabbricabile” e che i parametri per la determinazione del valore delle aree fabbricabili sono fissati esclusivamente dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 5, (v. Cass. n. 19515 del 2003) e che il citato art. 5, al fine della determinazione dell’imposta de qua, fa riferimento al “valore venale in comune commercio” delle suddette aree.

“In relazione a tale valutazione, pertanto – prosegue la Corte – le aree in questione devono essere considerate nel loro complesso, prescindendo dalla destinazione che ciascuna porzione di esse in concreto avrà dopo la realizzazione del processo edificatorio, solo all’esito del quale potranno distinguersi i “fabbricati” dal resto.

Tuttavia, pur doverosamente prescindendo dall’edificazione, nella specie inesistente, ovvero di un concreto progetto di edificazione, ancorchè inattuato (e dalle sue previsioni), non può in linea di principio negarsi che il differente livello di edificabilità di un’area (o delle parti che la compongono), astrattamente considerato, incida sul “valore venale in comune commercio” della medesima, e perciò, in tali termini, non può ritenersi scorretta una determinazione del “valore venale in comune commercio” di un’area fabbricabile che tenga conto dei diversi livelli di edificabilità delle parti che la compongono, fermo restando che la valutazione dell’area medesima deve essere effettuata secondo il criterio del valore commerciale complessivo e non attraverso la sommatoria del valore commerciale di sue eventuali segmentazioni individuate in funzione della loro specifica edificabilità”.

Questi i principi a cui doveva attenersi il giudice di rinvio.

Il ricorso è infondato.

1. Il primo e quarto motivo, esaminati congiuntamente in quanto logicamente connessi, vanno disattesi in quanto censurano sotto il profilo della violazione di legge una valutazione di merito della CTR.

Il Comune, in base alla stessa pronuncia della S.C., ha determinato complessivamente il valore dell’area tenendo conto dei differenti livelli di edificabilità, avendo evidenziato la CTR la correttezza delle valutazione operata dall’ente, avendo preso in esame gli elementi di valutazione indicati dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 5, ritenendo sostanzialmente congrui tali valori, anche in relazione alla valutazione del CTU, ritenuta congrua, operata sia col metodo comparativo dei prezzi di vendita di aree similari, sia con quello commerciale relativo al valore delle potenzialità edificatorie analiticamente specificati entrambi..

2. In relazione al criterio di stima il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 5, fa riferimento al valore venale in comune commercio al 1 gennaio dell’anno di imposizione.

Non appare quindi scorretta la determinazione di tale valore ad un’annualità successiva (nel caso di specie il 2000) poi parametrato al primo gennaio di ciascun anno di imposta dal 1993 al 1995, previa devalutazione.

La pronuncia della CTR, inoltre, non appare fondata su presunzioni, ma sulle risultanze della CTU, con un criterio di valutazione ritenuto corretto dalla stessa pronuncia di rinvio della S.C..

3. L’ultimo motivo è inammissibile in quanto si traduce in censure di merito ad una sentenza correttamente motivata.

La società ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla CTR, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva.

E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto, nella specie del tutto predicabili – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile e tributario).

La ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze procedimentali, in punto di fatto e di diritto (nonostante quelle stesse risultanze appaiano ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione circostanziale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

Va, conseguentemente, rigettato il ricorso con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

Rigetta il ricorso, condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.000,00 per compensi professionali, oltre spese forfettarie e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 5 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2016

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